Il sogno della vedova
Report ha raccontato il caso dell’eredità Borletti, altro riflesso accecante di chi è davvero Antonio Di Pietro. Ho raccontato questa faccenda in un mio libro del 2009. Mi permetto di riproporla.
Il 22 maggio 1995 la contessa Maria Virginia Borletti, detta Malvina, decise di donare il 20 per cento della sua cospicua eredità a Romano Prodi e ad Antonio Di Pietro. Il padre, Mario Borletti, era stato un mitico produttore di macchine per cucire e aveva accumulato capitali da favola. Perché proprio a loro? Perché erano gli unici – pensava l’anziana contessa dal suo osservatorio di Londra, dove viveva con figli e fratelli – che potevano risollevare le sorti del Paese:
«Riflettono la miglior parte degli italiani. Di Pietro, fra i magistrati di cui ho stima, è l’unico che ha lasciato la toga e quindi è diventato accessibile. Mi sembra un uomo molto libero da ogni vincolo politico e capace d’influenzare positivamente le masse»
Non s’era mai visto niente di simile: rimarrà la più ingente donazione politica mai fatta in Italia. Donazione politica, si è detto: la contessa vedeva in Prodi un elemento che poteva «neutralizzare la schizofrenica veemenza di Forza Italia» e in Di Pietro la persona giusta per costruire «un centro che possa offrire un’assistenza legale, sia effettiva che preventiva, al cittadino più indifeso». Prodi a quel tempo girava in pullman per arrivare sino a Palazzo Chigi, Di Pietro invece si avvoltolava in se stesso dopo aver lasciato la toga da pochi mesi: non erano ancora stati assieme al governo, non avevano ancora convissuto nell’Asinello dei Democratici. Malvina Borletti, da un lato, aveva visto lungo. Dall’altra, non aveva visto Di Pietro. E che disse lui di tanta grazia? Era macerato:
«Appena ne avrò l’occasione voglio approfondire le ragioni di questo gesto e cosa lei si aspetta da me. Non v’è alcuna ragione logica per cui una persona che non conosco mi debba regalare una somma così importante. Declinerò l’invito, se non ci vedrò chiaro»
Gli venne la vista di un’aquila: perché non disse più nulla e comincerà a incassare, meglio, ad «approfondire». Ma non subito: il tribunale di Milano congelerà i soldi per via di comprensibili bisticci ereditari e li sbloccherà solo tre anni più tardi. Malvina Borletti – lo scrissero tutti, e a tutti sembrava logico – aveva detto che i soldi erano per attività politiche. A partire dal 15 settembre 1998 sembrò confermarlo anche Di Pietro: comunicò alle presidenze delle camere, come la legge prevedeva, che dal 15 giugno 1998 al 19 marzo 1999 aveva ricevuto tre bonifici dalla contessa. Sono gli atti della tesoreria della Camera a spiegare questi particolari: non certo le spiegazioni di Di Pietro, che sul tema rimase muto come un pescecane. «Io a quei tempi ero sempre con Di Pietro», dirà Elio Veltri, «e mai l’ho sentito dire che aveva incassato i soldi dalla contessa».
La stessa legge sul finanziamento pubblico consentiva di detrarre le donazioni ai partiti dalle tasse: ecco perché il commercialista Alessandro Manusardi, incaricato dalla famiglia Borletti affinché limitasse i danni, cominciò a chiedere qualche riscontro a Prodi e a Di Pietro circa l’uso che avessero fatto delle donazioni. Risposta: silenzio. Quando poi nel 2000 fu chiaro a tutti che l’Asinello di Prodi e il partito dipietrista stavano rompendo, fu la disperazione della Contessa e l’allarme definitivo della famiglia: Francesca e Federico, i figli della contessa, le ridissero che stava buttando i soldi. Intanto il commercialista, discretamente disperato, continuava a chiedere pezze d’appoggio ai due. Lo esaudì almeno il professore: documentò che 545 milioni che aveva ricevuto da un conto svizzero Ubs – esentasse, secondo la legge 346 del 1990 – li aveva spesi nella sua campagna elettorale bolognese come il suo commercialista, Fabrizio Zoli, spiegò con dovizia: sciorinò l’elenco di tutti gli stipendi che aveva pagato con quei soldi.
Antonio Di Pietro non fornì neanche uno scontrino. Mai: «Finora ho recuperato il documento del versamento fatto da Prodi al Movimento per l’Ulivo», disse il commercialista della famiglia, Manusardi, «ma da Di Pietro non ho ottenuto niente». Molto distrattamente l’ex pm fece sapere di «attività politiche diversificate» e che gli erano rimasti «sessantadue milioni circa». In pratica aveva speso tutto, cioè aveva fatto un sacco di attività politica. Sicuro? No, a giudicare da una frase che buttò lì a Panorama del 6 giugno 2000: «La donazione non era, nel mio caso, finalizzata ad attività politiche, ma all’uso che ne avrei ritenuto più opportuno». Ecco. E dove stava scritto? Perché chiunque altro aveva capito il contrario? Perché aveva denunciato dei versamenti alla Camera secondo la legge sul finanziamento ai partiti? Che altro uso «opportuno» poteva celarsi? Dov’era finito quel «centro di assistenza legale» di cui aveva parlato la contessa, quello che potesse aiutare in forma «effettiva e preventiva al cittadino più indifeso»? Ogni dubbio si fece definitivo quando il tesoriere dell’Italia dei Valori, Renato Cambursano, disse che «l’Italia dei valori non ha avuto alcun contributo proveniente dalla donazione Borletti». Nel bilancio del partito di Tonino di quei soldi non c’era traccia: né ci sarà.
I figli alla fine riuscirono a bloccare ulteriori versamenti: lo stop fu il 13 giugno 2000. Non mancò un’interrogazione parlamentare: la Lega chiedeva se la donazione fosse stata fatta a favore di un movimento o di una persona fisica. Non ci fu risposta, ma era questa: di una persona molto fisica. Dopodiché tutta la faccenda prese a scemare. Se ne riaccennò solo un anno più tardi, quando un’altra contessa, Anna Maria Colleoni, nel luglio 2001 decise di lasciare due miliardi e trecento milioni ad Alleanza nazionale. Il Corriere della Sera rispolverò la questione e andò a vedere le cifre incassate da Tonino e le rivelò nell’indifferenza generale. Quello che Di Pietro voleva, forse. Seguiva un buio di quasi dieci anni. A risollevare la questione, en passant, fu proprio Antonio Di Pietro il 9 gennaio 2009 nella famosa lettera che scrisse a Libero; in un passaggio in cui cercava di giustificare le sue disponibilità finanziarie, gli scappava:
«Devono aggiungersi ulteriori rinvenienze attive, tra cui una donazione mobiliare per circa 300 milioni di vecchie lire ricevuta nel 1996 dalla contessa Borletti. I fatti sono notori in quanto hanno riguardato come beneficiari altri personaggi pubblici»
I fatti erano notori un accidente. Da una vita Di Pietro liquidava come notorio ciò che aveva taciuto prima che lo si scoprisse: mai grazie a lui, e spesso fuori tempo massimo. Fu poi Panorama a rinfrescare com’era andata: anche se era già tutto scritto, come detto, in un vecchio articolo del Corriere della Sera del 3 luglio 2001. Ecco qua: divisi in tre versamenti, nelle tasche di Di Pietro si erano materalizzati 954 milioni e 317.014 lire. Un miliardo circa. Non 300 milioni. Che cosa ne aveva fatto, visto nel bilancio del partito non ce n’era traccia? Quali le «attività politiche diversificate?». Una domanda stupida: Di Pietro l’aveva appena spiegato nella sua lettera a Libero: operazioni immobiliari. Coi soldi della vecchia. Il commercialista dei Borletti, Alessandro Manusardi, dopo aver letto si limitò a dire questo: «Escludo nella maniera più assoluta che l’obiettivo della signora fosse il finanziamento di qualsivoglia acquisto immobiliare altrui». Sai che problema, per Di Pietro.
Di Pietro disse perciò una mezza verità e due bugie intere, in quella lettera, anche a proposito dei finanziamenti pubblici da lui incamerati:
«L’Italia dei Valori non riceve finanziamenti da imprenditori o sponsor… Riceveremo invece i finanziamenti pubblici previsti dalla legge… Essi vengono introitati da Idv tutti ed esclusivamente sui 2 conti correnti della tesoreria dell’Italia dei Valori»
La mezza verità era appunto che dei finanziamenti da un imprenditore o sponsor, termine forse improprio per qualificare la contessa Borletti, l’Italia dei Valori in effetti non li aveva ricevuti: li aveva ricevuti lui. La prima bugia o imprecisione, poi, è l’aver dimenticato che i conti correnti erano almeno tre e non due: c’era anche quello della Banca nazionale del Lavoro di Roma su cui la tesoriera aveva chiesto di versare i rimborsi per le europee del 2004, per esempio. Ma può darsi che non abbia granché rilevanza. Infine, sempre a proposito di soldi mai presi da finanziatori o sponsor, vedasi questo scambio tra Di Pietro e la giornalista Antonella Baccaro pubblicato sul Corriere della Sera del 10 maggio 2006:
«Sì, li abbiamo presi anche noi i finanziamenti»
Può dirmi quanto?
«Certo che glielo dico. E che problema c’è? Quanto abbiamo ricevuto? [chiede a Silvana Mura, la tesoriera, ndr]. Sì, ecco, ventimila euro. Abbiamo fatto la ricevuta? Sì abbiamo fatto la ricevuta»
Ha letto anche cosa ha detto a questo proposito il segretario della Cils, Raffaele Bonanni?
«No, che leggere: qui stiamo eleggendo il Presidente della Repubblica…»
Testualmente: «È un fatto di una gravità inaudita. Bisogna chiedersi perché costoro hanno dato soldi ai partiti perché i partiti li hanno presi»
«Noi abbiamo preso i soldi? Ma che abbiamo preso? Ma che soldi? Questo è un modo indecente e indegno di dire le cose!»
Le dica lei.
«Noi possiamo ricevere finanziamenti per il partito in base alla legge. Possiamo riceverne di pubblici e di privati. Io, ad esempio, sono finanziatore del mio partito. Tutto qui»
Quindi non li restituisce?
«Ripeto: il finanziamento di Autostrade è legittimo e trasparente»
C’è chi, per quanto legittimi, quei finanziamenti non li ha presi, come i Verdi e Prc.
«E io rispetto le scelte di tutti. Dopodiché nessuno si permetta di dire che ho preso soldi. È tutto a rigor di legge».
A parte il dato della legittimità, c’è anche quello dell’opportunità. Sono opportuni quei finanziamenti?
«Non ho capito il problema. Se li avesse offerti la P2, piuttosto che la ‘ndrangheta, ok, sarebbero da rifiutare. Ma questa è una società quotata, che c’azzecca?»
Secondo i Verdi, quei soldi in realtà vengono dai cittadini attraverso i pedaggi, per questo andrebbero rifiutati.
«Guardi, questa è una società a capitale misto, quotata, che ha deciso di fare un finanziamento. E lo ha fatto in modo trasparente. Come lo doveva fare?».
Poteva disporre di quei soldi diversamente.
«Io credo che abbia finanziato i partiti affinché possano esercitare la propria funzione nella società»
La società Autostrade, quindi, ha finanziato Di Pietro o l’incorporato partito. Che cos’è Autostrade, imprenditore o sponsor? Forse chiromante: perché trentasette giorni dopo, il 17 giugno 2006, Di Pietro diventerà ufficialmente ministero delle Infrastrutture con competenza sulle autostrade, settore che alla società Autostrade interessava discretamente.