Nella vecchia fattoria (di Maggie)
Real Live (1984)
(Il disco precedente: Infidels
Il disco successivo: Empire Burlesque).
Non sono io.
No, no, no, non sono io, babe.
Non sono io quello che cerchi, babe (migliaia di persone al Wembley di Londra, 27 luglio 1984).
Di tutte le svolte improvvise e contraddittorie che hanno segnato la carriera di Dylan, ce n’è una che avviene in poco meno di un minuto, un minuto ridicolo, tragico e imbarazzante. Comincia con una nota dissonante, il che è molto dylaniano. Il nostro eroe sta suonando con i Plugz, un gruppo postpunk ispanocaliforniano, voglio ripeterlo: è un gruppo postpunk ispanocaliforniano col quale sta provando intensivamente da alcune settimane. Che fine hanno fatto i turnisti superprofessonali di Infidels? Accantonati. E i cori gospel? Sono passati appena tre anni, sembra una vita. I Plugz stanno stravolgendo un paio di brani del disco uscito pochi mesi prima che Dylan in teoria dovrebbe promuovere – in pratica sembra volerlo fare a pezzi. È il momento dell’assolo di armonica; Dylan si stacca di dosso la chitarra senza che il sound complessivo ne risenta, afferra un’armonica, l’accosta al microfono nel pugno, comincia a soffiare, ma l’effetto è quello di un clacson di un autobus che nemmeno il postpunk può assorbire incolume. Che sta succedendo? Gli avevano preparato l’armonica sbagliata. Chissà quante volte gli era capitato – del resto secondo voi Dylan si preoccupa di spiegare quale armonica vuole a portata di mano, o in che chiave ha intenzione di suonare la prossima canzone? Il problema è che stavolta sta succedendo in diretta tv nazionale, al David Letterman Show. E per quanto sia solo un piccolo imprevisto della diretta, che quasi nulla toglie alla freschezza dell’esibizione; per quanto lo stesso Letterman alla fine arrivi a stringere la mano a Dylan e a proporgli di tornare da lui “ogni giovedì sera”, strappando al mostro sacro una risata, la verità è che abbiamo appena assistito a una delle svolte più nette e tristi della storia di Bob Dylan. Il pendolo stavolta è oscillato in un istante, il brevissimo flirt di Bob col post-punk finisce qui.
E dire che sarebbe bastato così poco – l’armonica giusta al posto giusto? Fino a pochi minuti prima sembrava felice: una telecamera lo aveva sorpreso mentre alzava addirittura un pugno chiuso con entusiasmo da combattente. Stava massacrando Jokerman con la stessa furia con cui nel ’74 insieme alla Band aveva affondato Lay Lady Lay, ma il risultato era molto più convincente. Dylan sembrava staccarsi dalle secche dei Dire Straits per avvicinarsi ai promontori dei Talking Heads, dove forse non avrebbe potuto approdare, eppure… Quei ragazzi ispanocaliforniani avrebbero potuto essere suoi figli – in effetti, se non fosse stato per i dischi punk e new wave che ascoltava il suo figlio maggiore, non li avrebbe mai reclutati – ma avevano la grinta giusta per abbattere il Dylansauro e assistere al parto di un mostro nuovo. E invece.
E invece l’armonica era quella sbagliata, Dylan si ritrovò in un attimo sperduto sul set mentre i Plugz continuavano a darci dentro, impassibili, come i professionisti che ancora non erano, ma che quel giorno sarebbero potuti diventare. Qui si potrebbe anche inserire una digressione sul concetto di professionismo, su quanto permei la cultura nordamericana e abbia relativamente smorzato la carica nichilista del primo punk britannico; è un concetto contro il quale Dylan ha combattuto da una vita, scrivendo e cantando canzoni piene di trappole per i virtuosi, canzoni incantabili e insuonabili; eppure anche Dylan non è mai riuscito a liberarsi del tutto dall’imperativo morale del professionismo, dall’ansia della prestazione, dalla vergogna del fiasco. Forse mentre distruggeva Jokerman a pugno chiuso dal vivo ci stava riuscendo; ma l’armonica stonata era troppo anche per lui. Ufficialmente lo show andò bene. Letterman si congratulò, e su Youtube ci sono ancora fan che lasciano un pollice alto e definiscono quel mezzo minuto di panico da armonica una straordinaria epifania televisiva. Ma Dylan, lo abbiamo visto, non è un gran fan di sé stesso. Fa anzi un po’ fatica a riascoltarsi, odia la diretta televisiva e ai Plugz, dopo le strette di mano e i saluti, disse soltanto: vi chiamo lunedì. Lo stanno ancora aspettando.
Non lavorerò più per la fattoria di Maggie (Bob Dylan, 1965; ma anche 1976; ma anche 1978; ma anche 1984).
Tre mesi dopo era in tour in Europa, un doppio show con Santana, roba da riempire gli stadi da calcio (in alcune date arrivò anche Joan Baez, ma litigarono e non si sono più rivisti, credo, da allora). Ad accompagnarlo una band di professionisti, tra cui spicca Mick Taylor (l’ex rolling stone è l’unica conferma della super-formazione di Infidels) e Ian McLagan, già (ex Small Faces e Faces). Tutti coetanei affidabili in giro dagli anni Sessanta, nessun ragazzino. Ma nemmeno coriste. In compenso c’è il coro del pubblico – tante grazie, è un live – sì, ma siamo in quella fase post-BobMarleyana in cui i live devono documentare anche l’interazione della star col pubblico, che è sempre più vasto, (non si sentono più voci e fischi, ma un boato indistinto) eppure sembra sempre più disciplinato: è un pubblico-massa ma è anche un pubblico-strumento con una partitura da seguire. Dylan non è che si metta a sollecitarlo a colpi di “Yooo-ooooh”, come Marley (o Sting), né lo asseconda come Baglioni, ma gli permette per la prima volta di cantare un ritornello da solo, e di tutti i ritornelli possibili sceglie It Ain’t Me. Così su Real Live abbiamo la possibilità di sentire ventimila inglesi che cantano all’unisono: Non sono io, babe. No, no, no, non sono io babe, quello che stai cercando. Quanti in quel momento avranno fatto caso all’ironia?
Sull’erba dello stadio della nazionale inglese c’era gente che lo seguiva ormai da vent’anni: quattro lustri passati a sentirlo cantare che non avrebbe più lavorato per la Fattoria di Maggie. All’inizio magari Maggie erano gli hipster del folk metropolitano che pretendevano che Dylan non giocasse con le chitarre elettriche, o l’industria musicale che pretendeva da lui due dischi all’anno, o il movimento dei diritti civili che voleva arruolarlo come tamburino. In seguito avevano cantato I ain’t gonna work for Maggie’s Farm i ragazzi americani che non volevano andare in Vietnam e quelli britannici che protestavano contro il governo di Margareth, “Maggie” Thatcher. L’avevano incisa persino gli Specials. L’avrebbero suonata dal vivo anche gli U2. E Dylan nell’estate 1984 poteva forse esimersi? Così in Real Live lo sentiamo cantare, per la duecentoventesima volta dal vivo, che non ha intenzione di lavorare più per quella fattoria (220 non è un numero a caso). No More! Anche in questo caso, l’ironia sembra inconsapevole, o al limite svagata come può essere svagato l’attore che recita per la 220sima volta la stessa barzelletta – sarebbe strano se la trovasse ancora divertente.
Real Live è uno di quei dischi che ti domandi se Dylan si ricorda di averli pubblicati. Uno degli articoli del suo catalogo di cui è più facile dimenticarsi, così com’è difficile dimenticarsi di quel tour (che pure fu il primo in cui calò in Italia). In quell’estate del 1984 Dylan non cantava né troppo male né particolarmente bene; gli arrangiamenti non erano né postpunk come quelli sperimentati al Letterman Show, né gospel, né barocchi come ai tempi del World Tour, né fracassoni come quelli della Revue. È un robusto rock da stadio, impreziosito da una gloriosa ospitata di Carlos Santana in Tombstone Blues. È uno di quei dischi live che all’inizio passa quasi inosservato, ma poi invecchia in modo dignitoso. Come nel caso di At Budokan e Hard Rain, c’è una specie di difficoltà iniziale da superare, che facilmente poteva irrigidire i primi recensori: nei primi brani Dylan deve ancora scaldarsi, e non lo aiuta il fatto di dover cantare per la duecentesima volta che Abramo deve uccidere suo figlio sull’Highway 61, e che non ha intenzione di ripresentarsi a quella maledetta fattoria. (E sta succedendo qualcosa e non sai cos’è, figurati: dopo vent’anni ancora stai lì a domandarti cosa succede, Mr Jones?) Uno ovviamente può anche retoricamente chiedersi: ma ha senso pubblicare un live del genere, il quarto in dieci anni?
Un senso c’è sempre, almeno dal punto di vista commerciale: Dylan non era forse più, dopo l’avvento di Springsteen, l’artista più piratato dal vivo, ma continuava a creare il suo bell’indotto di bootleg abusivi. Più che di contrastare il fenomeno, un prodotto come Real Live sembra volerlo cavalcare. Sin dalla copertina – adornata da una foto di Dylan che avrebbe potuto scattare un qualsiasi fan dalle prime file, in cui nemmeno il giubbotto di pelle, un po’ sformato sulla schiena, riesce a scongiurare la sensazione di trovarsi davanti a un musicista ambulante in una serata no. Il titolo, Real Live, sovraimpresso con quel font pacchiano, oltre a sollevare qualche sospetto sull’autenticità di tutti gli altri live, suona come il meno dylaniano in assoluto, un titolo da discount. La Columbia lo fece uscire a Natale – quel periodo dell’anno in cui i ragazzi si domandano cosa regalare al papà fissato con gli anni Sessanta – ma negli USA non entrò nemmeno in top100.
In effetti, a questo punto della storia il papà più dylanita in circolazione aveva già in casa due versioni di Girl From the North Country, con Johnny Cash e senza; e ovviamente due versioni dal vivo di Maggie’s Farm (quella incazzosa di Hard Rain e in quella bombastica di At Budokan). La vera pecca di Real Live è che, come primo disco live dai tempi della conversione, non rende affatto conto di quanto Dylan abbia lavorato e sperimentato dal Budokan in poi. Pensateci: c’è stata la fase patinata con Wexler e Knopfler, la fase gospel dura-e-pura, il brainstorming fracassone parzialmente sfociato in Shot of Love, il professionismo ispirato di Infidels, la brevissima parentesi postpunk coi Plugz. Di tutto questo Real Live non conserva traccia: è un disco che azzera tutto e riparte dagli anni Sessanta. Su dieci brani, sette sono anteriori al 1966 (e di cinque circolava già un’esecuzione live, quasi sempre più interessante almeno a livello storico). Gli anni Settanta sono completamente ignorati – fatta eccezione per il pezzo forte del disco: una Tangled Up in Blue acustica completamente reinventata. Anche la trilogia cristiana è già scomparsa dall’orizzonte: c’è posto soltanto per due relative novità uscite nel disco dell’anno precedente: I and I e License to Kill, meno interessanti della Jokerman suonata in tv. Come se il promettente folk-rocker fosse andato in letargo dopo aver realizzato Highway 61 (non c’è nemmeno un pezzo da Blonde On Blonde!) per risvegliarsi soltanto nel 1983. Forse il messaggio era: Infidels è un gran disco, è l’unico degno di stare al cospetto coi capolavori del mio periodo classico. Questo è forse l’aspetto che rende più datato di Real Live.
Perché poi ci sono anche cose attuali e sorprendenti, che ti fanno aggiungere Real Live al grande insieme dei dischi-di-Dylan-sottovalutati. Oltre a quel momento insieme commovente e straniante in cui la folla canta Non sono io, no-no-no, ci sono almeno due brani che dimostrano come la vitalità di Dylan passi non soltanto dalla produzione incessante di pezzi nuovi, ma sempre di più dalla capacità di ridare vita in modo imprevisto a pezzi vecchi. È il caso di Tangled Up in Blue e di Masters of War, un brano che Dylan riesuma da una fase della sua carriera che doveva ormai sembrare, a lui e non solo a lui, una vita precedente.
Al contrario di Tangled, Dylan non tocca una sillaba di quanto aveva scritto nel 1962, compreso quel terribile “I hope that you die”, rivolto ai mercanti di morte. Dal punto di vista musicale invece è una riscrittura completa – è come se a Masters fosse asportata la melodia originale che la sorreggeva, quella Nottamun Town che gli aveva portato un’accusa di plagio più pertinente di tante altre. Ora Masters è una canzone nuova, libera di andare in giro per il mondo. Ma cos’è questa storia che nel 1984 Dylan si rimette a portare in giro la più violenta delle canzoni pacifiste? Appena un anno dopo aver inciso Neighborhood Bully e soprattutto Man of Peace, quell’invito a diffidare dei filantropi umanitari che si riempiono la bocca della parola con la P? Mi piacerebbe poter dire che Dylan stava fiutando i tempi; che non era indifferente alla campagna promossa dalle sinistre europee contro l’installazione degli euromissili, e magari riusciva con le sue capacità profetiche a percepire le vibrazioni che annunciavano la perestrojka e il crollo del Muro di Berlino. In realtà in quel periodo BD beveva parecchio, cacciava sottane a 360° e aveva un’idea vaga di qualsiasi cosa gli succedesse attorno, al punto che di lì a un anno non si sarebbe praticamente reso conto di suonare al Live Aid. Quel che rimane agli atti è che a metà anni Ottanta, in concomitanza con un’ondata di film hollywoodiani sul Vietnam, Dylan si rimetterà a suonare Masters of War e a scrivere qualche canzone contro la guerra: di quelle che aveva accuratamente evitato di incidere durante tutto il conflitto del Vietnam.
E arriviamo a Tangled Up in Blue, che Dylan non aveva mai smesso di riscrivere, e che soltanto nel 1985 dichiarò terminata, proprio nella versione contenuta in Real Live. È un’affermazione forte, che forse serviva anche a svuotare qualche magazzino della Columbia dagli invenduti, e che a distanza di altri trent’anni non risulta credibile: la Tangled Up in Blue ristampata nelle antologie e nei cofanetti è quella pubblicata nel 1975 su Blood on the Tracks. Se uno cerca il testo ufficiale sul Bobdylan.com, trova soltanto quello del 1975. Oggi come oggi Dylan l’ha eseguita dal vivo più di mille volte (persino più di Maggie’s Farm): di solito riprende il testo del 1975. La versione del 1984 è la variante d’autore più diversa dall’originale, e per un attimo al suo autore sembrò la migliore: ma il tempo ha smentito questa impressione (anche Masters of War, resuscitata a nuova vita dopo la guerra in Iraq, ha ripreso la melodia di Nottamun Town).
Qui devo mettere le mani avanti, o piazzare un disclaimer, come dicono a Milano: io Tangled Up in Blue non l’ho mai capita, in nessuna delle sue versioni. La pretesa del suo autore, di scrivere una storia “senza rispetto per il tempo” (“hai lo ieri, l’oggi e il domani nella stessa stanza!”) mi è sempre sembrata discutibile: risibili i riferimenti al cubismo. Tangled Up mi piace lo stesso, forse perché sono un italiano e sono abituato sin da piccolo a non capire nessuna canzone che ascolto. Mi piace l’immagine di un tizio solo che viaggia da una parte all’altra dell’Unione, alla ricerca di un amore passato o futuro, impigliato in una tristezza che non si districherà mai, ecco: mi piace il ritornello, disperato eppure così liberatorio da cantare: impigliato nel blu. La versione del 1984 mi piace ancora di più, ma forse mi piacerebbe così tanto se non avessi in mente l’originale. Mi piace l’idea che sottende: a un pubblico che si aspetta di riascoltare per l’ennesima volta la stessa storia, la stessa fattoria, Dylan si presenta dicendo: sapete che quella canzone in realtà era soltanto uno stadio, e che nel frattempo è diventata una cosa molto diversa? È uno choc che passa dalla musica ancora prima che dalle parole. Analogamente a quanto era successo con Jokerman al Letterman Show, Dylan per prima cosa rimette in discussione la melodia, la progressione armonica. Aggiunge un passaggio in minore che disorienta il pubblico e aumenta la malinconia. E poi, certo, stravolge le parole, ma quelle non erano mai state chiare. Toglie la strofa più ridicola, quella sul poeta italiano che all’inizio era del quindicesimo secolo, ma già a Minneapolis era stato spostato al tredicesimo – poi nella fase gospel c’era stata una sarabanda di versetti biblici prima inventati e poi autentici, perché alla fine Dylan molto spesso fa così: prima butta lì un riferimento, una citazione e poi va a controllare se davvero qualcuno l’ha scritto (in seguito ha affermato che il poeta è Plutarco, ma bofonchiava e probabilmente intendeva Petrarca).
Quel che mi sembra di capire è che la canzone ormai ruota intorno a un triangolo: ci sono due giovani ribelli che si amano ma si lasciano perché è meglio così, lui si trova un buon lavoro e lei si mette a fare la spogliarellista. E poi c’è la persona che dice “io”, che incontra lei ma ha già iniziato a darle del tu da un paio di strofe. Vanno a vivere in tre in Montague Street (una via di Brooklyn dove Dylan potrebbe aver vissuto), ma a un certo punto c’è una rivolta di schiavi, tutto va a farsi fottere e il nostro eroe si ritrova al punto di partenza, impigliato nel blu. Quell’alternanza di pronomi (dalla prima alla terza persona) che nelle prime versioni del 1974 sembrava incidentale – il risultato di una sovrapposizione di due stesure, spacciata per “cubismo”, ormai è diventata una situazione reale: “io” e “lui” sono diventati due uomini diversi che convivono con la stessa donna. Più che una storia nuova, è il rifiuto di una storia vecchia: la versione del 1974 assomigliava ancora molto alla storia del suo matrimonio, quella del 1985 è un passo avanti verso la fiction (ora il primo marito di lei ha “quattro volte la sua età”, un’esagerazione goffa come certe cancellature nei diari). Non ha molto senso ma non l’aveva neanche prima, ma è impigliato nella tristezza: e soprattutto non è la solita, vecchia Fattoria.
(Gli altri pezzi: 1962: Bob Dylan, Live at the Gaslight 1962, 1963: The Freewheelin’ Bob Dylan, Brandeis University 1963, Live at Carnegie Hall 1963, 1964: The Times They Are A-Changin’, The Witmark Demos, Another Side of Bob Dylan, Concert at Philharmonic Hall, 1965: Bringing It All Back Home, No Direction Home, Highway 61 Revisited, 1966: The Cutting Edge 1965-1966, Blonde On Blonde, Live 1966 “The Royal Albert Hall Concert”, The Real Royal Albert Hall 1966 Concert, 1967: The Basement Tapes, John Wesley Harding, 1969: Nashville Skyline, 1970: Self Portrait, Dylan, New Morning, Another Self Portrait, 1971: Greatest Hits II, 1973: Pat Garrett and Billy the Kid, 1974: Planet Waves, Before the Flood, 1975: Blood on the Tracks, Desire, The Rolling Thunder Revue, 1976: Hard Rain, 1978: Street-Legal, At Budokan, 1979: Slow Train Coming, 1980: Saved, 1981: Shot of Love, 1983: Infidels, 1984: Real Live, 1985: Empire Burlesque…)