Una risposta a Veltroni
Ogni volta che leggo Walter Veltroni non posso fare a meno di essere d’accordo con lui. Mi piace moltissimo il suo modo di raccontare. Mi convince appieno la sua indubbia capacità di mettere le cose da fare dentro una cornice coerente, cosicché invece di dare l’impressione di zompettare casualmente qua e là tra mille questioni sembra in effetti uno che sta lavorando a un progetto dotato di una sua propria visione. Mi conquista ogni volta il suo modo di parlare così “inspirational”, così capace di motivare le persone e di metterle insieme sulla base di valori condivisi. E così anche ieri leggendo la sua lettera agli italiani (e quindi anche a me), alla fine della lettura mi sono detto ancora una volta: “E bravo Walter!”
E’ stato un attimo. Poi ho pensato che la vicenda delle dimissioni, come Veltroni ce la racconta, non è per niente condivisibile e non può essere liquidata come una cosa marginale. Innanzi tutto per una questione di metodo, ma sostanziale: quando si perde una battaglia politica in quel modo drammatico e si giunge ad un gesto estremo come quello di lasciare acefalo un intero partito, non bastano alcuni mesi di “purgatorio” per emendarsi e riproporre in prima persona delle ricette per il paese. E’ doveroso anche ai fini della salubrità dell’aria nelle istituzioni e nella politica di un paese. Se Gordon Brown si sognasse tra 18 mesi di scrivere una lettera al popolo britannico raccontandogli “cosa farebbe lui se fosse il leader dei laburisti” dubito che troverebbe un giornale disponibile a pubblicargli la lettera, dato che gli sarebbe risposto con gentilezza che l’unica cosa rilevante è ciò che lui concretamente ha fatto quando, essendo in carica, ne ha avuto la possibilità concreta.
E poi c’è la questione di merito. Le dimissioni di Veltroni sono state il frutto della paralisi a cui lo stesso Veltroni si è condannato cercando di tenere insieme tutta la dispersiva e litigiosissima nomenklatura del partito. Un’impresa impossibile, a meno di far riferimento ai 3 milioni di elettori che gli avevano dato la fiducia alle primarie e tirar dritto per la sua strada (cosa che, per ciò che posso giudicare sulla base di quanto ho visto con i miei occhi quando lavoravo nella commissione che scrisse il famigerato statuto del partito, scelse consapevolmente di non fare). Come spiega bene Andrea Romano nel suo libro “Compagni di scuola”, non si può negare che la classe dirigente del Partito di oggi – che è molto più coesa e compatta di quanto non si dia a vedere – abbia (quanto meno sul piano storico) delle responsabilità collettive su quanto accaduto negli ultimi 15 anni in Italia.
Il punto è allora: con quale credibilità possiamo oggi andare a chiedere il consenso elettorale se non siamo in grado di mettere insieme un programma radicalmente innovativo rispetto sia alla devastazione del centro-destra che agli errori che noi stessi abbiamo commessi durante l’epopea berlusconiana? E con quale credibilità possiamo rappresentare una vera discontinuità se le persone che propongono e gestiscono le nostre politiche sono sempre quelle che, messe alla prova, per un motivo o per un altro, quando furono chiamate direttamente a provarci, hanno fallito?
Non penso sia necessaria una tabula rasa o una pulizia etnica: le ispirazioni di Veltroni e l’esperienza di tanti altri dirigenti non vanno di certo buttate via. Eppure è veramente indispensabile mettere insieme una narrazione dell’Italia completamente innovativa, rivoluzionaria e non meramente evolutiva, un progetto di paese che suoni autenticamente in linea con i tempi, senza nostalgie e senza specchietti retrovisori. Che cammini su gambe credibili e veramente in grado di sostenerlo, però. E’ difficile? E’ possibile.