Il Senegal visto dal Senegal
Il senegalese medio parla delle squadre di calcio italiane, della politica, della società e dell’economia, conosce diversi nomi di città e in alcuni casi parla la nostra lingua perché è stato in Italia almeno una volta nella vita
di Valeria Gentile
Poche cose vengono in mente all’italiano medio che pensa al Senegal: bambini sporchi e affamati, clandestini scampati alla morte sui gommoni, “vù cumprà” o terroristi islamici. Il senegalese medio, invece, parla delle squadre di calcio italiane, della politica, della società e dell’economia, conosce diversi nomi di città e in alcuni casi parla la nostra lingua perché è stato in Italia almeno una volta nella vita. Nell’era del pacchetto “sicurezza” voluto dalla Lega Nord, che introduce il reato di clandestinità e le ronde istituzionalizzate, c’è qualcosa che non quadra.
Sono i muratori delle nostre case e gli operai delle nostre fabbriche, i cavatori e i benzinai, sono le colf e le badanti dei nostri anziani, i venditori ambulanti delle nostre spiagge e i cuochi dei nostri ristoranti, i raccoglitori della nostra frutta e gli addetti al riciclaggio dei nostri rifiuti: gli immigrati stanno salvando dal baratro il nostro Paese e noi non sappiamo niente di loro, né dei loro Paesi di provenienza. Non vogliamo più sentir parlare di pale e mattoni, scope e stracci, camion e fornelli, lamentandoci nel frattempo della crisi, e crediamo di sapere tutto di questi intrusi che ci “rubano il lavoro”: un bagaglio conoscitivo fatto di luoghi comuni, pregiudizi secolari e una propaganda razzista senza scrupoli messa in atto dai politici e dai media.
Da quel famoso undici settembre tutto è cambiato. Erano anni in cui l’immigrazione in Italia non destava l’allarmismo ed il terrore di oggi, non creava problemi di portata nazionale ed epocale e non costituiva affatto uno dei punti chiave dell’agenda setting. Il razzismo non era una questione religiosa e gli africani erano associati alla storia recente del colonialismo fascista, provocando contrastanti sensazioni di patriottismo e senso di colpa insieme. Dopo il 2001, improvvisamente, un uomo con la pelle scura, una pelle d’ebano che profuma di mandorla, è diventato automaticamente non solo un musulmano, ma un integralista islamico legato ad Al Qaeda e quindi pericoloso per l’Occidente. Sono cominciati anni bui per gli immigrati e anni di terrore per i cittadini e i politici – che hanno preferito chiudere, respingere, discriminare. Senza capire che la maggior parte dei migranti è solo in cerca di una vita migliore di quella che lascia nel suo Paese d’origine.
Esattamente cinquant’anni fa la colonizzazione francese aveva lasciato il posto ad una pseudo indipendenza in cui i politici africani venivano comunque scelti dagli europei e, nel migliore dei casi, proseguivano il loro stile di governo. Negli anni Settanta il Senegal dovette fare i conti con problemi forse ancora più complessi di quelli legati allo sfruttamento e alla colonizzazione: si erano ritrovati da un giorno all’altro con una zona di 200 mila chilometri quadrati da amministrare e un’intera popolazione da gestire e nel frattempo, tra la crescita demografica e i gravi problemi di comunicazione, il debito estero aumentava, così come il degrado ambientale e la desertificazione.
Più si liberava, più l’Africa si impoveriva, diventata incapace di autoregolamentarsi e autofinanziarsi. Così nascevano le grandi bidonville suburbane e già dai primi anni Ottanta, dopo un secolo dalla fine delle emigrazioni forzate, cominciavano quelle volontarie: verso la Francia e l’Italia, in una diaspora causata da una vera e propria catastrofe di siccità e desertificazione, crescita della popolazione e Aids, abbassamento del reddito medio pro capite e aumento dei prezzi. Le scelte politiche fatte in quegli anni dai governi africani si rivelarono sbagliate, fatte di sprechi, sperperi e corruzione, e i processi di transizione alla democrazia continuavano in tutto il continente in modo lento e tormentato.
Ai cittadini italiani basta un passaporto per entrare in Senegal, mentre il tragitto inverso, desiderato sin da ragazzini e pianificato con speranza e sudore, è pieno di ostacoli burocratici e insidie culturali. Per questo, e a causa della società patriarcale senegalese, la maggior parte degli immigrati senegalesi in Italia sono uomini tra i 30 e i 40 anni. Portare con sé una parte della famiglia è molto difficile: non solo le leggi sui ricongiungimenti familiari diventano sempre più rigide, ma sarebbe anche impensabile per i senegalesi emigrati riuscire a mantenere, oltre se stessi, anche la moglie e i figli. In più, essendo i custodi di una cultura a trasmissione orale, hanno paura che se sradicano le donne dal loro contesto sociale nessuno possa più trasmetterla ai loro figli, perdendo un ciclo culturale e sociale che si tramanda di generazione in generazione.
La comunità senegalese in Italia è la più consistente dell’Africa occidentale e conta oltre 60 mila residenti. Si tratta di una comunità fatta di persone che lavorano sodo per mandare i soldi alle famiglie e che tendono quindi a fermarsi alla prima generazione: nonostante siano tra i gruppi etnici che provano a interagire con più positività nel tessuto sociale italiano, infatti, il loro primo obiettivo è quello di tornare presto in patria.
Una patria che nel frattempo è stata privata dei suoi migliori elementi. Ci hanno insegnato a pensare che chi emigra sia un povero disperato senza arte né parte, senza speranze e senza affetti, ma in Senegal chi viene scelto nella famiglia per emigrare è colui che ha più capacità, più possibilità di farcela, il più intelligente e il più istruito. Spesso i nostri venditori ambulanti sono laureati e accade persino che nelle fabbriche del Nord Italia gli immigrati che hanno una qualifica di ingegnere lo nascondano per essere assunti come operai. Tutto ciò ha delle ripercussioni catastrofiche sul Senegal, che perde le proprie risorse migliori. Il risultato è che il Senegal è più fermo nella sua immobilità, più impantanato nelle sue questioni sociali irrisolte, più povero e più corrotto.