Perché il PD dovrebbe abolire le primarie (ma non può)
Avvertenza: trattasi di un pezzo lunghissimo. Una versione iper-ristretta è sull’Unità di oggi.
Non intervengo su vicende del PD ormai da tempo, ma stavolta lo faccio per provare ad argomentare un paio di cose che spiegano in fondo anche il perché di questa mia scelta di non intervento, e rispondono indirettamente a un vecchio post di Luca Sofri che non volevo eludere.
Comincio da una domanda. È del tutto evidente che in questo momento le primarie sono una cosa che quasi qualsiasi dirigente del PD vorrebbe abolire, con ragioni evidenti di buonsenso politico, neanche tanto sofisticato. Allora perché quasi nessuno lo chiede? Perché pur essendo una cosa ovvia da fare, non si può fare. Non è uno scioglilingua, mi spiego.
La strategia politica di Bersani, sostenuta quasi subito dopo il congresso anche da Franceschini assieme a una parte consistente della sua mozione, e dunque ampiamente maggioritaria, si è basata sull’esplicito abbandono dell’idea di un partito “pigliatutto” che puntasse al 35-40% dei consensi, un grosso contenitore dove trovano spazio differenze anche rilevanti, e ha deciso al contrario di far rivivere l’idea di un partito con una identità più marcata. La nuova strategia prevede che questo partito più definito, al fine di conquistare la maggioranza dei consensi, si allea con altri partiti portatori di identità e interessi diversi, sia pur contigui, alla sua destra e alla sua sinistra. Oppure, nel caso auspicato ma mai chiarito con gran trasparenza di una riforma elettorale proporzionalista, stipula con essi alleanze parlamentari dopo le elezioni.
Questa impostazione è chiara, legittima, e anche chiaramente diversa dalla logica con la quale era stato fondato il PD di Veltroni. Si basa su una determinata lettura della società su cui, in questo momento, non voglio discutere perché non è questo il punto. La convinzione aritmetica – non provata ma dotata di una sua forza tautologica – di supporto a questa strategia è che è meglio stare al governo con cento deputati in meno che all’opposizione con 80 in più, e messa così, appunto, equivale a dire che in Sicilia d’estate fa caldo, anche se non dice nulla su come fare ad arrivare in Sicilia. A margine, faccio notare che questa strategia è il carburante fondamentale per i sondaggi che nutrono Vendola (di ieri una agenzia di Paolo Cento, di cui tutti sentivano la mancanza, che diceva di apprezzare la recente intervista di D’Alema) e trovo dunque curioso che proprio Vendola, resuscitato a nuova vita politica dalla linea di Bersani, sia diventato il principale assillo nella competizione politica del PD. Ma ho divagato.
Tornando alle primarie, in questo contesto strategico, caratterizzato dalla decisione del PD di essere il partito più grosso in una coalizione di 3-4 partiti, le primarie “aperte” (ché le consultazioni tra iscritti, albi, et similia, sono una cosa diversa) non hanno alcun senso. In una situazione del genere, il PD ha solo da perdere dalle primarie e nulla da guadagnare. Essendo il partito più grande, e anche l’organizzatore materiale delle primarie, che sorpresa è, e che vittoria è, se il candidato indicato o sostenuto dai vertici del PD vince le primarie? È, diciamo, il minimo sindacale, il fatto che un partito che ha oltre la metà dei voti di una coalizione riesca a mobilitare abbastanza elettori da far vincere il suo candidato.
Tuttavia, come spiega tra l’altro con dovizia di argomenti un filone della letteratura politologica, le primarie sono il momento degli estremismi, la sede in cui paga un messaggio netto che si appelli alle ragioni intime delle appartenenze politiche. Per questa ragione il linguaggio di Obama, per dirne una, era molto più acceso durante le primarie che durante la campagna presidenziale dove è necessario conquistare anche gli altri elettori. Il problema è che nell’ambito di una coalizione, a essere più estremi non sono i linguaggi e le piattaforme di tutti i candidati, ma i candidati degli altri partiti! Partiti che trovano particolare linfa dalla finestra di opportunità mediatica e politica data dalle primarie.
Per dirla in breve, per il PD organizzare le primarie significa solo organizzare una potenziale sconfitta e offrire uno strumento ad amici/nemici della propria coalizione per rosicchiare consensi e voti. Se il candidato del PD vince, è solo una cosa ovvia e non sorprendente, se il candidato del PD perde, il partito è stato sconfitto. Se scoppia una lite interna al PD, come a Napoli, le primarie hanno l’effetto di esacerbare lo scontro perché in un partito identitario le regole sono sempre fungibili, contano meno della ragion politica, con l’effetto di mettere in piazza in modo autodistruttivo i conflitti, senza che vi sia un modo di canalizzarli verso una sintesi. In una parola, nel contesto strategico impostato da Bersani, le primarie sono un atto politico masochista (e doppiamente masochista nel caso di elezioni a sindaco in cui il doppio turno consente già di allearsi dopo che gli elettori abbiano individuato il candidato di coalizione preferito).
Tuttavia, allo stesso tempo, il progetto di fare del PD un partito identitario non può sbarazzarsi delle primarie facilmente perché le primarie sono l’unica caratteristica identitaria del PD. Di per sé sono solo uno strumento, una regola per prendere alcune decisioni in merito alle candidature. Tuttavia, sono state sempre caricate, da tutti i dirigenti da Bindi, a Bersani, a Veltroni, a D’Alema, di significati superiori: democrazia, partecipazione, popolo, in opposizione al leaderismo dispotico del centrodestra. Tra l’altro, varie centinaia di migliaia di persone sono state convinte della genuinità di quel messaggio. Senza le primarie, come si riconosce l’identità del PD?
Sulle questioni che dividono le opinioni politiche (spostare le tasse dal lavoro alle rendite non vale perché lo dice anche lo sceriffo di Nottingham ormai) dai temi etici, ai diritti civili, al diritto del lavoro, il PD non è stato in grado di raggiungere una sintesi forte, in grado di caratterizzarlo e distinguerlo da Vendola o da Casini, o persino dal centrodestra. Quindi il PD è nel non invidiabile paradosso di dovere la propria identità ad uno strumento che è, nelle condizioni strategiche impostate dalla leadership corrente, una fonte di masochismo politico. Un bel cul de sac.
Naturalmente le cose sarebbero diverse se il PD avesse mantenuto l’idea originaria di essere un partito pigliatutto, con grandi differenze interne, e in cui i conflitti politici e programmatici fossero sistematicamente risolti, a scadenze regolari e prevedibili, in una competizione aperta. Con un po’ di saggezza politica, le primarie sarebbero potute essere uno degli strumenti, non certo l’unico, di questa competizione interna.
Tutto ciò, tuttavia, non si è verificato. Sia chiaro, le primarie, in larghissima parte, hanno svolto le funzioni per le quali erano state pensate: hanno dato smalto e identità collettiva, sono state organizzate in maniera tale da limitare la vera competizione ai casi estremi di rari fuoriclasse – Renzi, o Vendola: per definizione i fuoriclasse sono pochi; hanno consentito ai soliti venti leader degli ultimi vent’anni di continuare a disputare tra loro senza rischi, colmando il vuoto di legittimità che li aveva colti durante il secondo governo Prodi.
Il meccanismo competitivo ai margini tuttavia era un meccanismo potente, che non è appunto facile da arrestare. Le persone hanno davvero pensato di poter contribuire alle scelte, e in periferia lo stanno facendo, alimentando sempre più il paradosso descritto sopra per il quale c’è un partito che non può fare a meno di organizzare continue occasioni per mettersi in crisi.
In un contesto genuinamente competitivo, in cui il PD fosse riuscito ad assorbire posizioni politiche dalla sinistra sinistra al cattolicesimo moderato, un risultato anomalo non sarebbe potuto esistere. Tutti i candidati sarebbero stati sempre tutti del PD, alcuni vincitori sarebbero stati più adatti di altri a vincere le elezioni, e il risultato avrebbe giovato o avrebbe punito solo una o l’altra fazione interna: avrebbero ossia svolto una funzione di risoluzione dei conflitti.
Per essere una regola tra le altre, tuttavia, le primarie avrebbero dovuto anche godere di prevedibilità e affidabilità. Senza la certezza di quel che accade, le regole diventano semplicemente arbitrio. In un contesto realmente competitivo, dove consultazioni e regole sono costanti, prevedibili, e sempre uguali, al netto di regolamenti violati per i quali devono esistere apposite commissioni, non ce la si può prendere se partecipano i cinesi o i nazisti dell’Illinois: il risultato è il risultato. Se invece, finite le primarie si può serenamente dichiarare di annullarne l’esito, si certifica l’inesistenza di un sistema di regole prevedibili, e si manifesta il cul de sac di un partito identitario a cui nuoce la caratteristica stessa della propria identità.
La prevalenza della “ragione politica” sulle regole è una caratteristica naturale di un partito identitario, o un piccolo partito. Ma quando l’identità è fondata sulle regole, la ragione politica diventa indistinguibile dall’arbitrio e, comprensibilmente, i più “identitari” tra i competitor, come nel caso di Cozzolino, si incazzano.
Dall’altra prospettiva, una minoranza accetta il risultato di una competizione solo se sa che a una certa data potrà avere la rivincita, con prevedibilità e certezza di regole ragionevolmente fatte rispettare, insegnava Tocqueville qualche tempo fa. Discutere “se” fare le primarie o no, la loro erratica convocazione come in occasione delle regionali, serve solo a certificare la loro inutilità, e il regno dell’arbitrio mascherato da saggezza politica: con quale serenità accetto di aver perso le primarie (sia pure perché sono stato incapace di mobilitare i nazisti dell’Illinois che pure mi stavano simpatici), se so che il vincitore come prima cosa le abolirà? Piuttosto denuncio brogli, sconquassi, bubboni, e muoia Sansone.
Per completare l’analisi, tuttavia, è anche necessario riconoscere, accanto alla contraddizione in cui si è infilata la corrente leadership del PD, il fallimento dell’idea di avere un partito “pigliatutto” come immaginava Salvati, che si fonda non su una dottrina immutabile, ma su regole condivise e prevedibili che servono a rendere vivibile l’alternanza e anche l’evoluzione delle “dottrine”. Io per un periodo ho pensato che questa potesse essere la soluzione al sistema bloccato della politica italiana, e alla crisi di legittimità che aveva assalito il centrosinistra durante l’ultimo governo Prodi (no, non è stato un complotto di banche/giornali/CIA: spiegare le cose col complotto rimane una cosa da bambini anche quando fa comodo), perché, ricordiamolo, da lì tutto era cominciato. Le primarie e il PD erano una risposta a quel, macroscopico, problema, e, almeno nel breve periodo, a quel fine hanno funzionato.
Tuttavia, l’idea di riorganizzare il centrosinistra sulla base di regole condivise, che facilitassero anche la mobilità di idee e quindi persone, era una idea talmente minoritaria da essere irrealistica. Infatti, il rifiuto di affrontare la politica in maniera aperta non ha prevalso solo in chi, sia pur obliquamente, ha osteggiato la fondazione del PD come un partito largo e aperto ed è tornato al partito identitario – ossia dominio di cerchie chiuse di persone fidelizzate – appena ha potuto, ma anche in chi a parole si proclamava fondatore del PD e cantava le lodi della politica aperta, salvo tornare costantemente a praticare la politica come mediazione statica tra gruppi di interesse immutabili.
La gestione del PD di Veltroni, sia nella preparazione alle elezioni ma soprattutto dopo la sconfitta, è stata la quintessenza della negoziazione al caminetto, perfino più formalizzata rispetto alla segreteria di Bersani. In qualche misura dunque, imputare il fallimento del partito largo fondato su regole condivise e prevedibili, al nuovo segretario è fuorviante: in quel progetto di partito aperto fondato su regole trasparenti di convivenza democratica hanno creduto pochissime persone, e nessuno dei dirigenti chiave.
La conseguenza di ciò è che al netto di un manipolo di persone generose che continuano una battaglia interna meritoria, le querelle recenti tra primaristi e non primaristi, Veltroniani, Bersaniani, Dalemiani e tutti gli altri ridicoli neologismi a cui ci ha costretto il ventennio della lunga stagnazione italiana, sul tema delle primarie e del tipo di partito, sono un enorme specchietto per qualche decina di migliaia di allodole, su una questione rispetto alla quale in realtà sono tutti d’accordo: la competizione nel centrosinistra ha e avrà tante forme, ma non quelle di scontri elettorali interni in cui a un certo punto emergano dei vincitori, e in cui – se non altro una parte degli – sconfitti, torneranno al loro mestiere o se ne inventeranno uno. Non è nelle intenzioni di nessuno, e bisogna farsene una ragione. Io me la sono fatta da mo’.
La prova più evidente della strumentalità di questo dibattito interno inesistente sta nel documento “riservato” che Fassina ha fatto avere al Foglio, nel quale si sottolinea come l’unica differenza tra le proposte economiche di Veltroni e quelle di Bersani sta nel riferimento al liberalismo, al quale il secondo oppone un “nuovo umanesimo” ispirato da un’enciclica di Ratzinger. È evidente il ribaltamento logico e del nesso causale tra riferimenti intellettuali e loro implicazioni. I riferimenti intellettuali dovrebbero rappresentare dei concetti generali che si traducono in soluzioni puntuali: pertanto a riferimenti diversi, dovrebbero seguire proposte diverse. Ma se le soluzioni sono praticamente identiche, i riferimenti di fondo a che servono? A fare rumore? Ah, ecco, appunto.
Nonostante il vicolo cieco in cui si è infilata la dirigenza del PD, io penso che sia sbagliato pensare che vi sia stata chissà quale occasione persa. Un progetto che non poteva funzionare perché non voluto dalla maggioranza dei suoi dirigenti era un progetto sbagliato, o comunque indistinguibile da esso. Infatti il progetto che è in campo adesso è un progetto diverso.
Allo stesso modo non ha senso crogiolarsi nelle teorie del complotto di derivazione dalemiana (“Ah, se non fosse stato per i banchieri/giornalisti!”) e veltroniana (“Ah, Veltroni, ha avuto l’occasione, se ci fossi stato io!”). Nessuno ha una vera idea delle reali possibilità che ogni stagione porta con sé, a differenza dei suoi protagonisti: l’analisi deve per forza concludere che ognuno fa quel che può, e quel che sa.
Dell’analisi, tuttavia, fa parte anche un’altra considerazione, che si può fare osservando le scelte individuali di persone che hanno cambiato minimo quattro partiti a testa, sempre mantenendo un accordo di fondo a governare le proprie dispute. La storia ha ampiamente dimostrato che qualsiasi persona mediocre è in grado di conquistare il potere, ma la statura del vero leader la si misura nel momento in cui lo lascia. Dopo vent’anni di fortune alterne, ognuno può misurare le stature che vuole.
Poi naturalmente, una volta compiuta l’analisi che per sua natura è neutra, ognuno può trarre le sue conclusioni. La consapevolezza di una nuova strada, sia pure accidentata, può anche rendere ottimisti: magari domani il PD esce dal cul de sac, trova regole interne convincenti, riforma le primarie per bene, inverte la scissione strisciante che dura da ormai due anni, e così via.
Altri possono fare considerazioni diverse, perché anche se non esiste progetto politico che possa compiersi in solitudine, il senso di quel che si fa è anche nelle esperienze individuali. Io non avevo voglia di dibattiti solo strumentali, e il mio modo recente l’ho trovato nell’impegno civile con gli altri promotori e soci di Italia Futura, che è una fondazione di advocacy e proposte. Altri compiono scelte diverse.
Il PD rimane un partito nel quale la militanza, a livello locale e nazionale, può trovare tantissime ragioni di senso, nelle comunità in cui si vive, per i temi che a ognuno stanno a cuore, e anche per le legittime ambizioni di affermazione personale. La politica non finisce mai, ci sono sempre nuove idee, ci sono sempre nuove cose da fare, e modi di soddisfare il proprio desiderio di starci.