La vita senza Internet è brutta
Da quando Internet ha iniziato a cambiare radicalmente tutto, ha conosciuto qualche successo un filone giornalistico-letterario che – a volte partendo da premesse distopiche del tipo “dove andremo a finire” – racconta l’astensione volontaria da Internet, la vita disconnessi: cose tipo “ho staccato tutto per una settimana, un mese, quattro mesi, un anno e vi dico com’è andata”. Non sono un fan del genere. Non perché trovi inopportuno discutere di come Internet stia cambiando radicalmente tutto, ma perché l’esercizio ha ormai perso qualsiasi originalità – sembra più un espediente per giornalisti freelance pigri – e perché mi sembra che abbiamo già trovato delle conclusioni di buon senso alla questione: si sopravvive anche senza Internet (si sopravvive senza quasi qualsiasi cosa) ma le cose a cui si rinuncia sono più di quelle che si guadagnano.
Se non fosse che mi sono trovato in questa situazione negli ultimi nove giorni, e allora le pensose riflessioni di cui sopra mi sono sembrate ancora più vacue. Sono stato all’Avana, Cuba, un posto dove collegarsi a Internet è piuttosto complicato. Nelle case delle persone, salvo rarissime eccezioni, Internet non esiste. Non esistono reti wi-fi in giro. Ci si può collegare dai pochissimi e affollatissimi telepunto di Etecsa, la compagnia nazionale, o dagli hotel di lusso: in entrambi i casi pagando parecchio (anche l’equivalente di 5 euro l’ora, in un paese dove il reddito medio sta intorno ai 20 euro al mese), utilizzando computer di almeno 15 anni fa e con connessioni lentissime. Dovreste vedere come e in quanto tempo i browser caricano certe pagine: persino Gmail è quasi inutilizzabile. Usare il mio operatore italiano era escluso: non solo perché la rete cellulare locale è comunque pessima ma anche perché mi sarebbe costato la cifra lunare di 29,48 euro per ogni megabyte scaricato: circa 40 euro per caricare una volta la homepage del Post, per capirsi. Quindi ho passato nove giorni senza Internet. La sensazione di vivere in una bolla è stata accentuata dal fatto che – naturalmente – la stampa straniera non si trova da nessuna parte, nemmeno nei grandi alberghi, nemmeno in aeroporto (nemmeno in aeroporto nella zona dei duty free), e la tv internazionale si vede solo nei grandi alberghi.
L’assenza di Internet ha reso indubbiamente il mio viaggio più povero. Moltissime volte mi sono imbattuto in posti e cose di cui avrei voluto conoscere la storia, meglio di come l’avrei trovata su una guida o di come me l’avrebbe raccontata un passante: cosa vuol dire quella frase? quando è stato costruito quel monumento? chi è l’architetto di quel palazzo? in che anno esattamente è morto Che Guevara? Sono sull’autobus e vedo un manifesto di propaganda sull’anniversario dell’attentato di Barbados, di cui so pochissimo. Passo davanti allo stadio olimpico costruito per i giochi panamericani del 1991, vorrei sapere come viene usato adesso. Vedo ovunque manifesti sui Cinque. Se avessi Internet in tre minuti ne conoscerei le cose essenziali, senza Internet resto nella mia ignoranza. Al museo della rivoluzione trovo racconti della famosa arringa di quattro ore con cui Castro si difese in tribunale dopo l’attacco alla caserma Moncada – “la storia mi assolverà” — e vorrei finalmente leggerla tutta: se avessi Internet troverei il testo integrale in pochi secondi, senza Internet ho dovuto comprare il libro, altrimenti sarei rimasto nella mia ignoranza. Cose del genere sono capitate più volte ogni giorno.
Poi ci sono altre cose più piccole che non ho potuto fare, a meno di grandi scomodità: sapere cosa si dice online di un ristorante prima di entrarci, conoscere gli orari dei pullman per andare fuori città, conoscere il calendario degli spettacoli alla Casa de la Musica, sapere quanti chilometri separano l’Avana da Trinidad per organizzare tempi di viaggio, eccetera. Il tutto tacendo della dimensione sociale: ho vissuto in tre città diverse, ho amici e parenti sparsi dappertutto, Internet è il modo in cui ci teniamo in contatto. Mi è mancato non condividere con le persone che mi sono care quello che mi succedeva e soprattutto mi è mancato leggere e vedere le cose condivise da loro: mi è mancato sentirli, banalmente, e in questo senso Facebook mi è mancato molto più di Twitter. Infine, forse anche per il mestiere che faccio, mi è mancato il resto del mondo: va bene staccare dal lavoro, ma a me interessava sapere come è andata a finire con lo shutdown negli Stati Uniti o cosa ha fatto la Roma o se è caduto il governo in Italia. Sì, mi sono arrangiato grazie agli SMS di alcuni amici e sì, sono sopravvissuto, si sopravvive a quasi tutto, ma è il come che fa la differenza.
Ho pensato, perdonatemi la banalità, a quello che si perdono i miei coetanei del posto – di più: a quello che potrebbero essere e non sono, i miei coetanei del posto – che non hanno la fortuna di dover soltanto aspettare nove giorni, come ho dovuto fare io, per tornare ad avere in tasca l’accesso a una montagna di cultura e di conoscenza. E ho pensato che i corrucciati esercizi intellettuali sulla vita senza Internet, i bar che credendo di fare una cosa molto furba e colta si vantano di non offrire il wifi, gli articoloni sul fatto che Google ci renda stupidi, assomigliano all’elogio del mangiare poco fatto da chi è abituato a mangiare molto, che una volta trovai descritto così in un bel libro. Privazioni ludiche.
…solo la fantasia, o l’interesse, dei pochi privilegiati ha potuto partorire immagini di povertà felice, di una frugalità (quella dei più) lietamente contenta di sé. E sarà anche vero che mangiar poco fa bene; ma solo a chi mangia molto (o almeno, può mangiare molto) è consentito pensarlo. Solo una lunga esperienza di pancia piena può giustificare il brivido di un appetito tenuto a freno. Gli affamati, quelli veri, hanno sempre desiderato riempirsi a crepapelle.