Che farai, Pier da Morrone?
19 maggio – San Celestino V, al secolo Pietro Angelario, il papa che abdicò.
Che farai, Pier da Morrone? Sei venuto al paragone. Ogni tanto capita, in Italia più spesso che altrove, che un ruolo di grande responsabilità sia affidato a un individuo senza esperienza, una persona universalmente riconosciuta e stimata per i suoi ideali, a volte anche per la coerenza con cui li persegue – ma digiuna di politica. Il che a volte è considerato un valore, e in Italia più che altrove: se non capisci niente di politica è meglio, è una cosa sporca, fidati, magari ci firmi due carte e ci pensiamo noi. Può essere un sovrano, un dittatore, un ministro, anche solo un sindaco. Capitò anche a qualche papa. E ogni volta sembra di risentire la strofetta sardonica di fra Jacopone, poeta-frate-combattente contemporaneo di Dante, meno raffinato ma altrettanto italiano: che farai, Pier da Morrone? Vederimo el lavorato che in cella hai contemplato. Vedremo come si realizza nella pratica quello contemplavi nella tua povera cella. Ma s’è ’l monno de te engannato, séquita maledezzone!
Pier da Morrone, lo sanno tutti, non avrebbe davvero voluto fare il Papa. Era un anziano eremita, senza esperienza di politica, né di liturgia. Non parlava neanche bene il latino, in un secolo e in una situazione in cui gli sarebbe davvero servito. Nel suo volgare molisano (Isernia e Sant’Angelo Limosano se ne disputano la paternità), Pier da Morrone avrebbe potuto rispondere subito “No” ai messaggeri che gli portavano la notizia: dopo 27 mesi di stallo, i dodici cardinali in conclave avrebbero scelto te. Te la senti? Bastava un no. Pietro non lo disse. Secondo Petrarca cercò addirittura di fuggire; secondo i suoi biografi fu un po’ tirato per il saio dai monaci dell’ordine che aveva fondato, e che in suo onore si sarebbero poi chiamati celestini. Fratel Pietro, tu puoi cambiare tutto. Chi altri se non tu. Fratel Pietro, è Dio che lo vuole. Fratel Pietro, tu puoi risolvere i problemi che infangano la Chiesa, con una sola parola, che è il nostro motto: povertà. Povertà. Fratel Pietro, se i cardinali hanno scelto te, un motivo ci sarà.
La tua fama alta è salita,
en molte parte n’è gita:
se te sozzi a la finita,
ai bon’ sirai confusïone.
I cardinali in realtà non sapevano più a che santo votarsi. Era una di quelle elezioni che non finivano mai: situazione molto incresciosa per i fedeli, giacché se da una parte è normale che dodici teste abbiano dodici priorità diverse, non si capisce perché lo Spirito Santo non debba esprimersi chiaramente in tempi brevi. Già in passato, per evitare situazioni del genere, erano state adottate misure estreme: nel 1268 i viterbesi esasperati avevano chiuso a chiave i cardinali nella grande sala del palazzo papale, dando luogo al primo vero “conclave”. E siccome i porporati continuavano a litigare, avevano cominciato a scoperchiare il tetto. Alla fine era stato eletto un buon papa, Gregorio X, che aveva dato disposizioni molto dure onde evitare il ripetersi di un simile scandalo: dopo dieci giorni le porte dovevano essere sbarrate, e la dieta dei principi della Chiesa progressivamente ridotta fino al pane e all’acqua. Questo regolamento era poi caduto in disuso (sarebbe stato proprio Celestino a ripristinarlo), e così prima di eleggere Pietro da Morrone i porporati avevano già passato due anni a litigare, anche solo per decidere dove proseguire la discussione: a Roma, no che c’è la peste, a Rieti, anzi, facciamo a Perugia. Tra i dodici c’erano tre rappresentanti della famiglia Orsini, e due degli eterni avversari, i Colonna. L’equilibrio era quasi perfetto, al punto da suggerire l’idea che tirassero avanti sperando che qualche anziano morisse – un francese effettivamente morì. Nel frattempo i fedeli davano segni di impazienza.
Il segno più evidente lo diede Carlo d’Angiò detto lo Zoppo, re di Sicilia anche se sulla Sicilia propriamente detta non regnava: dal tempo dei Vespri l’isola era passata agli Aragona e Carlo doveva contentarsi della “Sicilia al di qua dello stretto”, quella che oggi chiamiamo Italia meridionale. Da tempo Carlo lavorava a una soluzione diplomatica. Era persino riuscito a dividere il fronte degli aragonesi, alleandosi col fratello maggiore, Giacomo II che regnava a Barcellona, contro il fratellino Federico che era reggente a Palermo e non aveva intenzione di andarsene. Ma per firmare una pace seria aveva bisogno di un pontefice che la suggellasse. Se gli Orsini erano chiaramente dalla sua parte, i Colonna stavano con gli Aragona, forse perché finanziati da Federico o semplicemente per il gusto di mettere i bastoni nelle ruote degli Orsini.
A un certo punto Carlo d’Angiò decise di recarsi a Perugia, col manifesto proposito di metter fretta ai cardinali e allo Spirito Santo. Un gesto di arroganza inaudita. Quando irruppe nel conclave, i cardinali riuscirono a sbatterlo fuori, e pare che nell’occasione il più risoluto si mostrasse il cardinale di Anagni, Benedetto Caetani: sì, il futuro Bonifacio VIII. La discussione proseguì finché il decano, Latino Malabranca Orsini, non ebbe la pensata di mostrare una lettera che gli avevano recapitato. Il contenuto, una cosa del tipo ‘se non vi sbrigate ci sarà l’apocalisse, sciagure e cavallette, ecc.’ era forse la parte meno interessante. Di lettere così dovevano arrivarne di frequente, a tutti i presuli. Più stuzzicante era l’identità del mittente: Pier da Morrone. Non il solito eremita pazzo. Cioè. Eremita senza dubbio, e mediamente pazzo come tutti, ma universalmente conosciuto e stimato. Molto prima di varcare il Sacro Soglio, fratel Pietro era già una celebrità, un santo in terra, sin dai tempi in cui si era recato a piedi a Lione, per il concilio in cui Gregorio X sperava di sanare lo scisma d’oriente, nel 1273. Pietro poco o nulla sapeva di scismi, ma era preoccupato per la sorte del suo ordine, che come tutti quelli di più recente fondazione rischiava di essere sciolto. Tecnicamente si trattava di un ramo dei monaci benedettini, ma la povertà radicale che predicavano e praticavano li inseriva nel più vasto movimento pauperistico del Duecento.
Como segno a saietta,
tutto lo monno a te affitta:
se non ten’ belancia ritta,
a Deo ne va appellazione.
La Chiesa ufficiale non si era mai trovata a suo agio coi pauperisti. Predicare la povertà radicale poteva portare a forme di ribellione contro la proprietà privata e l’ordine costituito – era da secoli che succedeva. Con alcuni pauperisti ci si poteva ragionare: ad esempio Francesco d’Assisi aveva ottenuto il via libera da Innocenzo III, e il suo estremismo iniziale era diventato minoritario nel suo stesso ordine (Francesco probabilmente non era contento della piega che avevano preso gli eventi, ma era morto presto). La differenza tra essere bruciati come eretici e venerati come santi era minima e poteva dipendere da un niente, magari dal sogno di un pontefice che ha fatto indigestione. Gregorio X non solo aveva accolto il povero fratel Pietro con tutti gli onori, ma gli aveva chiesto di celebrare una messa per tutti i padri conciliari. Nessuno ne era più degno di lui, aveva affermato. Gregorio era in contatto diretto con tutti i più grandi personaggi della Chiesa del suo tempo: Tommaso d’Aquino, Bonaventura da Bagnoregio, Alberto Magno, Luigi IX re di Francia: l’Europa brulicava di futuri santi e Gregorio li conosceva tutti. Per cui no, Pietro da Morrone non era il solito eremita convinto che tutti i problemi si possano risolvere digiunando. Perlomeno, era un eremita stimato da papa Gregorio.
Tutto questo comunque era successo vent’anni prima. Da lì in poi, nulla di particolarmente eclatante era successo nella vita di Pietro: era tornato negli Abruzzi, dove si divideva tra il suo eremo preferito sulla Majella (Santo Spirito) e quello un po’ meno estremo, più accessibile a visitatori e fans: Sant’Onofrio al Morrone nei pressi di Sulmona. A parte digiunare e inviare ai potenti della terra qualche profezia di sventura, Pietro non è che facesse un granché, né nessuno si aspettava molto altro. Era idea corrente che l’uomo più santo e meno corruttibile della terra vivesse una vita di privazioni da qualche parte negli Appennini, pregando per i peccati di tutti. Finché al cardinale decano non viene l’idea: e se incoronassimo lui? Ha più di ottant’anni, che male vuoi che faccia. Monsignor Latino Malabranca aveva più fretta degli altri, forse sapeva che non avrebbe passato l’estate (morì in agosto).
A quel punto a Perugia erano rimasti in sei cardinali: gli altri accorsero quando ormai l’idea si era conquistata un nocciolo duro di sostenitori. Non avendo i verbali possiamo ricamare a piacere: immaginare i cardinali che sbattono il pugno sul tavolo e dicono basta, qui mentre chiacchieriamo i cristiani perdono ogni fiducia nelle istituzioni, è ora di dare un segnale forte. Pensiamo fuori dalla scatola, allarghiamo il quadro, e qualche altra di queste menate da consiglio d’amministrazione che in ogni secolo si scrivono in una lingua diversa senza perdere la loro fumosa consistenza. Bisogna mostrare che recepiamo le istanze della base, insomma, quelli non fanno altro che gridare povertà povertà, credono che sia la chiave di tutti i problemi, e noi diamogliela. Pietro è perfetto, non ha mai scritto o detto nulla di lontanamente eretico, e soprattutto… è anziano. Già, quanti anni ha? Non si sa, ma va per i novanta.
Si se’ auro, ferro o rame,
provàrite en esto esame;
quign’ hai filo, lana o stame,
mustàrite en esta azzone.
Che si trattasse di una soluzione transitoria, in attesa di mettersi d’accordo su un nome più importante, era forse chiaro allo stesso monaco, che dopo qualche esitazione scelse di ereditare il nome dal titolare di uno dei pontificati più brevi della storia: Celestino IV, nel 1241, aveva regnato per appena 17 giorni. Pietro non si aspettava di durare parecchio di più. Il fatto è che mentre certi pauperisti muoiono molto presto, stroncati dalle privazioni che si autoinfliggono (Francesco d’Assisi, Caterina da Siena), altri viceversa sono molto longevi (Francesco da Paola). Probabilmente azzeccano la dieta giusta, riducono le frustrazioni e passano la novantina in tutta tranquillità. Un papa povero, digiuno di tutto e quindi anche di politica, poteva essere facilmente manovrabile: ma da chi?
Non ci volle molto tempo per scoprirlo. Re Carlo lo Zoppo da Napoli andò a prenderlo direttamente alla Majella, e non lo avrebbe più mollato. Pietro non riuscì nemmeno a raggiungere i cardinali a Perugia: fu probabilmente Carlo a sconsigliarlo di uscire dai confini del suo regno. Papa Celestino V non risedette mai a Roma, né la cosa dovette dispiacergli troppo: c’era stato da giovane, per studiare, e se n’era andato appena aveva potuto. Fu incoronato nella cattedrale più vicina al suo eremo, all’Aquila: quella basilica di Santa Maria di Collemaggio che secondo la leggenda era stata costruita su sua richiesta (quand’era un semplice eremita aveva trovato riparo in una chiesa diroccata, e la Vergine in sogno gli aveva chiesto una Basilica più grande in loco). Celestino entrò all’Aquila come Gesù a Gerusalemme, a dorso di un asino a cui re Carlo teneva le briglie. La metafora si prestava a diversi piani di lettura.
Dopo due cerimonie di investitura (la prima fu ritenuta invalida perché mancavano troppi cardinali), in ottobre Pietro si trasferì direttamente a Napoli, in una stanzetta del maschio angioino, dove almeno una volta avrebbe sentito una voce angelica dire: Pietro, rinuncia! Naturalmente c’è chi sostiene che la voce non provenisse da un angelo, ma da monsignor Caetani che stava nella stanza attigua. Come se dopo una vita di preghiere e meditazione un professionista come Celestino potesse confondere la voce di Dio con quella di un monsignore. Di tante, troppe cose era inesperto, ma di quella no. Più probabilmente si era reso conto di essere un pupazzo.
Questa corte è una fucina
che ’l bon auro se ce affina:
s’ello tene altra ramina,
torna ’n cennere e ’n carbone.
Considerato quanto poco regnò (neanche sei mesi), tutto sommato l’eredità del suo pontificato è impressionante. Le sue decisioni furono dettate in parte dall’inesperienza, in parte dal suo estremismo pauperista, in parte direttamente da Carlo lo Zoppo. L’inesperienza gli permise di combinare qualche disastro burocratico – elargì lo stesso beneficio a più persone, ecc. – ma nulla di veramente catastrofico. L’estremismo lo portò a litigare coi suoi ex confratelli: i benedettini di Montecassino. Da monaco, Celestino aveva dovuto abbracciare l’accomodante regola di San Benedetto, onde evitare problemi con gli inquisitori. Ma adesso che il capo era lui, per un attimo aveva creduto di poter cambiare la musica: ora sarebbero stati i benedettini a portare il saio grigio dei celestini di Sulmona, la cui regola presto o tardi Celestino sperava di estendere a tutti gli ordini della Chiesa, frati e monaci. Tutti in saio grigio, tutti a digiuno, c’è un Mao in ogni eremita e c’è un eremita in ogni maoista. Non se ne fece niente, però durante il suo pontificato emersero temporaneamente dalla semiclandestinità i Francescani Spirituali, o fraticelli: gli eredi della corrente più estrema del pauperismo francescano. Celestino lì benedì, permettendo il ritorno dall’esilio del loro leader, Angelo Clareno, che si era rintanato in Armenia. Per un po’ si fecero chiamare “Poveri eremiti”, o celestini.
Se l’ofizio te deletta,
nulla malsania è più enfetta,
e ben è vita maledetta
perder Dio per tal boccone.
Mentre il papa povero si prendeva queste modeste soddisfazioni nella Chiesa di base, gli Angiò conquistavano i vertici. Un figlio di Carlo fu nominato dal buon Celestino vescovo di Lione: aveva 21 anni. In settembre il papa raddoppiò il collegio cardinalizio nominando 13 porporati in una botta sola, di cui sette francesi. Si potrebbe persino far cominciare da qui quell’egemonia francese che qualche anno dopo avrebbe portato papa Bonifacio a prendersi uno schiaffone ad Anagni, e poi settant’anni di cattività avignonese e altri quaranta di scisma d’Occidente. La guerra tra la Sicilia vera e la Sicilia al di qua dello stretto, invece, sarebbe proseguita per altri settanta, malgrado Celestino avesse prontamente ratificato quel trattato voluto da Carlo che prevedeva (come in seguito la pace di Caltabellotta) la separazione dei regni, e l’impegno da parte degli Aragona a restituire la vera Sicilia agli Angiò alla morte di re Giacomo – cosa che puntualmente non successe.
Qualche idea comunque l’azzeccò. Come i sovrani, che festeggiavano la propria incoronazione aprendo le carceri, Celestino appena si trovò in mano le chiavi di San Pietro cerco di svuotare più inferno possibile. La Bolla del Perdono stabiliva che chiunque si fosse recato presso la sua prediletta basilica di Collemaggio nella festa di San Giovanni Decollato – 29 agosto – avrebbe ottenuto l’indulgenza plenaria, ovvero la sanatoria su tutti i peccati commessi dal battesimo in poi. Qualcosa del genere lo aveva già istituito Francesco d’Assisi alla Porziuncola – sempre che in realtà non siano stati i francescani a copiare Celestino, visto che i documenti più antichi sul perdono francescano risalgono al 1310. La Perdonanza all’Aquila si festeggia invece dal 1294. Qualche alto prelato storse il naso, ma intanto all’Aquila cominciarono ad accorrere pellegrini.
Granne ho avuto en te cordoglio
como t’escìo de bocca: «Voglio»,
ché t’ hai posto iogo en coglio
che t’ è tua dannazïone.
Proprio mentre Celestino riusciva, con un colpo di mano, a salvare milioni di anime, aveva la sensazione di perdere la propria. A Napoli gli facevano firmare qualsiasi cosa (compreso qualche sostanzioso sgravio sulla decima ecclesiastica di re Carlo), in quel latino maledetto che Pietro non aveva mai imparato a legger bene. Stava arrivando il Natale e per Pietro era assurdo passarlo in una stanza di mattoni, ancorché sobria e non riscaldata. Diede ordine che gli costruissero una capanna di legno, ma non era proprio la stessa cosa. Anche digiunare non doveva riuscirgli facile come sulla Majella, con tutti i profumi e le puzze delle cucine del Maschio, e del porto. Se solo avesse potuto tornare indietro. Rinunciare. Era possibile? Lo chiese a monsignor Caetani, uno dei pochi di cui si fidava. Come chiedere al topo un parere sul formaggio. Anche Wojtyla, sette secoli dopo, ne avrebbe discusso a lungo con Ratzinger, ricevendo il medesimo parere: altroché se si può. È vero che non è una pratica molto diffusa, ma i precedenti ci sono. C’è un papa che si dimise perché deportato dai romani. Un altro, ehm, che voleva sposarsi e così vendette il titolo al padrino, che a sua volta rinunciò… insomma la casistica non manca. Comunque se mi dai in mano la pratica ci penso io (diceva il Caetani mentre cercava di controllare la salivazione) magari facciamo prima una bolla per affermare il diritto del pontefice ad abdicare, tu lo firmi e poi abdichi, non vedo difficoltà…
“Potrò tornare alla Majella?”
“Dove?”
“Il mio eremo, sulla Majella”.
“Ah già, l’eremo. Certo certo, perché no, non vedo impedimenti”.
Il tredici dicembre (Santa Lucia), di fronte ai cardinali, depose corona e scettro e si rimise il vecchio saio. Il ventiquattro dicembre, dopo un brevissimo conclave (grazie al vecchio regolamento ripristinato da Celestino) Caetani fu eletto papa: era il colpo di coda dei cardinali non allineati con la corta angioina. Per prima cosa cancellò tutti i decreti e le nomine del predecessore, tranne l’elezione dei cardinali e l’istituzione della Perdonanza. Poi decise di tornare a Roma, affidando l’ex papa alle sollecite cure del suo vecchio nemico, l’abate di Montecassino. Lasciarlo tornare ai suoi eremi era fuori discussione – Caetani era troppo esperto di diritto canonico e di storia della Chiesa per non sapere come vanno a finire di solito queste situazioni. Finché in giro c’è un papa di troppo, c’è sempre qualcuno disposto a sostenerlo. Carlo lo Zoppo si era visto sfilare il controllo del papato da sotto il naso: il rischio che si andasse a prendere il vecchio monaco lassù negli Abruzzi, per incoronarlo di nuovo, era troppo forte.
Pietro, non più Celestino, avrebbe dovuto passare gli ultimi anni della sua vita guardato a vista dai benedettini. Invece scappò – avvisato e aiutato dai cardinali francesi che aveva nominato. Per qualche tempo si nascose sul monte Morrone, ma non poteva essere tranquillo. Fu arrestato dagli uomini di re Carlo a Vieste, mentre cercava di imbarcarsi per la Grecia (o forse si era già imbarcato, ma un naufragio lo aveva riportato a riva). Carlo non volle contrariare il nuovo papa, che lo stava aiutando a far la pace con gli aragonesi. Consegnò Pietro agli uomini di Bonifacio, che lo incarcerarono nella rocca di Fumone, un feudo della famiglia Caetani nel frusinate. Al vecchio collaboratore che gli aveva fatto le scarpe, Pietro avrebbe profetizzato: Intrabis ut vulpes, regnabis ut leo, morieris ut canis (sei entrato da volpe, regnerai da leone, morirai come un cane). Quanto sarebbe cinematograficamente bello se a un vecchio eremita semianalfabeta, in cerca di pace, fosse davvero uscita una sentenza così. L’ex papa morì di lì a poco, nel maggio del 1296. Nei suoi ultimi dieci mesi aveva vissuto più avventure che in quasi novant’anni di penitenze e digiuni. Nel tentativo di allontanare le inevitabili dietrologie, Bonifacio fece il gesto inusuale di portare il lutto per lui. Nel cranio di Celestino, custodito a Collemaggio, c’è un foro che per molto tempo è stato considerato indizio di morte violenta, ma secondo l’ultima perizia (2013) è stato praticato anni dopo la morte.
Quattro anni dopo Bonifacio avrebbe avuto la bella idea di festeggiare il milletrecentesimo compleanno di Gesù concedendo l’indulgenza plenaria ai pellegrini che fossero venuti a Roma: un’intuizione geniale che avrebbe avuto un sacco di imitatori nei secoli successivi. Poi Bonifacio sarebbe venuto ai ferri corti coi francesi, che lo avrebbero tenuto sotto sequestro nella sua Anagni, forse prendendolo a schiaffi. Così transita la gloria del mondo. Pochi anni dopo, nel 1313, un papa ormai trasferitosi in Francia avrebbe beatificato papa Celestino. Negli stessi anni Dante Alighieri lasciava su pergamena il suo sprezzante giudizio su un personaggio anonimo, “colui che fece per viltade il gran rifiuto” intravisto nella vastissima anticamera dell’inferno,percorsa caoticamente dagli ignavi, così poco interessanti da essere rifiutati anche da Satana.
Eppure Celestino in quei sei mesi non se ne era stato con le mani in mano. Soffriva, come molti, della sindrome dell’impostore: per tutto il tempo in cui aveva cercato di fare il Papa, si era sentito prigioniero in una parte che non era stata scritta per lui. Se davvero c’è un antinferno che aspetta tutti i mediocri dell’universo, è lì che lo incontreremo, ovviamente senza riconoscerlo. Dante no, lui sarà da tutta un’altra parte: si considerava uno dei massimi poeti di sempre, e non sbagliava di molto. Forse l’unico a potersi permettere di costruire un inferno di parole e rinchiuderci chiunque gli avesse fatto un torto. Celestino, da bravo mediocre, appena si trovò in mano le porte del paradiso, cercò di spalancarle: entrate, su, svelti, prima che me le tolgano di mano.