Cronache dalla fine dei PC
Luca De Biase ha scritto sul Sole24ore una analisi bella e stringata sull’evoluzione dei terminali elettronici alla luce dei numeri pubblicati in questi giorni. La si potrebbe definire “Cronache dalla fine del PC”.
Questo non significa che il pc sia un mondo finito. Semplicemente non è alla frontiera. Oggi nel mondo si vendono meno di 350 milioni di pc all’anno, in decrescita, come si è detto. Che non sono pochi.
Ma si vendono già 200 milioni di tablet, oggetti sostanzialmente nati nel 2010, e si vendono 919 milioni di smartphone (stime IDC). Tra l’altro, mentre i pc generano un valore aggiunto contenuto e suddiviso tra diversi produttori (in testa chip e sistemi operativi, molto indietro i costruttori e distributori), i tablet e gli smartphone garantiscono fortissimi margini per i produttori e dunque continuano a rinnovarsi ad alta velocità. Per adesso la leadership è in questo comparto.
Il pezzo di De Biase focalizza l’attenzione sui terminali: guardare i prodotti che si vendono e quelli che passano di moda è ovviamente utile e importante, specie per chi quei prodotti produce e mette in commercio, così come lo è anche per chi cerca di immaginare come la tecnologia condizionerà le nostre vite domani. Tuttavia, se allontaniamo per un istante l’occhio matematico dal numero di PC venduti, dai tablet in aumento, dalla constatazione di morte dei netbook, ci accorgiamo (e Luca lo dice alla fine dell’articolo) che il punto culturalmente più rilevante della storia tecnologica degli ultimi 50 anni non riguarda i terminali ma la nascita di Internet.
A questo proposito di una cosa sovente ci dimentichiamo: Internet è nata e cresciuta come un “incidente”. I processi di amplificazione che l’hanno interessata non sono cresciuti nei piani dell’industria o nelle speculazioni di controllo dei governi ma si sono concretizzati in un pulviscolo di nuove prassi economiche e sociali che prima non esistevano e che hanno trovato un varco inatteso. La sua crescita tumultuosa è stata un maxitamponamento in autostrada per molto tempo diffusamente tollerato (e sottovalutato con superbia) fino ad arrivare al momento in cui l’incidente ha inglobato tutto.
Per conto mio il punto di interesse è uno solo: stiamo attenti che tutto questo non trovi percorsi per essere riassorbito e normalizzato perché, al di là dei distinguo barbosi, la nostra nuova vita in rete è già ora, incidentalmente (appunto) migliore di quella precedente. Il prodotto dell’incidente Internet ha provocato vasti scivolamenti nel controllo, trasparenze inattese, eccitanti promesse non ancora mantenute. Cerchiamo di non rovinare tutto ancora prima che sia iniziato.
Io non credo, per tornare al tema iniziale, che il passaggio verso la mobilità possa essere osservato come una semplice scelta del mercato che unisce il desiderio ginnico degli utenti e gli interessi economici degli operatori delle TLC. Penso invece che andrebbe in qualche misura inquadrato dentro un più generale rischio revisionista mediante un semplice processo di sostituzione. Che non è delle telco e non è dei governi (tranne alcuni, ok), che non è dell’industria dei contenuti e nemmeno dei grandi apparati lobbistici ma che è un po’ di tutti costoro. Di tutti tranne che nostro, di noi cittadini (come direbbe Grillo).
Senza immalinconirvi con questioni sulla neutralità o sulle connessioni fra pari, sulla libertà di accesso e sul futuro fulgido della innovazione aperta a tutti (due palle, avete ragione) dico solo che il bilanciamento fra produzione e fruizione dei contenuti può essere oggi osservato da due diverse angolazioni: una, tecnologica e di usabilità, secondo la quale quello che non possiamo produrre ora in mobilità lo potremo domani, l’altra, quasi filosofica, secondo la quale la società dell’informazione libera e di tutti, fra strumenti di produzione e di fruizione ha necessità di tenere il cappello e l’attenzione maggiormente sui primi che non sui secondi.
I terminali faranno il loro corso, cambieranno forma, nome e caratteristiche, il PC – povero – morirà sette o otto volte, ma non sono loro, i cosi che utilizziamo, il punto di svolta nella nostra migrazione verso una società migliore.
Personalmente diffido molto della retorica secondo la quale i Comuni più smart offrono accesso wi-fi ai passanti ma non si domandano se la scuola media all’angolo sia cablata o meno, diffido di quelli che da oltre un decennio ci raccontano che l’accesso a Internet in mobilità risolverà il nostro gap col resto dell’Europa, ma soprattutto diffido di quelli che non capiscono che Internet veloce nelle nostre case è la prima delle nostre necessità di cittadini connessi.