Disciplina olimpica
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Disciplina olimpica
Michele Serra
Martedì 30 luglio 2024

Disciplina olimpica

«Le uniche Olimpiadi da giornalista le ho fatte a Los Angeles nel 1984. Avevo l’età degli atleti, per dire quanto tempo è passato. A differenza di loro fumavo molto e per stare sveglio la notte e dettare i miei articoli all’Unità bevevo ettolitri di Coca-Cola»

Pietro Mennea porta la bandiera italiana durante la giornata inaugurale dei giochi olimpici di Seul il 28 settembre 1988. (ANSA)
Pietro Mennea porta la bandiera italiana durante la giornata inaugurale dei giochi olimpici di Seul il 28 settembre 1988. (ANSA)

Le Olimpiadi, anche grazie all’alta definizione e alla grande accuratezza delle riprese televisive, sono una specie di Expo universale del corpo umano, o per meglio dire: delle straordinarie capacità del corpo umano sotto disciplina. Dico sotto disciplina perché senza disciplina sappiamo fare abbastanza poco: mettere una gamba davanti all’altra per camminare, soffiarci il naso, pettinarci (non sempre), dare sberle all’aria per cacciare le mosche, usare il pollice opponibile per afferrare le cose. Quasi tutto il resto, dal tuffo carpiato al sollevamento a strappo di due o tre quintali, dal vorticoso movimento di gambe della scherma e del pugilato alle prese da scarabeo dei lottatori, dalla rotazione folle del lancio del martello al salto alla Fosbury con gli occhi che non vedono l’asticella, fino ai movimenti difformi delle altre mille discipline (appunto) olimpiche; tutto questo difforme muoversi e competere non ha niente di spontaneo o di innato, è il frutto di una specializzazione lenta e faticosa. Perfino la corsa, che sarebbe la più ovvia e la meno sofisticata delle performance sportive, è invece disciplina allo stato puro. Come la danza, lo sport è il trionfo del controllo del corpo.

Le uniche Olimpiadi da giornalista le ho fatte a Los Angeles nel 1984. Avevo l’età degli atleti, per dire quanto tempo è passato. A differenza di loro fumavo molto e per stare sveglio la notte e dettare i miei articoli all’Unità bevevo ettolitri di Coca-Cola. Per quaranta giorni ho mangiato solo pollo fritto e patatine, la gioventù ha i suoi vantaggi: se lo facessi adesso morirei fulminato con il mio cartoccio unto stretto al petto… I ventitreesimi giochi olimpici furono i primi e gli ultimi organizzati da un privato, tale Peter Ueberroth, e non da uno Stato. Ne risultò una certa tigna per far quadrare i conti, certi impianti erano sorprendentemente modesti, quando arrivai al tiro a segno, all’estrema periferia della città (ammesso che le parole “periferia” e “città” a Los Angeles abbiano un senso), mi sembrò che l’avessero raffazzonato all’ultimo momento con un po’ di tavole di compensato, ed era proprio così.

La disciplina, dicevo. Si materializzò in forma estrema, quasi eroica, a pochi metri da me, l’8 di agosto del 1984 sulla pista di atletica leggera. I controlli della sicurezza erano ossessivi ma evidentemente lacunosi (ossessivo non è sinonimo di efficiente, e anzi) e così mi ritrovai, non so come, dove non avrei potuto e dovuto stare: accanto alla pista rossa dove stava per partire la finale dei 200 metri maschili. Seduto nell’erba, zitto e buono, con il cartellino “press” nascosto in tasca, nella speranza che nessuno mi pregasse di tornarmene in tribuna stampa. Entrarono gli otto finalisti per il breve riscaldamento. Tutti erano già in tenuta di gara: pantaloncini, maglietta sbracciata, scarpette tecniche. Corpi magnifici, giovani afroamericani e afroeuropei dai muscoli lunghi e potenti. Uno solo (l’unico dalla pelle chiara) nonostante il caldo afoso indossava una tuta. E quando se la tolse, lentamente, a pochi metri da me, con movimenti che mi sembrarono rituali, vidi che portava, sopra la maglietta da corsa, ancora un’altra maglia; e aveva una specie di grande cerotto, o di benda elastica, non ricordo più in quale zona del corpo. Sono passati quarant’anni, in rete ci sono le immagini della gara, non del riscaldamento.

La differenza fisica tra quell’atleta già anziano, dall’aria acciaccata, e i suoi avversari era impressionante. Schiacciante. I tre americani (Carl Lewis, Kirk Baptiste e Thomas Jefferson, di lì a poco vincitori di oro, argento e bronzo) erano sul metro e novanta. Nella sgambata di riscaldamento i loro passi sul tartan sembravano elastici e decontratti, come se giocassero. La loro falcata mi sembrò smisurata, la forza della giovinezza esplosiva. Sorridevano e parlavano tra loro. Pietro Mennea era alto un metro e settantanove centimetri, e le spalle incurvate, con la testa leggermente incassata, lo facevano sembrare più basso. Era alla sua quarta finale olimpica, conquistata contro atleti molto più giovani di lui, al termine di una formidabile carriera che a Los Angeles lo vedeva ancora recordman del mondo in carica: 19 secondi e 72 centesimi a Città del Messico nel ’79. Lo sarebbe stato fino al 1996, quando Michael Johnson corse la distanza prima in 19 e 66, poi in 19 e 32.

Il colpo d’occhio, mentre gli atleti si avvicinavano ai blocchi di partenza, diceva una cosa soltanto: che ci fa, in mezzo ai quei giganti dai corpi perfetti, Pietro Mennea? Non avrebbe dovuto essere lì, e invece c’era. E c’era perché “la sua vera forza è un rovente ottimismo; la sua eccellenza tecnica è volontà mai rassegnata e quindi indomabile. Sul piano morale è il più mirabile e alto di tutti noi, atleti o caricature di atleti che noi siamo”. Così aveva scritto di lui Gianni Brera. Mennea si era allenato per anni, diciamo per tutta la vita, con una costanza incredibile. 350 giorni all’anno, e solo 15 di “vacanza”. Con il suo coach Carlo Vittori aveva elaborato metodi di allenamento che permettevano ai suoi muscoli di sopportare un ritmo maggiore di quello morfologicamente previsto. Un grande elastico lo traeva a sé, in partenza, costringendolo ad accelerare i movimenti; e tanto accurata e meticolosa era la preparazione delle sue gambe “in fuori giri”, che in carriera si strappò pochissimo, e sempre in forme lievi. Scrissero di lui che aveva muscoli di seta, tanto erano resistenti allo sforzo, all’accelerazione improvvisa, all’usura. Mai atleta fu più costruito, più ostinato, più disciplinato, più inventato.

La Freccia di Barletta (i soprannomi giornalistici sono un capolavoro) morì nel 2013, a 60 anni, per un tumore fulminante. Ad ogni nuova Olimpiade mi torna in mente Mennea che si sfila la tuta e si accarezza i muscoli delle gambe, saggiandone la salute, mentre i suoi rivali sgambano attorno come cavalli sciolti. In quella finale arrivò settimo, ma primissimo, anzi unico, tra i normodotati in mezzo ai fenomeni.

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Nelle ultime due settimane ho un po’ trascurato le vostre mail. Le leggo tutte, sia ben chiaro, da quelle di una riga a quelle fluviali. Ma non sempre ho il tempo di sceglierne qualcuna, e anche più di qualcuna, per arricchire Ok Boomer! con le vostre parole. Cosa che faccio sempre volentieri anche per non abusare delle mie: ormai mi sento parlare da tempo immemorabile e qualche voce differente, anche dissonante, mi aiuta a sopportarmi meglio.
Tento un riassunto delle ultime puntate. Sulla penosa faccenda Berlusconi-Malpensa diluvio di mail, tutte di impressionante nettezza. Sono sintetizzabili in un monosillabo corale: NO! Nemmeno un timido tentativo di discussione, non un solo dubitante, l’idea di intitolare al signor B un aeroporto proprio non piace agli iscritti a questa newsletter. A parte i vecchi incalliti antiberlusconiani come me, è interessante raccogliere lo scontento anche di un ventenne e di una trentenne. Nati quando lui non solo non era una novità, ma già progettava la propria imbalsamazione.

“Sono Gabriele, diciottenne, e quando Berlusconi ha dato le sue ultime dimissioni da capo del governo non avevo ancora iniziato la primaria. La sua attività politica la conosco per studio e per sentito dire, ma non ne ho mai vissuto consciamente gli effetti. Per questo, quando mio fratello mi ha detto dell’intenzione di dedicare Malpensa al Berlusca, dopo un momento di confusione (e di fact-checking sul sito del Post) ho reagito con una risata molto divertita. Anche adesso, tra il fastidio per una scelta così provocatoria e il divertimento ironico, prevale nettamente il secondo. Già la proposta era assurda, ma l’impegno con cui Salvini ha cavalcato l’idea dà la misura della persona e del politico: probabilmente si era stufato di additare le minoranze e di fare elenchi (sulla rete ci sono dei montaggi esilaranti di ‘Salvini che elenca cose’), quindi ha scelto una nuova trovata per dare spettacolo. Credo che l’antidoto più efficace sia riderci sopra, specialmente se penso che non è il danno peggiore che ha fatto”.
Gabriele

“Per chi ha un’età intorno ai 30 anni come me, Berlusconi è (stato) una persecuzione. Indistruttibile, incomprensibile, odiabile. A meno che non fossi berlusconiano, si capisce. Mia mamma narra che una delle mie prime parole sia stata “Bellucconi”. Dalle medie in poi, occuparsi di politica voleva dire essere anti o pro Berlusconi, con un impoverimento del dibattito politico che ha avuto conseguenze enormi sulla mia generazione. Ricordo come aspettavo con soddisfazione tutti quei piccoli appuntamenti che per una sedicenne antiberlusconiana erano all’epoca pregni di significato: che so, la puntata di Annozero di Santoro, o l’imitazione di Fiorello a Viva Radiodue. Io questo colpo basso di Malpensa l’ho preso proprio male, anche in qualità di milanese adottiva. Pensavo che l’epopea si fosse conclusa con la puntata ‘Funerali di Stato sì-Funerali di Stato no’. E invece no, a volte ritornano. Sarà anche il modo in cui l’ho saputo: era qui il mio fratello più piccolo, Generazione Z, che mi fa, guardando il cellulare e ridacchiando (mi conosce): “Intitolano Malpensa a Berlusconi! Come l’avete presa, milanesi?!”. E io subito a pensare che queste nuove generazioni non sanno identificare le fake news, mi tocca di nuovo spiegarglielo da brava sorella maggiore, perché vedi, le fonti sono importanti, apro il Post e adesso ti faccio vedere… È finita malissimo, come sappiamo”.
Valentina

Ben più acceso, e dagli esiti apertissimi, il dibattito sul web, evocato dalla mia inusitata manifestazione di entusiasmo digitale della scorsa settimana. I lettori del Post – che immaginavo in prevalenza come tecnofili osservanti, e io in confronto a loro un troglodita analogico – hanno invece, in materia, posizioni molto dialettiche, molto meditabonde e anche piuttosto critiche. Mi dispiace, per dovere di sintesi, avere drasticamente ridotto un bel mucchietto di mail appassionate e interessanti. La serie si apre con la lettera di Giulio, quasi integrale, molto partecipata e molto significativa.

“Abbiamo passato i primi 25 anni di internet a glorificarne i benefici senza vederne i limiti, e gli ultimi 8 anni a stigmatizzare i limiti senza vedere più i benefici. Ma internet è uno strumento neutro, sono le persone e i poteri economici a plasmarlo. E internet è passato da strumento di speranza a strumento di disperazione per scelte (credo reversibili) di precisi attori. Sono nato nel ’92, cioè ho vissuto la maggior parte della mia vita su Internet pur avendo un chiaro ricordo del mondo precedente. Internet per me è stata la liberazione da quel mondo”.
“Vengo dalla provincia profonda, figlio di operai e nipote di contadini. A casa mia non c’è mai stata una libreria, le attività culturali in provincia erano pressoché assenti. Non c’era condanna esplicita contro la diversità e l’anticonformismo, ma c’era la ridicolizzazione, che è molto più efficace per reprimere le idee. Grazie a internet ho scoperto musica, film, interessi di cui non conoscevo l’esistenza, ho imparato l’inglese, l’ho usato per accedere al mondo (mentre prima l’orizzonte non arrivava a due province di distanza), ho coltivato una cultura eterogenea. I forum e il primo Facebook sono stati luoghi per esprimermi, per essere me stesso e per conoscere gente affine su alcune cose e meno su altre (gli algoritmi all’epoca pompavano meno le echo chamber). Ho sviluppato amicizie, allenato abilità sociali e senso dell’umorismo, che poi ho portato nel mondo reale. Ho capito di essere gay su Internet, ho trovato altre persone come me e ho cominciato le mie prime esperienze sui primi siti di dating”.
“Internet era già pieno di fake news ma esistevano anche siti affidabili e l’alternativa erano i telegiornali di Mediaset e Rai, la cui percentuale di fake news e pura propaganda all’epoca mi sembrava ben superiore. A me dà molto fastidio che quell’internet non esista più. Che abbiamo accettato la privatizzazione e la monetizzazione esasperata di internet da parte di poche corporazioni, con la completa rinuncia a qualsiasi utilità sociale dello strumento. Che per usare i social sia necessario sacrificare parte della propria sanità mentale, e che l’unico modo per non farlo sia non usare i social affatto (scelta che spesso è comunque impraticabile). È necessario ricordarci i benefici potenziali di Internet perché ad un certo punto sarà giusto pretenderli di nuovo. Far tornare Internet uno strumento per l’umanità, non contro di essa”.
Giulio

“Il 99 per cento del traffico online (dico a caso, ma non ci vado lontano) è costituito da porno, videogiochi, social in cui gente si mette in mostra o litiga, video brevissimi. Scolaresche al Colosseo non riescono ad alzare il naso dal telefono, e non credo sia per cercare i dettagli della storia della gens Flavia. Non sono qui a fare il bacchettone. Ogni uso è legittimo. Come dici tu, possiamo parlare con chi è dall’altra parte del mondo, accedere alla storia universale da qualsiasi luogo. Ma lo facciamo? Per quel che mi sembra stia accadendo, gli ignoranti sanno sempre di meno, e pure i vicini diventano lontani. Non sono affatto sicuro che con questo attrezzo che ha annullato fatica e ricerca (svalutando di fatto il risultato di questi sforzi) siamo messi meglio quanto a curiosità, desiderio di conoscere. A posteriori, non poteva che andare così”.
Giovanni

“Anche se ho varcato abbondantemente gli ottanta, non passa giorno senza che benedica le conquiste del digitale e tutte le connessioni internet. Solamente trenta anni fa sarebbe stato impensabile potere in pochi clic e pochi secondi pagare un parcheggio, prenotare una visita, leggere le proprie analisi o i propri referti medici, effettuare un bonifico, prenotare treno o taxi, eccetera. Unico inconveniente: mi tocca fare da ‘badante’ digitale alla mia amica ottantasettenne che non si applica all’uso di internet e non riesce neanche a fare e spedire una email. Col tempo ci riusciremo”.
Nello

“Ho la sensazione che la ‘domesticazione’ del fuoco e anche di internet appariranno come dei giochetti di fronte alla domesticazione dell’AI”.
Pierpaolo

“Io e lei occupiamo lo stesso decennio, ma io sono qualche passo avanti… Quel tanto che basta per avere ricordi di lontani lavori agricoli e degli attrezzi in mano ai contadini sotto il sole di lontane estati. Il forcone nelle sue mani è un messaggio che viene da un altrove che anche lei ha attraversato. Il sogno di un giorno di mezza estate è stato quello di trovarsi tra le mani anche il telefonino, e farci un percorso mentale suggestivo. Io dovrei fare un elogio della vanga, perché un giorno ho creduto che il mio lavoro potesse racchiudere la vanga e il computer. Ma poi ha vinto il computer, con tutte le conseguenze del caso. Il bello, o il brutto, verrà quando le nuove generazioni non sapranno più che cosa era un forcone. E una zappa, e una vanga… Esigono l’uso di due mani per utilizzarli. Internet può essere sfogliata con un dito, magari due se dobbiamo allargare la videata. Le mani contano, e stiamo attenti a perderne l’uso, come internet e i social ci portano a fare. Perse le mani, perdiamo anche noi stessi. La capacità di stare al mondo, almeno di quella parte di mondo che ci compete. Gli attrezzi ci ricordano di essere una cultura legata alla vita. Alla ruralità. Con internet siamo pericolosamente esposti a una overdose di mondo e di mondi che ci illudiamo facciano conoscenza, e invece ci rendono imbelli rispetto alla realtà che ci circonda”.
Alessandro

“Bella l’analogia tra la domesticazione del fuoco e la rivoluzione digitale; mi sorge il dubbio che, in questo secondo caso, siamo nella fase primordiale della domesticazione digitale (tipo con il fuoco milioni di anni fa). Non sono certo che la generazione attuale sia in grado di ‘controllare’ il digitale: ovvero – per restare nella metafora – sapere come accenderlo, controllarlo e spegnerla all’occorrenza.
Ci vorrà ancora molto – a mio avviso – per raggiungere il livello di utilizzo consapevole ed efficiente di questa nuova rivoluzione”.
Angelo

“Posso immaginare che prima di padroneggiare la domesticazione del fuoco lo zio George si sia scottato diverse volte. Credo che lo stesso valga per la nostra era digitale (vedi il crash informatico di qualche giorno fa). Eternamente grati allo zio George e ai suoi pronipoti che mantengono viva la curiosità anche a costo di scottarsi”.
Marco

Infine: a proposito dei nomi esotici, diciamo così, di molti esponenti della Lega (Morris e Derek gli ultimi saliti agli onori della cronaca), impossibile non dare conto di questo breve e formidabile aggiornamento.

“Nomi esotici, eh? A me è capitata una vicina che una trentina d’anni fa ha chiamato il figlio: Entoni. Non so se sia leghista, ma meriterebbe di esserlo”.
Maurizio

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Breve, ma sapida, questa puntata di Zanzare mostruose, di decisa intonazione ittica. Anna segnala, dal sito Ansa del 19 luglio, questo titolo dai risvolti avventurosi, degni di un vecchio albo di Tintin:

LOLLOBRIGIDA, PROSSIMA SETTIMANA
NOMINA COMMISSARIO GRANCHIO BLU

Silvana, sul Secolo XIX, ha trovato questo straordinario salto di qualità nella domesticazione degli animali di grossa taglia.

UNA BALENOTTERA COMUNE AVVISTATA DAVANTI ALLA COSTA DI SORI A BORDO DEI BATTELLI DI GOLFO PARADISO

E siamo ai saluti. Fa di nuovo molto caldo, i siti meteo più efferati hanno esaurito gli aggettivi orrorifici e stanno cercando un nuovo eroe malefico, l’anticiclone africano ormai è di casa e non ci fa più così paura: suggerisco un anticiclone marziano, o saturnino, che arrivi dal cosmo per incenerirci.
I miei pomodori sono finalmente maturi, diciamo che se la sono presa molto comoda. Molto scarso il raccolto di favino (Vicia faba), leguminosa da sovescio: nelle rotazioni agricole serve per ri-azotare il terreno. Poi si vende per alimentazione animale. Quest’anno ci pago a stento il lavoro della mietitrebbia. Mi accorgo di stare diventando un vero contadino: per esserlo, è necessario lagnarsi a prescindere.
Come sempre: in alto i cuori, più in alto del solito perché lo zero termico, in questi giorni, è quasi a 4500 metri. Beato chi leggerà queste righe in alta montagna.