C’è un tale a Modena
C’è un tale a Modena che tra gli adolescenti è più famoso di Vasco Rossi, anche se in pochi ricordano il suo nome e quasi nessuno lo ha visto in faccia. Il fatto è che la metà di quelli che sono stati a scuola negli ultimi vent’anni ha avuto a che fare con lui.
Nel 1997 Massimo Bergamini, un ex professore di matematica e preside delle magistrali, pubblicava con Zanichelli il suo primo manuale di matematica. Oggi sui suoi manuali studia circa la metà degli studenti delle superiori italiane, che secondo il Ministero quest’anno sono 2.628.648, significa oltre un milione di ragazzi ogni anno. Anche contando le bocciature, le persone che hanno imparato la matematica sui Bergamini sono incalcolabili. I manuali nel frattempo si sono trasformati, moltiplicati, arricchiti di esercizi, immagini, box, nuove definizioni e di un’altra firma, quella di Graziella Barozzi, moglie di Bergamini e a sua volta ex professoressa di matematica. È un bestseller inimmaginabile per l’Italia, anche perché le copie dovrebbero essere moltiplicate per i vari manuali – geometria, algebra, statistica – pur tenendo conto dell’usato. È una quantità incomparabile con qualsiasi altro libro italiano di fiction, non fiction o varia. Gomorra, per dire, ha venduto 2 milioni e mezzo di copie.
«Io il Post lo conosco. Ci vado tutti i giorni perché c’è una striscia di Linus», esordisce Bergamini con un accento che più emiliano non si può, quando gli spiego che voglio raccontare di lui. «Sono nato nel 1950, mia moglie è più giovane di una decina di giorni. Ci conosciamo dai tempi del liceo e siamo rimasti sempre insieme. Abitiamo appena fuori Modena in un paesino che si chiama Cognento. Lavoriamo in casa 365 giorni all’anno perché i libri hanno sempre bisogno di migliorie. Ma ci sono quaranta collaboratori che lavorano a ogni edizione, sa? Adesso, per esempio, ce n’è uno di là che mi aspetta. Possiamo sentirci dopo?». Dopo è poco dopo. Mezz’ora. Bergamini sembra sorpreso e contento: non è abituato al fatto che qualcuno si interessi di lui. Però parla come se la sua fosse la storia più ordinaria del mondo: «Io sono un insegnante, prima di tutto. Ho fatto il professore in un istituto magistrale, poi il preside in un liceo classico, sempre qui, a Modena. Nel frattempo facevo corsi di informatica per gli insegnanti con il linguaggio Logo, non so se lei ne ha mai sentito parlare. Erano rivolti in particolare alle scuole medie ed elementari. Negli anni Ottanta si pensava che con l’informatica si potesse fare qualcosa di simile al latino, cioè aprire la mente. L’informatica sembrava una materia capace di aiutare i ragazzi a risolvere problemi. Così, nel 1991, ho proposto alla Zanichelli un libro per le scuole medie basato sul Logo, di appoggio alla matematica. Andò abbastanza bene e qualche anno dopo Giuseppe Ferrari, che era il mio editor, chiese a me e Anna Trifone se avevamo voglia di provare a fare un libro di matematica».
(La nuova pagina del Post sui Libri)
Il manuale uscì nel 1997 ed ebbe ancora più successo. Giuseppe Ferrari, nel frattempo, è diventato il direttore editoriale della Zanichelli. Fu un lavoro molto lungo e faticoso, ma alla fine il manuale era pronto. Uno si immaginerebbe Bergamini a godersi il successo e i diritti d’autore, perché la matematica risente poco delle trasformazioni della lingua, non va aggiornata, è la materia su cui il tempo passa di meno. «Lei ha l’idea che avevo anche io all’inizio: una volta fatto il libro sono a posto. Invece la casa editrice mi chiese subito di farne un altro. La verità è che solo cambiando continuamente si migliora. Per fare una cosa sempre più bella l’unica è ascoltare la rete commerciale, che è la sola strada che ti fa conoscere le esigenze del mondo della scuola». Però la scuola non sembra dilaniata da un’esigenza continua di cambiamento. Anzi. Bergamini borbotta. Lo si sente scuotere la testa al telefono. «Io e mia moglie ci lavoriamo tutti i giorni al manuale. Lei è intervenuta da molti anni. È una grandissima produttrice di esercizi. Ma non basta trovare esercizi belli, bisogna tenere aggiornati i libri. Cerchiamo di fare un’analisi degli elementi: la prima questione è trovare un linguaggio, e impararlo. Poi si incominciano a capire e usare le altre forme di linguaggio – le immagini. le didascalie, gli esercizi – ma mentre impari, il linguaggio cambia di nuovo. Italo Calvino, che io considero il mio maestro, dice nelle Lezioni americane: “Tutta la mia opera in fondo è cercare ad avere sempre maggiore leggerezza”. La leggerezza nella scuola italiana va migliorata. La leggerezza come la intende Calvino. Si tratta di dire le cose che devi dire in modo che si capiscano».
Che cos’altro andrebbe migliorato nella scuola italiana, oltre alla leggerezza? «La scuola italiana è il luogo dove si parla ogni giorno di vero, di bene e di bello», risponde con il suo alluvionale accento emiliano. «Nella scuola si forma la cultura che è il luogo dove si mettono insieme le tre cose più importanti per la vita di un uomo: il vero, il bene e il bello». Gli faccio notare che continua a pronunciare la parola bellezza. Si ferma: «La parola bellezza, mi piace che lei l’abbia colta. Sì, la pronuncio tante volte. La bellezza per me è uno dei cardini di qualsiasi attività intellettuale. La matematica viene spesso indicata come una materia arida, invece non lo è se si coglie il suo nucleo di bellezza, che io lego alla leggerezza. Per esempio, sicuramente c’è un collegamento tra matematica e arte, prenda lo Sposalizio della Vergine di Raffaello che c’è a Brera: è pieno di geometria. Non sembra, ma anche noi autori di libri di testo ci ispiriamo alla bellezza. Per esempio, io con Graziella buttiamo via tanti esercizi, allora ci mettiamo lì e lei mi chiede: “Perché questo esercizio l’hai buttato via?”. E io rispondo: “Non lo vedi che è brutto? Non è mica bello”. Insegnando matematica, insegno la bellezza, che poi non è altro che il piacere intellettuale. Il bello è facile. Il difficile è cercare di farlo per un ragazzo. L’unica cosa che puoi fare è cercare di fare libri belli».
Mi rigiro tra le mani uno dei Bergamini di mio figlio, che ha appena iniziato la prima liceo: La probabilità e la statistica. In copertina riconosco una meringa che sembra una conchiglia e dei bastoncini marroni di cui non saprei dire di più. Sono forme regolari della natura, ma rintracciare la bellezza del libro non è immediato. La carta è liscia, il formato grande, i caratteri bastoni, non hanno grazie, ma sono chiari e molto leggibili. Intravedo un certo rapporto tra pieni e vuoti e una certa distribuzione degli spazi. Apro e inizio a leggere dalla prima riga: «Le scritture usate oggi nel mondo sono 33. Con ognuna di tali scritture (alfabeti) si scrivono più lingue…». E mi domando quante limature ci siano volute per arrivare a un inizio così piano, esatto e semplice, che il professore evidentemente ha considerato bello. La sua è un’impostazione quasi platonica: il bello sta lì, intangibile, al riparo delle mancanze del mondo, slegato dall’imperfetta realtà. Bergamini mi spiega che è tutto il contrario: «In questo momento nella didattica c’è la grossa ipotesi di fare i conti con la matematica intorno a noi. Con la geometria che ci circonda ma che rimane nascosta. È una linea culturale nuova: in fondo, la cultura è anche vedere quello che ci sta intorno, ma che non vediamo. Al ragazzo che si chiede a che cosa serve la matematica, gli dico: “a risolvere i problemi”. È una palestra incredibile per uscire e avere delle strategie per risolvere i problemi: per confrontare le tariffe telefoniche oppure per calcolare la crescita di una popolazione. Per mille cose. Una volta con dei colleghi siamo andati al bar a prendere il caffè. C’era quello che lo voleva doppio ristretto in tazza grande, quell’altro normale, o decaffeinato, macchiato freddo, macchiato caldo, non ce n’erano due che lo prendevano uguale. Ognuno desiderava un caffè diverso, e il povero cameriere si doveva dannare. Invece un matematico, nascosta dentro un caffè ci vede una legge di raffreddamento cioè una equazione differenziale. La matematica è uno strumento di analisi». Ma i caffè il barman deve farli lo stesso.
Quindi la realtà vera è la sua forma? Quindi per insegnare la verità, bisogna insegnare la forma che sta dietro a ciò che appare, occorre sapere le formule matematiche che governano i fenomeni? Attraverso il telefono percepisco il cervello del professore: «Nelle Citta invisibili, Italo Calvino parla di Eudossia e si chiede se sia più vera la città o il tappeto, la realtà o il modello. Si domanda se siano più reali i disegni geometrici sul tappeto o gli odori delle strade? È più realtà quella lì, la puzza di pesce al mercato, o la mappa che ti permette di trovare un filo e ti fa andare da un punto all’altro della città? Ecco, io credo che è il modello a farti vedere meglio le cose, “decantando gli elementi accidentali”, direbbe Galileo». Pensa di essere riuscito a insegnarlo agli studenti che hanno usato il suo libro? « Io non sto insegnando ai ragazzi. Non sono l’insegnante. Altrimenti, insegnerei. La casa editrice mi ha fatto capire che dovevo cambiare prospettiva. Il nostro è uno strumento. Un elettricista ha bisogno di un cacciavite. Noi siamo il cacciavite. Siamo solo la racchetta da tennis».