Due dischi che potevano aspettare
Under the Red Sky (1990)
(Il disco precedente: Oh Mercy
Il disco successivo: Traveling Wilburys Vol. 3)
Sguscia sguscia, come una regina zingara
sguscia sguscia, tutta vestita di verde,
sguscia sguscia, finché la luna è azzurra
sguscia finché la luna ti vede
Lo senti quel battito, tutti gli strumenti all’unisono? È tornato il vecchio-zio-Dylan, dalla sua strana vacanza in Louisiana. È tornato in California e si è già rimesso la giacca di pelle di Down in the Groove. Temeva che Lanois ci stesse addormentando ed è tornato a farci ballare coi suoi rock and roll fuori tempo, fuori senso, fuori tutto. Porta in regalo una valigia di filastrocche meno ispirate di quelle che aveva quand’è partito. Ha una voce più gracchiante e chioccia del solito – vecchio zio Dylan, ci sei mancato. Temevamo quasi che fossero finiti gli anni Ottanta. Temevamo quasi che ti fossi rimesso a fare dei bei dischi – giusto per la tigna di fregare un’altra volta i critici che ti davano spacciato nel 1980, nel 1970, nel 1966. E invece eccoti qui, stonato e scazzato al punto giusto. Caro vecchio zio Dylan, se non ci fossi tu.
Insomma avevo fatto quel disco con Lanois nel 1988. A quel punto stavo già facendo un centinaio di show all’anno. Avevo deciso di rimettermi a fare concerti, una cosa che non avevo più pensato davvero di fare dal 1966. Alcuni artisti fanno un sacco di sacrifici per registrare un disco – bruciano una gran quantità di tempo ed energia. Io lo avevo fatto con Lanois, e aveva funzionato abbastanza bene. Ma più o meno nello stesso periodo stavo facendo un disco coi Traveling Wilburys, e poi avevo cominciato quest’altro disco con Don Was, Under the Red Sky. Tutto questo stava succedendo nello stesso periodo. A ripensarci adesso sembra inimmaginabile. Mi capitava di mollare i Wilburys e scendere al Sunset Sound a registrare Under the Red Sky, il tutto allo stesso tempo perché il tal giorno avrei dovuto essere a Praga o da qualche altra parte. Ed entrambi i dischi, li lasciavo lì sospesi e poi più tardi sarei tornato a vedere com’erano venuti.
Elton John. David Crosby. George Harrison. Steve Ray Vaughan. Bruce Hornsby. Slash, quello dei Guns’n’Roses. Se vi dicessi che c’è un album del 1990 in cui hanno tutti collaborato, prodotto dal grande Don Was, cosa mi rispondereste? Scommettiamo che è uno di quegli inutili dischi di zio Bob in cui suonano tutti una particina che qualsiasi turnista rimediato nei sottoscala della Columbia avrebbe inciso senza che si notasse la differenza? Sei davvero così prevedibile, zio Bob, è il motivo per cui ti si vuole bene. Che altro avevi? Problemi con le partner? Un divorzio in arrivo? Problemi con l’alcool? La voce un po’ fiacca? Ma non ci dire. Quando Clinton Heylin licenziò le bozze di Jokerman, il disco era così fresco che aveva preferito non parlarne – più che un nuovo album era un ulteriore sintomo di una situazione preoccupante. Non dava più interviste, non faceva soundcheck, si presentava sul palco col volto quasi del tutto coperto. Anche in sala di registrazione si presentò spesso con “quel cappuccio del cazzo e gli occhiali scuri”, come disse Slash, che racconta di averne visto solo il naso – forse un labbro. Insomma stava un po’ peggio del solito. Però doveva fare un disco lo stesso. Ma perché?
Not one more night, not one more kiss
Not this time baby, no more of this
Takes too much skill, takes too much will
It’s revealing
Non è il Tempo e non è l’Amore. Non è la guerra e non è il passato. La Musa più assidua di Dylan, quella cui dobbiamo il maggior numero di dischi e canzoni, la sua più grande ispiratrice, è sempre lei: la Scadenza Contrattuale. Come non pensare a lei mentre ascoltiamo i nonsense di Under the Red Sky, le filastrocche buttate lì in mezz’ora sugli stessi giri blues che suonava già nel 1964, gli sgorbi di canzoni che avrebbe dovuto finire ma l’amica Scadenza urlava: non c’è tempo! e allora vabbe’, è andata così anche stavolta, arrivederci alla prossima. Scadenza Contrattuale, quanti crimini in tuo nome. Quanti dischi non per forza brutti, ma poco convinti, tirati via, mandati fuori per disperazione quando sarebbe bastato aspettare qualche mese, qualche anno. Ma chi è poi che ti ha mandato, Scadenza Contrattuale? Perché tanto infierisci sul povero Bob Dylan? Da quale altro grande vecchio del rock si pretendeva ancora un disco all’anno nel 1990? Che senso aveva spremerlo così? Era la Columbia ad averlo messo alla catena, o non era lui a insistere con una tabella di marcia che avrebbe sfibrato una rockstar con metà dei suoi anni? Al Toad’s Place di New Haven una sera suonò per cinque ore. A un tizio che gli chiedeva una canzone a un certo punto disse, ehi, me ne hai chieste già cinque e te le ho suonate. Il Grande Bob Dylan. Il Mito Distante e Scostante. Si stava tirando il collo da solo, e per cosa, per chi? I figli, d’accordo (secondo Carolyn Dennis, ne ha “otto o nove”). Un sacco di avvocati, le pedine di una ventennale battaglia col suo vecchio manager Grossman. Tutto questo basta a spiegare perché nel 1990 Dylan, sulla soglia della cinquantina, registrava due dischi mentre stava ancora promuovendo il precedente?
Era il 1990. Un artista di una major, nel 1990 pubblicava in media un disco ogni 18 mesi. Meno di così non avrebbe avuto senso – se il disco funzionava si estraevano tre, quattro singoli, e ognuno doveva godere della giusta esposizione radiofonica e su MTV. I più famosi diradavano ancora di più le uscite. Tra Nothing Like the Sun e The Soul Cages Sting fece passare quattro anni. Dopo Tunnel of Love (1987) Springsteen attese un anno in più – e poi ne fece uscire due, ma nel frattempo Dylan ne aveva incisi tre in studio e uno dal vivo. Nello stesso periodo si stava deteriorando il rapporto tra Prince e la sua casa madre, la Warner, che non solo lo aveva svezzato sin da piccolo (come la Columbia con Dylan), ma si era impadronito del suo nome registrandolo come un marchio. Prince continuava a registrare come un matto: avrebbe voluto e potuto uscire con uno o più dischi all’anno, mentre la Warner preferiva rallentare per non inflazionare il mercato.
È un dandy alla mano, circondato da polemiche. Ha fatto il giro del mondo, e rieccolo qua. Qualcosa nel plenilunio ancora lo tormenta – Dandy-Alla-Mano, zucchero e canditi. Se ogni osso del suo corpo fosse rotto, non lo ammetterebbe.
L’urgenza di registrare di Prince, però, era imputabile a un’ispirazione debordante – una necessità di liberarsi della troppa musica che aveva in testa, che aveva nelle mani. Dylan, tutte queste idee, queste canzoni, non le aveva. E però in un qualche modo il suo disco all’anno, fino al ’90, doveva farlo uscire. Dopo aver cucinato gli avanzi in Knocked Out Loaded, per Down in the Groove si era ridotto a servire agli invitati pietanze altrui, acquistate in fretta in qualche equivoca rosticceria sotto casa. Per Oh Mercy si era presentato in Louisiana quasi a mani vuote; e se in un qualche modo il duro lavoro con Lanois aveva dato qualche frutto, resta il mistero: perché affannarsi così? Sei un mito vivente, hai ancora gente che ti adora e ti compra i biglietti ovunque tu suoni: perché devi affliggerli con tutti questi dischi inutili? Quando capirai che di tutti i suicidi artistici, il tuo è il più lento e doloroso?
Tutte queste cose succedevano nello stesso periodo di tempo, e fu allora che capii che davvero ne avevo abbastanza. La mia parte razionale non sapeva più cosa farci. Avrei mantenuto il mio proponimento e non avrei più fatto dischi. Non sentivo il bisogno di annunciarlo, ma avevo comunque raggiunto questa conclusione. Non m’interessava più incidere. Preferivo suonare on the road. Registrare era una cosa troppo cerebrale. Inoltre, sentivo che non stavo scrivendo le canzoni che avrei voluto scrivere. Non ricevevo l’aiuto che mi serviva per registrare bene, non mi piaceva il suono dei dischi… non mi ricordo bene. Era solo… una cosa conduce all’altra, capisci? Mi resi conto che non ne potevo più.
Non deve essere stata per forza la Columbia, a insistere per avere un disco all’anno: ma nemmeno fece niente per evitare che il suo più prestigioso artista si buttasse via così. Sarebbe bastato dirgli, ehi Bob, come va? Abbiamo sentito qualcosa delle tue ultime sessioni con Don Was e… forse è meglio prendersi un po’ di riposo, che ne dici? Sì, certo, Don Was ci sarà costato un po’. È un grande professionista. Però… sai, tu ti stai già esponendo parecchio coi Wilburys che vanno fortissimo (anche se incidete per la Warner) e forse per quest’anno è sufficiente. Magari prendiamoci un annetto sabbatico, facciamo cassa con qualche inedito, e gettiamo i semi per un Grande Ritorno vecchio stile, che ne dici? Qualcosa che magari si riesca a piazzare non dico nella Top10, ma nella top30. Under the Red Sky negli USA si fermò a #38. È a oggi uno dei suoi dischi meno venduti. La cosa deve aver sorpreso soltanto Dylan, che da Don Was si aspettava un rilancio commerciale.
La storia la scrivono i vincitori, e così noi oggi consideriamo Under the Red Sky un incidente, un intermezzo dimenticabile tra i dischi della terza maturità di Dylan, i due registrati con Lanois e i due acustici. Ma quando uscì, Under the Sky diceva una sola cosa: che il metodo Lanois aveva fallito. Era Oh Mercy l’eccezione: Dylan era tornato in California e aveva ricominciato a registrare come negli anni Ottanta, alternando session intensive a lunghe pause, a volte rese necessarie da un fitto calendario di concerti. Dietro le manopole aveva di nuovo convocato un grande produttore molto aggiornato sui suoni che andavano in classifica nel momento: nel 1979 era Jerry Wexler, nel 1986 Arthur Baker, nel 1990 ecco Don Was. Quest’ultimo forse era un po’ più lungimirante di Baker, un po’ meno compromesso con le tendenze più effimere del decennio precedente (quella cazzo di batteria ecc.), forse semplicemente più abituato a infiocchettare qualsiasi merda gli dessero da registrare – fatto sta che Under the Sky risulta un ascolto meno fastidioso di Empire Burlesque, ma se possibile più deprimente. È tutto molto ben suonato e quasi del tutto inutile. Don Was se non altro dimostra di avere un’idea chiara di come dovrebbe suonare un disco di Dylan: un’idea che si è cristallizzata più o meno tra Like a Rolling Stone e Blonde On Blonde e prevede che il pianoforte svirgoli in libertà mentre le chitarre squillano accordi in maggiore. In alcuni brani viene per l’occasione riconvocato persino l’artefice di quel vecchio suono, Al Kooper: costretto una volta ancora a riprodurre in laboratorio quello che un tempo era stato un espediente spontaneo. Suonerebbe artificiale anche se Dylan avesse qualcosa da dire, ma non è quasi mai il caso. “One by one, they followed the sun / One by one, until there were none / Two by two, to their lovers they flew / Two by two, into the foggy dew”. C’è anche l’ipotesi che fossero le filastrocche che Dylan cantava alla sua bimba di quattro anni, accreditata come “Gabby Goo Goo” nelle note di copertina. Sì, ma ti ricordi quando i bambini gli ispiravano Man Gave Name to all the Animals? Quelli erano tempi.
Il risultato più notevole del combo Dylan/Kooper/Was è Handy Dandy, che nasce in coda a un’improvvisazione di Like a Rolling Stone. Lo racconta lo stesso Was: a un certo punto stava suonando il basso con gli altri due e quelli si mettono a suonare Like a Rolling Stone: che emozione. Finché la progressione del ritornello non si trasforma in qualcosa di più simile a Louie Louie, Dylan si mette a improvvisare versi su un musicista balordo, ed è più o meno buona la prima.
Handy Dandy, ha un mazzo di fiori e un sacco pieno di dolori. Finisce il suo drink, si alza e dice: “Ok, ragazzi, ci si vede domani”.
Forse a un certo punto Dylan aveva pensato semplicemente di fare un disco tranquillo, un po’ estemporaneo, tra amici, insomma un disco alla Wilburys. Unbelievable è un rock allegro che inizia con lo stesso fraseggio di chitarra che usava George Harrison in Honey Don’t – e magari la sta suonando davvero Harrison, quindi che male c’è? Certi brani alla fine sono talmente nella media che ti domandi se non potrebbero stare in qualsiasi altro disco di Dylan. Cat’s in the Well alla fine è Outlaw Blues, rifatta venticinque anni dopo con strumentazioni migliori e un testo più scemo. Però dal vivo l’ha suonata trecento volte, Outlaw Blues una volta sola. Una cosa sconcertante di Under the Red Sky è che contiene alcuni brani a cui non daresti il minimo credito, e che invece sono diventati cavalli di battaglia delle sue successive esecuzioni dal vivo. Il brano omonimo è una canzoncina macabra come potrebbe inventarsela un bambino di sei anni dopo che gli hai raccontato Hansel e Gretel.
There was a little boy and there was a little girl
And they lived in an alley under the red sky…
[E adesso cosa canto? Bah, ripeto i primi due versi un po’ più accelerati:]
There was a little boy and there was a little girl, and they lived in an alley under the red skyyyy…
Sembra uno scherzo scemo, il modo di perpetuare due tradizioni: (1) inserire il brano più debole al secondo posto della scaletta; (2) usare il titolo del brano più debole come titolo dell’intero album (come in John Wesley Harding. Alla Columbia si erano lamentati perché Oh Mercy non aveva una title track, beh, eccovi accontentati). Poi uno va a vedere se per caso abbia mai cantato Under the Red Sky dal vivo e misericordia! 148 esecuzioni in poco più di vent’anni. Magari nel frattempo è migliorata, è diventata una canzone interessante. Lo spero per Dylan e per i suoi ascoltatori. TV Talkin’ Song non è purtroppo il talkin’ blues che sembra promettere dal titolo (per quanto la melodia sia ridotta al minimo), ma è l’unico brano in cui Dylan non si accontenta di dispensare filastrocche o fesserie da anziano al parco. Anzi, sembra il brano in cui Dylan per la prima volta si pone il problema: come posso fare a lamentarmi della modernità senza sembrare un anziano al parco? L’espediente è immaginare che tutte le cose brutte che vorrebbe dire sulla TV, Dylan non le stia affermando in prima persona. Sta solo riferendo quello che ha sentito dire da un predicatore a Hyde Park (pare sia successo davvero, Dave Stewart testimone).
“The news of the day is on all the time
All the latest gossip, all the latest rhyme
Your mind is your temple, keep it beautiful and free
Don’t let an egg get laid in it by something you can’t see”
“Pray for peace!” he said. You could feel it in the crowd
My thoughts began to wander. His voice was ringing loud
“It will destroy your family, your happy home is gone
No one can protect you from it once you turn it on”
Ok, sembrano proprio le fesserie di un anziano al parco. Fate la prova: rileggetele a qualcuno che non conosce il titolo della canzone; chiedetegli di cosa sta parlando. Di Facebook? Internet? La radio? La stampa periodica? Ogni generazione ha il suo satana mediatico. “Un giorno dovrete fare come Elvis e sparare a quella cosa”. A questo punto però la folla comincia a premere sullo speaker, c’è baccano, Dylan nota una troupe televisiva e se la batte. Quella sera stessa, rivede la scena in tv. Canzoni che finiscono con Dylan che spegne il televisore: Black Diamond Bay, Tweeter and the Monkey Man, TV Talkin’ Song.
Traveling Wilburys Vol. 3 (1990)
(Il disco precedente: Under the Red Sky
Il disco successivo: The Bootleg Series Vol 1-3 (Rare and Unreleased)).
Un altro disco che avrebbe benissimo potuto aspettare, Traveling Wilburys Vol. 3 nasce da una situazione speculare: se Dylan vendeva troppo poco (e quindi cercava di rifilare più dischi agli stessi acquirenti), gli Wilburys col Vol. 1 avevano venduto fin troppo. Un’oculata gestione del prodotto avrebbe a questo punto suggerito di attendere diversi anni, in modo da attendere che si ricreasse l’effetto sorpresa: d’altronde, come si fa a dire di no a milioni di copie? Per il primo volume era bastato un mese di lavoro; i soldi facili a chi fanno schifo? Senz’altro l’effetto sorpresa a quel punto andava a farsi benedire. Senz’altro molti che nel 1988 avevano reagito a Handle with Care con meraviglia (“Ma guarda cosa combinano questi”) due anni dopo avrebbero cambiato canale annoiati (“Uff, rieccoli”). Ma avrebbe venduto comunque molto bene, e quindi, perché no? Rock and roll. Il risultato è un disco che soffre inevitabilmente il confronto col precedente – molti brani sono sullo stesso livello, ma l’effetto sorpresa, per l’appunto, è andato. La scomparsa di Roy Orbison, e della sua voce così peculiare, finisce per avvicinare i quattro superstiti, che si alternano più spesso sulla stessa canzone e non lesinano i cori. Dei quattro, Dylan è quello cui più spesso tocca l’onere della voce solista (molto inferiore il contributo vocale di Harrison); il primo lato è quasi tutto roba sua e fa arrabbiare, sul serio, il fatto che sembri molto più in forma qui che nel disco a suo nome che aveva appena licenziato. Se If You Belong to Me è praticamente un pezzo solista, inciso senza fronzoli di studio, The Devil’s Been Busy è impreziosito da quei cori finto-beatlesiani che, somministrati con parsimonia, fanno sempre la loro figura.
Il disco fu intitolato “Vol. 3” per scherzo: il secondo volume sarebbe un misterioso bootleg smarrito da Harrison. C’è un’altra ipotesi: tra il primo e il terzo volume c’era stato un altro disco che aveva cambiato le carte in tavola: Full Moon Fever, il primo album registrato da Tom Petty senza gli Heartbreakers – in realtà ci suonarono quasi tutti – e con il massiccio aiuto di Jeff Lynne, coautore di tutti i brani più famosi: Free Falling, Running Down a Dream, Yer So Bad, I Won’t Back Down. Nel video di quest’ultimo brano, Petty e Lynne suonano con Harrison e Ringo Starr (quest’ultimo in realtà non aveva preso parte al disco), e il Vol. 3 dei Wilburys prolunga la sensazione che i due membri più giovani stiano giocando a fare John e Paul: basta sentirli in You Took My Breathe Away, con George Harrison che si presta al gioco un po’ macabro (quasi un’anticipazione della necromanzia di Free as a Bird, registrata cinque anni dopo dai tre Beatles sopravvissuti, ancora una volta con l’assistenza di Lynne). Mentre rispolverano le orchestrine di Sgt. Pepper, Dylan è già lontano, a Praga o altrove.
Il disco andò meno bene del primo, ma comunque abbastanza bene. Qualcuno dei quattro cominciava già a pensare a un tour assieme, ma tutti avevano i loro impegni e alla fine non si fece mai niente. Poi nel 2001 se ne andò George Harrison. Due settimane fa se n’è andato Tom Petty. Sono rimasti solo Dylan e Lynne. Già che ci sono potrebbero farlo, un disco insieme. Sinceramente non capisco perché non ci provarono intorno al 1990. Lynne scrisse con Petty alcune delle sue canzoni migliori (anche Into the Great Wide Open): certo, lavorare con Dylan sarebbe stato più difficile, ma non c’è un brano di Vol.1 e Vol.2 in cui canta Dylan che non si ascolterebbe volentieri anche in Down in the Groove o Under the Red Sky. Invece di scomodare Don Was e tutta la compagnia, non sarebbe stato molto più semplice farsi accendere un microfono da Lynne nel suo studio-garage dove avevano lavorato così bene a Handle With Care e registrare qualche canzone in tutta semplicità, stile garage, come If You Belong to Me? Però non è successo. In quel garage, alla fine Dylan ci sarebbe tornato da solo… (continua).
(Gli altri pezzi: 1962: Bob Dylan, Live at the Gaslight 1962, 1963: The Freewheelin’ Bob Dylan, Brandeis University 1963, Live at Carnegie Hall 1963, 1964: The Times They Are A-Changin’, The Witmark Demos, Another Side of Bob Dylan, Concert at Philharmonic Hall, 1965: Bringing It All Back Home, No Direction Home, Highway 61 Revisited, 1966: The Cutting Edge 1965-1966, Blonde On Blonde, Live 1966 “The Royal Albert Hall Concert”, The Real Royal Albert Hall 1966 Concert, 1967: The Basement Tapes, John Wesley Harding, 1969: Nashville Skyline, 1970: Self Portrait, Dylan, New Morning, Another Self Portrait, 1971: Greatest Hits II, 1973: Pat Garrett and Billy the Kid, 1974: Planet Waves, Before the Flood, 1975: Blood on the Tracks, Desire, The Rolling Thunder Revue, 1976: Hard Rain, 1978: Street-Legal, At Budokan, 1979: Slow Train Coming, 1980: Saved, 1981: Shot of Love, 1983: Infidels, 1984: Real Live, 1985: Empire Burlesque, Biograph, 1986: Knocked Out Loaded, 1987: Down in the Groove, Dylan and the Dead, 1988: The Traveling Wilburys Vol. 1, 1989: Oh Mercy, 1990: Under the Red Sky, Traveling Wilburys Vol. 3), 1991: The Bootleg Series Vol 1-3 (Rare and Unreleased)…)