“Ho visto Kasab, quella sera, e non lo voglio morto”
Mentre seguivo la storia fuori dall'Hotel Oberoi, Kasab mi passò accanto in macchina
di James Fontanella-Khan per il Post
Oggi il tribunale speciale di Mumbai ha deciso che Mohammad Ajmal Kasab sarà impiccato per aver partecipato all’attacco terroristico che nel novembre 2008 uccise almeno 166 persone nella capitale finanziaria indiana. La decisione della corte di punire Kasab, l’unico attentatore catturato vivo durante gli attacchi, non sorprende. La pena accontenta la maggior parte della popolazione, che avrebbe probabilmente preferito che il ventiduenne pakistano fosse stato impiccato immediatamente dopo la sua cattura, senza processo.
Ma c’era un piccolo numero di persone che sperava in un verdetto diverso. Io tra loro. Per loro, se la corte avesse deciso di risparmiare Kasab – graziandolo dall’impiccagione – avrebbe dato un segnale al mondo di grande civiltà.
Nessuno ha mai messo in dubbio la colpevolezza di Kasab. Le immagini che lo immortalano con un kalashnikov tra le mani mentre semina terrore nella stazione principale di Mumbai bastano per convincere anche un bambino della brutalità del suo atto.
Io ero a Mumbai durante gli attacchi terroristici. Sono avvenuti nel mio quartiere a Colaba, nel sud della città. Ricordo ancora quella serie di botti che fecero tremare le finestre di casa. I bambini di strada correvano in cerca di riparo. Si sentivano urla di paura, ancora prima di quelle di disperazione per chi avrebbe da li a poco perso una persona amata.
Da giovane cronista di 25 anni mi apprestavo a dover raccontare al mondo quello che stava accadendo e sarebbe accaduto. Avevo paura. Incoscientemente, con mia moglie al mio fianco perché non volevamo separarci, siamo usciti di casa e siamo andati incontro all’ignoto. Mai avremmo pensato che l’attacco sarebbe diventato una specie di mini invasione. Ma sopratutto mai avrei pensato d’incrociare Kasab. Quella sera mentre seguivo la storia fuori dall’Hotel Oberoi, Kasab, mi passò accanto in macchina. Si fermò per un istante, poi ripartì di tutta fretta sul lungomare. Poco dopo venne catturato dalla polizia.
Nei giorni seguenti all’attentato l’India dimostrò grande maturità. Il desiderio di attaccare il vicino Pakistan era forte tra la gente ferita e umiliata da quell’invasione. Eppure, in quelle ore difficili, quando il mondo avrebbe tollerato un bombardamento lampo contro i campi d’addestramento dei militanti islamici in Pakistan, il governo indiano mantenne i nervi saldi.
Questa prudenza venne confermata durante il processo Kasab. Non sarebbe stato incredibile scoprire che il giovane attentatore era “morto accidentalmente” in carcere. Certo, il processo non è stato dei più imparziali. Molti degli avvocati d’ufficio si sono rifiutati di difendere Kasab. Quei pochi che accettato hanno affrontato grandi ostilità. Ma alla fine Kasab ha avuto un processo. Ha dato la sua versione dei fatti e la sua colpevolezza è stata provata.
Quello che per chi crede in questa grande democrazia è deludente, è il verdetto sulla pena. La decisione di condannare Kasab all’impiccagione potrebbe rendere vani gli sforzi fatti fino ad ora dall’India per dimostrare la sua maturità politica e civile. Ciò che mi fa sperare è che Kasab avrà il diritto di fare appello alla sentenza e potrà essere graziato dalla corte suprema indiana. Il fatto che nessuna condanna a morte sia stata eseguita dal 2004 è rassicurante.
Se l’India decidesse di graziarlo darebbe al mondo un grande lezione di civiltà e umanità.