Giulio Ferroni e Veltroni scrittore: “avvolgente narcisismo”
Nel suo libro "Scritture a perdere" il critico letterario attacca anche Aldo Grasso, Paolo Giordano e Margaret Mazzantini
Giulio Ferroni, temuto storico e critico letterario, ha scritto un libro – Scritture a perdere, Laterza – in cui se la prende con quasi tutto quello che è successo alla letteratura italiana nell’ultimo decennio: dai festival, al successo di Paolo Giordano e Margaret Mazzantini, all’esaltazione delle serie tv da parte di Aldo Grasso, a Walter Veltroni e il suo “Noi”.
Tra i vari romanzi di politici merita però qualche riflessione quello di un personaggio che ha avuto e ha tuttora un ruolo essenziale nella sinistra o in ciò che di essa resta: si tratta di Walter Veltroni, il cui rapporto con la cultura non è stato certo laterale e lo ha condotto per un certo periodo anche all’incarico di ministro per i Beni culturali. Dopo altri testi più brevi Veltroni ha pubblicato nel 2009 un romanzo intitolato Noi (Rizzoli), titolo che nel corso della lettura si rivela essere il cognome della famiglia di cui segue la storia, fissandosi su quattro zone cronologiche, 1943, 1963, 2000 e il futuro 2025, legate simbolicamente alle quattro diverse stagioni. Non è il caso di dare diretti giudizi critici sul romanzo, in cui l’ex segretario del Pd mostra la varietà dei suoi interessi culturali (canzoni e cinema a tutto spiano, ma anche letteratura, arti e tante altre cose, il tutto sostenuto dall’ausilio di vari amici che egli ricorda nelle fittissime pagine dei Ringraziamenti che chiudono il libro), in un leggero gioco nostalgico rivolto verso il passato e in uno svolgimento ottimistico, proiettato sia indietro che in avanti nel tempo, dove conflitti e lacerazioni si riassumono nell’affermazione di solidali legami, di per sé produttori di bene, in una Roma e in un’Italia che sembrano come ricettacoli di una positività che solo qualche indefinita e inconoscibile forza nemica mette in crisi. Facile vedere nel romanzo l’esplicazione del ben noto atteggiamento «buonista» veltroniano, di una sorta di disponibilità a fagocitare tutta la realtà in una sorta di riconoscimento di sé, di validazione della propria aspirazione a farsi conciliatore di bene. Oltre ad una sorta di dialogo con quella narcisistica elegia cinematografica dell’Italia di sinistra che è stato il film di Marco Tullio Giordana La meglio gioventù, possiamo insomma trovare qui qualcosa di comune con i due romanzi sopra lodati di Giordano e di Mazzantini, a parte certo dimesso grigiore del linguaggio, che rende la lettura francamente noiosa. Ma qui non è in questione il valore letterario del romanzo di Veltroni (lui stesso confessa accortamente di non essere uno scrittore), quanto il significato che viene ad assumere il fatto che un politico come lui, che ha avuto ruoli così importanti anche sul piano culturale, invece di avvalersi del suo prestigio e della sua audience per promuovere e sostenere una letteratura di alto livello, offra ai suoi molteplici estimatori un proprio frutto personale di tal fatta, a cui il suo rilievo personale garantisce comunque un’attenzione del pubblico, una presenza nelle classifiche (oltre alla disponibilità di illustri intellettuali a farsene presentatori e promotori). Un ulteriore contributo all’eccesso e all’inutilità dei libri, ancora altro spazio sottratto ad una letteratura possibile. Forse la sinistra avrebbe bisogno di politici meno inclini ad esibire se stessi in evanescente letteratura, in corrivi orizzonti mediatici: più attenti alle distinzioni e alle contraddizioni, alle urgenze di un presente che non possono essere affrontate con avvolgente narcisismo. Ma Berlusconi avrà bisogno di scrivere (o farsi scrivere) un romanzo?