Mr Dylan va a Washington
Live at Carnegie Hall 1963 (2005)
(L’album precedente: Bob Dylan In Concert – Brandeis University 1963
Il successivo: The Times They Are A-Changin’).
Qualcuno qui magari si ricorda di Placanica. Quel ragazzo che sparò a Giuliani a Genova – in realtà dagli atti del processo risulta che sparò in aria ma la pallottola incontrò un sasso, e vabbe’. Ma se magari rammentate che aria tirava nei mesi successivi, ecco, provate a immaginare che a un’enorme manifestazione, convocata in quei mesi per chiedere verità e giustizia sui fatti di Genova, un giovane cantautore prendesse la chitarra in mano e davanti a tutti cantasse: lasciate stare Placanica, non è mica colpa sua. È solo una pedina nel loro gioco. No, non mi pare che sia successo. Ci sarebbe voluta una certa incoscienza, una certa faccia tosta, una certa miscela di entrambe che è merce rarissima.
Una pallottola da un cespuglio si prese il sangue di Medgar Evers…
Tra il festival alla Brandeis University e il concerto alla Carnegie Hall ci sono appena cinque mesi, ma i tempi stanno decisamente cambiando, non solo per Dylan. Il ragazzo ha iniziato a vendere dischi – non tanto i suoi, all’inizio: è la versione di Blowin’ in the Wind di Peter, Paul &Mary a essere entrata in top ten. Ma è Joan Baez soprattutto che lo ha preso sotto la sua ala. Con già tre dischi d’oro all’attivo, la Baez non è soltanto una cantante folk: lei è popolare davvero. Il suo pubblico è molto più esteso di quello del folk festival di Newport (dove comunque chiama sul palco Dylan in luglio); più trasversale della piccola comunità di studenti e hipster metropolitani che cercano nel folk una connessione sentimentale con l’America vera (il Paese reale, lo chiameremmo oggi). Lo si vede chiaramente appena un mese dopo.
Il 28 agosto centinaia di migliaia di manifestanti marciano su Washington per chiedere pace, lavoro e diritti civili. Se guardate le foto, è uno di quei casi in cui in Italia si parla di un milione, un milione e mezzo (centomila per la questura). L’80% erano afroamericani e probabilmente non avevano mai assistito a concerti folk. Ma Joan Baez aveva le carte in regola per prendere il microfono – qualche ora prima che il reverendo Martin Luther King annunciasse “I had a dream” – e intonare Freedom, intonare We Shall Overcome. La Baez però si era portata anche Dylan. Che occasione storica per cantare Blowing in the Wind davanti a centinaia di migliaia di persone, no? Pensate che Dylan l’abbia colta?
E poi vi stupite che non vada a Stoccolma. A un pubblico così diverso dal solito, il giovane folksinger non propone il suo primo (e fin qui unico) successo, l’unico brano che avrebbero potuto sentire in radio; l’unico di cui qualcuno avrebbe potuto canticchiare un ritornello – è vero che da qualche parte del corteo lo avevano già intonato Peter Paul e Mary, ma nessuno se la sarebbe presa per un bis. A un pubblico tanto affamato di cori da chiesa e/o da stadio, Dylan propone un pezzo che ha appena scritto e non ancora registrato, una canzone che conosce solo lui, ispirata un po’ alla Bibbia un po’ alla Jenny dei Pirati di Bertolt Brecht, When the Ship Comes In. Nel filmato si vede la Baez arrivare in un secondo momento, un po’ a sorpresa, quasi come se avesse capito solo in quel momento che c’era bisogno di dare una mano – ma neanche lei sa le parole, e allora che fa? Canta la melodia. Con l’acustica approssimativa che doveva esserci, con quel benedetto ragazzo che si ostina a masticare parole nuove davanti al microfono, l’unico modo di salvare l’esibizione è far sentire la melodia. Lei se ne rende conto subito, e interviene. Una professionista, lei.
(Non tutti quelli che amano Dylan sono obbligati ad amare la Baez. Ma di solito più conosci lui, più scopri di stimare lei).
Gli sceriffi, i soldati, i governatori sono pagati, e i federali e i poliziotti; ma il povero bianco è nelle loro mani come uno strumento. Nelle scuole gli insegnano dall’inizio che le regole e le leggi sono dalla sua parte, per proteggere la sua pelle bianca e conservare il suo odio perché non veda mai le cose come stanno, e il ruolo che gli è capitato; ma non va incolpato. È solo una pedina nel loro gioco…
“Ma cosa sta dicendo?” |
Come autosabotaggio When the Ship non era sufficiente. Quando lo richiamano sul palco, Dylan aggiunge un altro inedito, Only a Pawn in Their Game, che oltre a essere una delle melodie più brutte mai trovate da Dylan in 50 anni di altalenante carriera, è anche il brano che cerca di contestualizzare, se non di minimizzare, le responsabilità individuali di Byron De La Beckwith, l’assassino dell’attivista per i diritti umani Medgar Evers appena due mesi prima. Sarebbe ancora andato in giro per anni a raccontare di aver mirato al negro che tornava a casa da una riunione, mentre due giurie di soli bianchi lo proclameranno innocente. Ma è solo una pedina nel loro gioco, dice Dylan. Ha ancora i capelli molto corti, l’inquadratura stringe sul suo bel viso imberbe, la chitarra non si vede e quasi non si sente, non è mai stato così poco cantante e così predicatore. Qualche manifestante sembra sbigottito, ma forse sta solo cercando di capire le parole: l’acustica era pessima. Oggi la definiremmo una provocazione, ma non tanti si accorsero di quello che Dylan stava facendo – lui stesso non era così consapevole: non ancora abituato a essere interpretato e sviscerato per ogni parola e ogni silenzio. E davvero, quel giorno tutti avevano ben altro a cui pensare. Chi c’è stato, ricorda che sulle corriere lo stato d’animo prevalente era l’ansia. Non andavano a una festa, sapevano di potersi prendere gas o pallottole. La marcia su Washington è solo l’inizio: poi ci saranno altre battaglie, e Joan Baez ci sarà quasi sempre. Dylan invece è già a disagio – o è un’impressione?
Due mesi l’artista emergente fa una data al Carnegie Hall. La registrazione è così buona che alla Columbia pensano di farne un disco; hanno già mandato in stampa la copertina quando cambiano idea, non si è mai capito il perché. Live at the Carnegie Hall è il disco che ha rischiato di essere il primo live ufficiale di Dylan, dieci anni prima di Before the Flood. I brani hanno circolato per trent’anni su bootleg abusivi prima di entrare, un po’ alla spicciolata, nel catalogo ufficiale: una nuova versione di Talkin’ John Birch Paranoid Blues e un inedito, Who Killed Davey Moore?, escono nel primo volume della Bootleg Series nel 1991; una Hard Rain e When the Ship Comes In usciranno nel settimo volume, la colonna sonora del documentario No Direction Home di Scorsese. Allo stesso volume viene allegato un minialbum con sei canzoni, che è quello a cui stiamo facendo riferimento adesso, perché Dylan senz’altro ci interessa ma non siamo fanatici. Se fossimo fanatici, potremmo recuperare tutte le canzoni registrate nel 1963 dall’edizione limitatissima in sette 33giri che la Columbia ha stampato per evitare che dopo 50 anni scadano i diritti (ne esistono soltanto cento copie in vinile).
Restiamo sui brani del miniLP, che ci sarebbe già tanto da dire. Il concerto comincia con quella che dovrebbe essere la prima versione mai incisa di The Times They Are A-Changin’, un brano che attualmente su Spotify risulta ascoltato 48 milioni di volte – il doppio di Blowing in the Wind. Tra le canzoni di Dylan, solo Like a Rolling Stone la sorpassa. Io quando l’ho risentita in tutto il suo nudo splendore, sui titoli di apertura di Watchmen, non la ascoltavo probabilmente da 15 anni. È chiaro che quando chiede ai genitori di dont’t criticize what you can’t understand non mi fa più l’effetto che mi faceva alle scuole medie. È chiaro che se dovessi ridurre tutto Dylan a un verso solo probabilmente sceglierei proprio “don’t criticize what you can’t understand”, che è poi quello che ha ripetuto ai critici per mezzo secolo, invano. (In effetti cosa stiamo facendo in questo esatto momento?) Ma se ora l’ascolto nella sua prima versione live è perché sto cercando di toglierla dal suo involucro di canzone-famosissima-di-BD e cercare di calarla in un contesto storico, sociale – in realtà qualsiasi contesto andrebbe bene, pur di riuscire ad ascoltarla con orecchie nuove. Per me è sempre stata un buffo ossimoro, una canzone vecchia che parlava di rivoluzione, di cose nuovissime che sarebbero arrivate. Lasciamo perdere.
Restiamo all’ottobre ’63; quell’estate Dylan ha visto i manifestanti sul mall di Washington, ha ascoltato il reverendo King; gli hanno chiesto di cantare una canzone ma forse lui non aveva quella giusta da cantare. Pochi giorni dopo il suo amico bluesman e scrittore Tony Glover lo va a trovare nel suo appartamento sulla Quarta Strada. Sul tavolo di lavoro i soliti scartafacci. Glover intravede un paio di versi che già nel ’63 sembrano i meno dylaniani in assoluto: “come senators, congressmen, please heed the call“. Venite senatori e deputati, per favore, ascoltate l’appello. A quel punto Tony racconta di aver detto: “ehi, ma che roba è?” (What is this shit, man?), per sentirsi rispondere; beh, sai, sembra che sia la roba che alla gente piace ascoltare. Seguirà un mezzo secolo di ritrattazioni, in cui Dylan negherà di aver mai cercato coscientemente di cambiare il mondo con le canzoni, o di aver mai ambito a un ruolo da portavoce di un movimento o di una generazione. Forse l’unico modo di riascoltare The Times con orecchie vergini è tentare un po’ di sano revisionismo: c’è stato un momento in cui ci ha davvero provato, in cui si è messo a tavolino e ha tentato di costruire la canzone adatta per la prossima Grande Marcia. La sua We Shall Overcome. E c’è riuscito?
Oso rispondere di no. Anche nel momento di massimo engagement Dylan non si è spostato molto dal ruolo che sentiva più congeniale: quello del tamburino che non annuncia la rivoluzione, ma l’apocalisse. Le parole ci sarebbero, e sono proprio quelle che la gente vorrebbe sentire dal grande cantautore, ma il ritornello? Non si può fare un coro sul ritornello di The Times. Da questo punto di vista Blowing in the Wind ha sempre funzionato meglio, non c’è paragone. Meno politica, ma il ritornello funziona. Lo si era visto al festival di Newport, quando nel finale era salito sul palco con Pete Seeger, Joan Baez, Peter Paul & Mary, e gli afroamericani Freedom Singers, proprio per una versione collettiva di Blowing in the Wind. Una canzone altrettanto suscettibile di essere trasformata in un inno da stadio, Dylan non la vorrà scriverà mai più, o forse soltanto dieci anni dopo, per caso – salvo che non sarà una canzone politica, ma il lamento di un pistolero moribondo. The Times è la canzone che la gente vuole sentire, ma che non può cantare all’unisono con Dylan. Un trucco per difendere la propria individualità nel momento in cui ti ritrovi davanti a un microfono e a centinaia di migliaia di persone.
Gli altri brani del mini-LP contribuiscono a darci la sensazione che Dylan si stia seriamente impegnando a dimostrarsi seriamente impegnato. Le vedremo quando ci occuperemo dell’album di studio che uscirà nel gennaio seguente. Qui ci occupiamo delle due rilevantissime eccezioni: Boots of Spanish Leather è l’unico brano intimista del mazzo, più o meno sulla stessa progressione armonica di Girl of the North Country (Dylan ci metterà un po’ di tempo ad abituarsi all’idea che ogni canzone debba essere diversa dalle precedenti – in realtà non se ne è mai convinto). La situazione intanto si è capovolta: c’è una ragazza che parte per un viaggio in Europa, c’è un amore che la aspetta a casa ma non vuole regali o cartoline, perché ha il sospetto che siano promesse da marinaio. E infatti, quando lei ammetterà che forse non torna a casa, lui finalmente esprimerà un desiderio: allora portami degli stivali di pelle spagnoli. Non si capisce se sia civetteria o il più garbato tentativo di prenderla a calci, almeno a parole. Il fatto che la donna parta e l’uomo resti a casa ad aspettarla, a chiedere capi di vestiario e a lamentarsi delle promesse tradite è una rivoluzione copernicana non solo per Dylan, ma anche per la letteratura mondiale: certo, il cantautore non fa che adeguarsi al mondo che cambia, il merito non è suo ma della nuova mobilità sociale, dell’emancipazione femminile del dopoguerra, della madre di Suzie Rotolo che proprio non lo sopportava ed era disposta a pagare alla figlia vitto alloggio a Siena e biglietti di transatlantico.
E poi c’è Lay Down Your Weary Tune, una delle canzoni più sfuggenti mai scritte da Dylan, che per trent’anni non ha mai voluto incidere – coerentemente, visto che parla di ineffabilità. “Posa la tua esausta melodia, riposati al suono di quelle corde (di quell’orchestra? di quei violini?) che nessuna voce può sperare di intonare” Insomma è una canzone che parla della difficoltà di scrivere canzoni – Dylan l’avrebbe scritta mentre era ospite della Baez in California, immerso finalmente in quella famosa, lussureggiante, incontaminata natura di cui parlavano tutti gli hipster in città. La musica è pescata da chissà quale inno religioso – io ho sempre provato una inspiegabile simpatia da ragazzino per Lay Down, di certo la ascoltavo più spesso di The Times They Are A-Changin’ (c’era un’etichetta italiana che aveva registrazioni buonissime, nel suo catalogo notoriamente c’erano anche i discorsi di Mussolini). Ci ho messo anni per capire: nella versione che circolava sulle cassette pirata di allora, Dylan la suona legnoso come uno scout in chiesa. Era probabilmente una versione di lavoro, da far ascoltare ad altri artisti interessati a incidere un pezzo di Dylan. Nel caso se la presero i Byrds, ma neanche la loro Lay Down funzionava come dovrebbe. In realtà nessuna Lay Down funziona come dovrebbe. Molti suoi grandi pezzi danno questa sensazione: sono partiture incomplete, rimandano a un’idea che non è riuscito a spiegar bene né ai musicisti né a sé stesso. Lay Down è un’esplorazione, un tuffo in un qualcosa di nuovo e non definito: è esattamente il pezzo che Dylan non doveva incidere, se voleva davvero essere il divo della protesta. E forse, almeno negli ultimi mesi del ’63, l’idea non gli dispiaceva.
(Gli altri pezzi: 1962: Bob Dylan, Live at the Gaslight 1962, 1963: The Freewheelin’ Bob Dylan, Brandeis University 1963, Live at Carnegie Hall 1963, 1964: The Times They Are A-Changin’, The Witmark Demos, Another Side of Bob Dylan, Concert at Philharmonic Hall, 1965: Bringing It All Back Home, No Direction Home, Highway 61 Revisited, 1966: The Cutting Edge…)