La critica per l’architettura in Italia. Punto e a capo.
Alcune settimane fa la rivista olandese Volume mi ha chiesto un saggio sullo stato della critica in Italia, ne è uscito un lungo testo che credo sia attuale vista la situazione di rapida trasformazione che molte delle nostre riviste stanno vivendo proprio in questi ultimi tempi. Ed è per questo che ho deciso di pubblicare la versione italiana del testo sul Post con la speranza che possa attivare un confronto utile e progettuale per tutti noi.
In Italia c’è un architetto ogni 470 abitanti, contro una media europea di uno a 1353. In Italia c’è uno studente di architettura ogni 761 abitanti contro la media europea di uno a 2589. Abbiamo quindi un architetto ogni 2 chilometri quadrati.
L’Italia possiede il 44,8% delle riviste di settore legate all’architettura e al design del mondo. La popolazione italiana è di 60 milioni contro i quasi 7 miliardi nel mondo, mentre la lingua italiana è parlata al massimo da una popolazione di 100 milioni nel mondo.
Partendo da queste cifre ci si potrebbe attendere un bilancio rassicurante sulla condizione della scrittura di architettura in Italia.
E, invece, fare il punto sullo stato di salute della critica architettonica nel nostro Paese, oggi, credo sia un compito molto delicato, da svolgersi con un sentimento a cavallo tra un senso di rassegnato smarrimento e l’urgenza di chiarire i termini e gli strumenti su cui potremmo lavorare nel prossimo futuro.
Lo smarrimento nasce dal confronto inevitabile con la nostra storia recente. Senza voler scomodare la Casabella-continuità di Ernesto Nathan Rogers, Architettura cronaca e storia di Bruno Zevi e Zodiac, e guardando unicamente al peso che ha avuto la critica d’architettura in Italia dagli anni Sessanta a oggi, il confronto con la situazione attuale appare desolante.
Ma forse avrebbe senso rileggere rapidamente alcuni tra gli elementi principali della storia recente della scrittura critica in Italia per arrivare a una sintesi necessaria per capire il presente e cercare di superarlo in un’ottica differente.
La critica, in Italia, è sempre stata legata all’emergere del dibattito sul ruolo e il peso dell’architettura moderna nel nostro Paese, sia in termini positivi, che negativi. La critica non era mai fine a se stessa, non una narrazione, ma una presa di posizione militante e strumentale al dibattito in corso.
Gli articoli di Giò Ponti sul Corriere della Sera dal 1932 alla fine degli anni Sessanta, e la rubrica settimanale di Bruno Zevi su L’Espresso dal 1955 al 2000 sono solo l’esempio più emblematico di questo atteggiamento che vedeva nell’esercizio della critica una forma attiva di militanza culturale e che, all’interno delle riviste “specializzate” riconosce i vertici più rappresentativi già durante gli anni Trenta in Giuseppe Pagano, Raffaello Giolli ed Edoardo Persico.
In questa fase storica a cavallo della Seconda Guerra Mondiale la relazione tra architettura moderna, sua teoria, storia dell’architettura e critica sono fortemente sovrapposte, e usate con una prospettiva militante e strumentale per la costruzione di una narrazione unitaria utile ad affermare il ruolo della cultura architettonica moderna nella società italiana.
Solo con gli anni Sessanta cominciano a emergere situazioni alternative, come è il caso del giornalista Antonio Cederna, che usa la critica e la narrazione d’architettura come specchio per raccontare lo scempio del paesaggio italiano del boom edilizio, iniziando una forma di giornalismo di denuncia ambientalista che sempre maggior peso avrà nel giudizio spesso negativo sull’architettura italiana contemporanea.
Mentre negli stessi anni l’azione teorica di Manfredo Tafuri opera una sostanziale separazione semantica tra progetto del Moderno e storia dell’architettura, portando progressivamente alla frantumazione post-moderna dell’ephos modernista e, insieme, all’inizio di una stagione di specialismi all’interno dell’architettura che ne prosciugheranno negli anni l’idea di una visione unitaria.
Nel 1974 nasce Lotus International, rivista quadrimestrale diretta da Pierluigi Nicolin e uno degli strumenti di critica architettonica internazionale più evoluta e innovativa almeno fino alla fine degli anni Novanta. Diverso è invece il destino delle due ammiraglie dell’architettura italiana: solo Alessandro Mendini riesce a surfare abilmente tra Casabella, prima, e quindi a Domus, rappresentando in maniera potente le due stagioni radicale e post-moderna.
Ma andando oltre l’eccezionalità dell’esperienza di Mendini, Casabella, prima con Tòmas Maldonado e, quindi, con Vittorio Gregotti, incarna lo strumento di riflessione sul moderno e la sua eredità più acuto e consapevole dell’ultimo scorcio del secolo scorso. Soprattutto la Casabella di Gregotti (1982-96) diventa un laboratorio di scrittura critica che vede in un gruppo di giovani come Zardini, Brandolini e Teyssot con un approccio sempre più problematico e attento ad una serie di esperienze della modernità critica, per arrivare poi alla presenza più “pesante” di Manfredo Tafuri, Francesco Dal Co, Kenneth Frampton, Massimo Cacciari e di quella cerchia d’intellettuali che si formarono nella palestra italo-americana di Oppositions.
Diverse le traiettorie di Domus che, invece, si presenta come un vero e proprio barometro delle mode e delle tendenze più internazionali passando dalla fine degli anni Ottanta, e con ritmo rigorosamente triennale, da Mario Bellini (1986-92) a Vittorio Magnago Lampugnani (1992-1996), via Burkhardt (1996-2000), Deian Sudjic (2000-2004) e Flavio Albanese (2007-2010), e visto come strumento più trasversale tra architettura, design, arte e moda nella reinterpretazione dell’eredità di Ponti.
Nei primi anni Novanta comincia anche la direzione di Italo Lupi della rivista Abitare, capace di diventare nei 15 anni della sua direzione un’interessante laboratorio critico tra architettura costruita, grafica, interior e design, come a rappresentare una possibile “terza via” tra le due grandi testate.
Con la fine del secolo chiudono tre riviste culturalmente antagoniste e portatrici di un pensiero eretico sulla cultura della modernità come Architettura cronaca e storia di Bruno Zevi e Spazio e Società di Giancarlo De Carlo, mentre nascono contemporaneamente nuove testate come Area, Il Giornale dell’Architettura e The Plan costruite invece come strumenti di servizio al lavoro professionale e con una lettura maggiormente agnostica delle architetture pubblicate.
In questa fase il dibattito critico più innovativo e aperto slitta progressivamente in Rete a rappresentare soprattutto una nuova generazione di progettisti e neo-laureati che non trovano nelle riviste tradizionali rappresentatività e disponibilità all’ascolto. arch’it, ideata da Marco Brizzi nel 1995, è la prima vera testata d’architettura on-line in cui il peso dell’interpretazione critica del progetto e del panorama culturale acquisiscono una rilevanza notevole grazie soprattutto a una riflessione trasversale sull’impatto del digitale nella cultura architettonica italiana.
In Rete, come anche attraverso l’azione critica di una serie di nuovi autori come Pippo Ciorra, Stefano Boeri, Cino Zucchi e Mirko Zardini, si attua il superamento di una disputa quasi teologica e provinciale tra modernità e post-modernismo che aveva congelato il contesto italiano tra gli anno Ottanta e Novanta, segregando l’impatto del digitale e del decostruttivismo a una discussione apparentemente più clandestina e generazionale.
Quello che avviene tra la metà degli anni Novanta e l’inizio del nuovo secolo è un vero e proprio scontro generazionale che mette in discussione parole d’ordine, strumenti, modalità d’azione e visioni sul ruolo dell’architettura in Italia. Da una parte la generazione dei “maestri” del secondo dopo-guerra e dei loro “catecumeni” accademici, ancora attestati su di una riflessione di riforma della modernità che non sembra progredire, mentre, dall’altra un combinato composito generazionale e culturale che mette insieme l’entusiasmo digitale insieme alla necessità di una partecipazione attiva, politica e diretta in cui l’architettura acquisisca ruoli e responsabilità diverse. Sono anni di partecipazione critica e speculativa molto intensi.
Il fronte digitale parte dall’esperienza di arch’it ai tre numeri della rivista a stampa 2 a + p, passando per l’azione progettuale e teorica di alcuni gruppi romani come Ian+ e Ma0. In parallelo, e con molti elementi di sovrapposizione, il versante neo-situazionista vede le azioni di Stalker, Cliostraat e A12, oltre che del collettivo Multiplicity diretto da Stefano Boeri, che diventerà negli anni una delle esperienze critiche e progettuali fondative all’interno del panorama italiano, anche per il ruolo editoriale e politico progressivamente sempre più rilevante di Boeri.
In entrambi i casi assistiamo a un recupero significativo dei protagonisti e dei linguaggi della stagione Radical italiana che comincia con la grande mostra della Biennale di Venezia del 1996, e che è continuata fino ad oggi con diverse sfumature, proprio per quell’atteggiamento di critica sociale e politica della realtà, oltre che per un ritorno al paradosso stilistico e linguistico che aveva caratterizzato le opere di quella fase storica.
E mentre in questa fase l’architettura italiana rielabora i nuovi strumenti di riflessione critica, avviene un contemporaneo ripensamento sui suoi “padri nobili” come Giancarlo De Carlo, Aldo Rossi, Franco Purini, Alessandro Mendini e Andrea Branzi, e la riscrittura di frammenti della nostra storia recente.
Il panorama di riflessione e scrittura critica di quest’ultimo decennio appare sempre più frantumato in tante esperienze vicine spesso tra di loro, ma incapaci di ricompattarsi in sistemi progettuali innovativi e capaci di dare una scossa a un ambiente culturale nazionale ed europeo sempre più fragile e disorientato.
Stiamo evidentemente vivendo una fase di transizione e profonda metamorfosi che si rispecchia nella sfera progettuale quanto in quella critica, offrendoci al momento un quadro confuso e difficile da interpretare. Sullo sfondo rimane una crisi d’identità sociale e simbolica dell’architettura nella società italiana, che non viene percepita come uno strumento capace di costruire e trasformare la realtà secondo visioni e prospettive significative e dal forte contenuto civile. Ed è anche per questo che le categorie estetiche tradizionali, e rigidamente disciplinari non stanno più funzionando in questa fase storica. Oltre a questo la critica è scaduta progressivamente in una forma di giornalismo descrittivo incapace di prendersi la responsabilità di lettura complessive e provocatorie, capaci di generare nuovi fenomeni di aggregazione e produzione di idee e strategie. Lo schiacciamento della critica sulle storie individuali, personali dei grandi autori e delle opere come oggetti separati dalla realtà, ha impoverito la forza del contributo che alla critica viene richiesto. Finita la stagione delle avanguardie e delle sue battaglie, la critica è caduta in una dimensione individualistica e solipsista che ne ha indebolito sguardo e azione politica. La fragilità del suo ruolo è anche dimostrato dalla progressiva riduzione degli spazi di scrittura critica, pura nelle diverse testate, così come la quasi totale assenza di corsi universitari dedicati a questa disciplina.
In questa situazione possiamo, comunque, individuare alcune strategie ed esperienze che sembrano avere una prospettiva interessante in una fase in cui la relazione tra cartaceo e digitale è ancora molto irrisolta, e la crisi generalizzata dell’editoria non sembra stimolare gesti coraggiosi e sperimentali.
Sicuramente una delle esperienze più rilevanti e pervasive è rappresentata dal ruolo di Stefano Boeri all’interno del panorama nazionale, cominciando con Multiplicity, e quindi con la direzione di Domus (2004-2007) prima e di Abitare (2007-2011) poi. In entrambi le testate Boeri ha cambiato modo di guardare, interpretare e usare l’architettura vista come fenomeno più politico, sociale e culturale che come esperienza estetica. La scelta di materiali visivi “sporchi” di realtà, e il coinvolgimento di autori non legati direttamente al mondo dell’architettura, cercava di generare una lettura problematica e trasversale dell’architettura come reagente immerso all’interno di un mondo che sta radicalmente cambiando. E la scelta di entrare direttamente in politica da parte di Boeri non è stato che il passaggio più coerente in un percorso che ha dimostrato una forte e precisa strategia politica sulla realtà in cui l’architettura riconquistasse una sua dignità e presenza civile.
All’interno di questo filone potremmo leggere anche la più recente direzione di Domus da parte di Joseph Grima, che, muovendo da questa esperienza culturale specifica, ha cercato di allargare ulteriormente lo sguardo su scala internazionale e di approfondire un uso della Rete e del sito Domusweb come di uno strumento da esplorare con maggiore convinzione e apertura soprattutto alle nuovissime generazioni di autori e progettisti.
Partendo sempre dalla stessa esperienza ma con l’urgenza di sposare un approccio critico e conoscitivo ancora più radicale e ossessivo è l’ultima direzione di Abitare con la coppia Mario Piazza e Giovanna Borasi, che, forte dell’esperienza curatoriale al CCA insieme a Mirko Zardini, ha continuato sulla carta quell’opera sofisticata di mappatura imperfetta del mondo contemporaneo puntando in ogni numero su di un tema o di una parola chiave che consentisse di leggere fenomeni molto più complessi.
In questa fase la situazione si è ulteriormente complicata: è stato appena annunciata la nuova direzione a Domus da Grima a Nicola Di Battista, architetto e allievo di Giorgio Grassi, le cui prime scelte editoriali si distanziano notevolmente dall’impianto ideologico del giovane ex-direttore, e con un legame molto forte agli autori e ai contenuti espressi recentemente dalla Biennale diretta da David Chipperfield. A questa notizia si aggiungono i rumors crescenti sul futuro incerto di Abitare che parrebbe destinata a essere affiancata a una linea editoriale più vicina a quella di Casa Amica e di Case d’Abitare, ma su questa vicenda pare ci siano ancora pochi, flebili margini di manovra e correzioni in corso.
Un’altra testata come Il Giornale dell’Architettura, fondato da Carlo Olmo nel 2002, ha appena annunciato che passerà dall’edizione stampa mensile al formato digitale, come in parallelo ha appena dichiarato che farà il trimestrale 2G di Gustavo Gili a Barcellona. Altra esperienza significativa, e in cui sono stato coinvolto direttamente, riguarda il padiglione Italia da me diretto in occasione della Biennale del 2010 in cui il tema “AILATI” indicava la necessità di uno sguardo e di una dimensione critica “laterale” e originale rispetto alla situazione internazionale. Non si trattava di una chiamata a un localismo identitario, ma di una domanda alla produzione di contenuti progettuali e culturali inediti, civili e soprattutto universali con cui cercare di rilanciare la difficile situazione dell’architettura in Italia.
Allontanandosi dalla dimensione più istituzionale il frastagliato panorama italiano ha dato forma ad altre esperienze che credo in questo momento rappresentino molto bene la necessità d’indagare orizzonti critici differenti e molto interessanti. Si tratta di tre testate aperte tra il 2010 e il 2011 e che raccontano tre storie molto diverse ma ugualmente rappresentative di un mondo che sta profondamente cambiando.
San Rocco nasce nel settembre 2010 da un collettivo di autori come Salottobuono, Baukhu, 2 a + p, office kgdvs e Giovanna Silva, legati generazionalmente, e dalla volontà di guardare all’architettura come a una esperienza squisitamente disciplinare e interna. Ogni numero ha un controllo estetico assoluto, la lingua è l’inglese e i materiali sono raccolti per call-for-paper attraverso la chiamata intorno a contenuti chiave. Il numero della serie è stato fissato a priori in venti, e il sostentamento economico passa da sottoscrizioni e dalla vendita online.
Il rigore critico e visivo della rivista cerca di esprimere la necessità di una riforma dell’architettura e un ritorno alla sua “purezza” che passi attraverso una sua rilettura libera e colta, anche con modalità ostentatamente tradizionaliste e, per questo, provocatorie rispetto a un sistema editoriale e accademico che sembrava essersi dimenticato del corpo dell’architettura.
Opposta è invece Inventario , ideata e diretta da Beppe Finessi e supportata dalla sua nascita nel 2010 da un unico, importante sponsor dal mondo del design. Inventario esprime una ricerca fragile ed enciclopedica di forme, immagini, parole chiavi, testi recuperati in maniera molto colta e originali in tutti gli ambiti possibili della creatività contemporanea, perché, come scrive Finessi nel primo numero «tutto è progetto. Ogni gesto, anche il più semplice, è progetto». In questi volumi dalla cadenza trimestrale si legge uno straordinario amore per la ricerca di qualità nel progetto e, insieme, la capacità di proiettare su ogni esperienza un pensiero critico inedito e provocatorio.
Ultima nata della triade è Dromos, ideata e diretta da Cherubino Gambardella, che da Napoli prova a rileggere in maniera originale l’architettura contemporanea attraverso un imponente sforzo collettivo di autori chiamati a offrire contributi critici e visivi. Anche in questo caso la rivista è un taglio monotematico e il formato editoriale guarda all’idea di produrre una pubblicazione periodica di architettura più che una rivista tradizionale.
Queste tre esperienze ci insegnano tutte che la crisi di vendite e di scrittura deve passare, da una parte, attraverso un cambiamento radicale dell’orizzonte culturale di riferimento, e, dall’altra, attraverso una riforma sostanziale degli strumenti e delle modalità di messa in Rete dei contenuti in maniera più orizzontale e aperta. Tutte queste storie d’idee e contenuti critici inediti usano la Rete in maniera innovativa e si sovrappongono al fermento dei blogger e dei social network che invece hanno vita più effimera e meno capace d’incidere in una prospettiva temporale interessante.
Come viene dimostrato, ad esempio, dalle esperienze parallele in Rete di autori come Beniamino Servino, Carmelo Baglivo, Luca Diffuse e Fabio Alessandro Fusco che cercano una forma di rifondazione critica e iconica attraverso la produzione potente e ossessiva di disegni che scompongono poeticamente la realtà esistente e che sembrano rinunciare provocatoriamente alla parola scritta. Si tratta di azioni coraggiose che dovrebbero, però, fare un salto ulteriore di maturità e autorevolezza nel costruire approfondimenti e dialoghi che usino la Rete in maniera ancora più radicale, e con la forza di una prospettiva storica e culturale di più lungo respiro.
In un momento in cui i social network (Instagram e Facebook in testa) sembrano uccidere le esperienze più interessanti dei blogger nazionali più interessanti come Pressletter di Luigi Prestinenza Puglisi, Wilfing Architettura di Salvatore D’Agostino e zeroundicipiu prediligendo il surfing all’approfondimento, la provocazione allo scavo, c’è da domandarsi che spazio avrà la critica italiana nei prossimi anni e quali orizzonti sarà capace di costruire per essere significativa e necessaria.
Credo che nella capacità di esprimere con durezza giudizi e prospettive, nella scelta di metterci la faccia prendendo posizione, e nella capacità della critica di tornare ad essere “politica” nella realtà e oltre alla disciplina, ci siano alcuni elementi da cui ripartire e su cui costruire un modo utile di contribuire alla profonda metamorfosi in cui siamo immersi. Non so se, in questo, riusciremo ancora a parlare di una critica “italiana” nei prossimi anni, ma sono convinto che più la critica avrà la forza di produrre contenuti e spunti universali, utilizzando la situazione di crisi profonda e l’evoluzione della Rete in maniera attiva e sperimentale, più avremo contenuti utili all’evoluzione di una disciplina in profonda crisi, ma la cui necessità considero ancora necessaria alla cultura architettonica dei prossimi decenni.