Come funziona l’indignazione nel 2014
Negli ultimi giorni i media si sono occupati, in contesti diversi, di due grandi brand noti a livello mondiale: Apple e Moncler.
Nel caso di Apple è capitato che il suo CEO Tim Cook ha comunicato ai media di essere orgoglioso e felice della propria omosessualità e ha aggiunto che l’azienda che guida è da sempre impegnata a promuovere “i diritti umani e l’uguaglianza per tutti.
Nel caso di Moncler, un servizio televisivo di Report ha (pare) rivelato il trattamento riservato alle oche durante la produzione dei suoi piumini, generando scandalo tra gli spettatori, anche i più freddi riguardo alle tematiche animaliste.
I due casi non potrebbero sembrare più lontani tra loro, ma in realtà hanno un punto in comune di primaria importanza, anzi fondante: i cosiddetti “valori della marca”.
VENDERE CON L’ETICA
Ai non pratici di comunicazione può sembrare curioso che un brand dichiari di avere dei “valori”: l’impresa per sua natura è orientata al profitto e, garantito il rispetto delle leggi nella ricerca di quest’ultimo, non dovrebbe avere necessità di esibire alcun tratto etico.
Le imprese, tuttavia, sono molto felici di associare i propri brand a specifici valori e sentimenti.
Di solito lo fanno per pure ragioni di marketing: l’associazione tra marca e valori astratti è l’elemento fondamentale con cui la comunicazione di prodotto cerca l'”aggancio” emotivo con i potenziali consumatori.
Un esempio facile facile su tutti: l’associazione di un brand come Red Bull a un valore come la cultura della performance è talmente sedimentata nel nostro immaginario da sembrarci ovvia e automatica: segno che i pubblicitari della marca austriaca hanno fatto un ottimo lavoro, negli anni.
Altre aziende abbinano i loro brand a valori più tangibili e dimostrabili: un’azienda che utilizza solo prodotti biologici (e può dimostrarlo) ha vita facile ad associare il proprio brand al valore di naturalità e utilizzare quest’ultimo come argomento di vendita.
I valori di marca vendono.
Le ragioni sono note: in uno scenario di mercato sempre più competitivo e con prodotti sempre meno distinti, l’elemento immateriale (valoriale, estetico, proiettivo) è determinante. E spesso è ciò che viene comunicato in pubblicità a scapito di altri elementi.
In epoche passate, quando i consumatori erano più ingenui nel rapporto uomo-merce, i valori di marca spesso creavano status symbol. Ora è un po’ diverso: i valori dei brand denotano o connotano, a seconda dei casi, parti di stili di vita.
Le classiche pubblicità “I’m a Mac vs I’m a PC” sono un esempio perfetto di questo fenomeno: il passaggio dal “consumo questo, quindi sono” al “sono così, quindi consumo (anche) questo, perché riflette i miei valori”.
Il terreno si fa accidentato quando i brand si fanno portatori di valori non strettamente riferiti al prodotto, ma generalisti o, nel caso di Apple, universali.
Può un’azienda dichiararsi paladina “dei diritti umani e dell’uguaglianza per tutti”, come ha detto Tim Cook, aggiungendo che questa condotta proseguirà anche dopo il suo mandato e sarà una linea seguita per sempre dalla casa di Cupertino ?
Chi dà ad Apple (o a qualsiasi altra impresa, che per sua natura è collettiva, “diversa” e impersonale) il mandato morale per farsi portatore di valori che non siano semplici condotte al suo interno?
La mia risposta, che mi rendo conto essere antipatica, è che i brand quando parlano di valori “alti” e universali stanno giocando in un campo non loro. E lo fanno con un mandato morale che si sono auto-attribuiti.
I valori, contrariamente al coraggio manzoniano, sono qualcosa che i brand si danno: se li cuciono addosso come un logo.
E spesso sono frutto di mere scelte di posizionamento, altre volte sono sì attinenti al prodotto ma al prezzo di non poche forzature, in molti casi sono puro arbitrio.
LA “CREDIBILITÀ PERCEPITA” DELLE AZIENDE
Tutto questo spalanca la porta alla vera questione in gioco: la credibilità delle aziende come enti “morali”.
È naturale chiedersi se la Apple abbia i requisiti etici per portare avanti la sua battaglia valoriale in parallelo con le proprie pratiche commerciali.
Ed è altrettanto naturale interrogarsi sui valori di un’azienda come Moncler, alla luce della recente puntata di Report che l’ha coinvolta.
Siamo di fronte a un’azienda “buona” e una “cattiva” ?
Visto che nessuno ha gridato allo scandalo dopo le dichiarazioni di Tim Cook è ragionevole pensare che nella mentalità collettiva la Apple può permettersi di farsi portabandiera di valori come i diritti umani e l’uguaglianza senza che ci sembri strano o contraddittorio.
Se lo facesse la Moncler, con ancora calda la polemica sul maltrattamento delle oche, è facile pensare che l’indignazione sarebbe collettiva.
La credibilità, tuttavia, non è un dato oggettivo. È anch’essa un concetto figlio della comunicazione. Pessima notizia.
Se ci pensiamo bene, cioè se ci fermiamo a riflettere al di là del flusso tumultuoso delle news e dell’indignazione conseguente, è facile ricordare le terribili condizioni a cui sono tuttora sottoposti i lavoratori della Foxconn, una delle aziende che contribuisce alla creazione di alcuni prodotti Apple.
A buonsenso, la vita a cui sono sottoposti i dipendenti di quella mega-fabbrica è una cosa peggiore del trattamento riservato alle oche nei presunti stabilimenti di produzione della Moncler.
Eppure la rabbia virtuale e gli effetti negativi materiali – per ora registrati in borsa; vedremo se ci sarà un seguito nelle vendite – hanno colpito solo l’azienda produttrice di piumini. Le tante notizie dei suicidi per disperazione lavorativa negli stabilimenti in cui si producono gli iPhone, nonostante siano diffuse da quasi 4 anni, non hanno scalfito in modo apprezzabile il valore in borsa, le vendite e perfino la credibilità valoriale di Apple.
Perché?
Escludendo l’ipotesi per cui i consumatori sono tutti estremisti animalisti che preferiscono veder maltrattato un uomo al posto di un’oca, le ragioni vanno cercate a valle, cioè nelle modalità di consumo delle notizie.
La mia idea è che si tratti, tanto per cambiare, di una questione di comunicazione.
Le condizioni di vita degli operai della Foxconn, per quanto descritte con dovizia di dettagli a parole, non emergono come racconto. Alla loro narrazione manca un visual forte, unico e comunicabile.
Non ci sono, almeno per ora, immagini in grado di raccontare e riassumere in un solo sguardo le condizioni di vita e lavoro nella fabbrica cinese degli iPhone. Il concetto “condizioni di vita di un lavoratore in una fabbrica” è un processo che non è facilissimo da raccontare rapidamente per immagini. Ed è un’impresa quasi impossibile in uno stabilimento-caserma in cui c’è un embargo sulle riprese video al suo interno e c’è uno strettissimo controllo sulle vite degli operai.
L’immagine – statica o animata – di un’oca spennata malamente, invece, è potentissima nella sua semplicità. Dice tutto, lo fa con forza e – comunicativamente – colpisce molto più di un racconto sui maltrattamenti a degli esseri umani sul posto di lavoro.
Il risultato è che, nella classifica collettiva dell’antipatia, in questi giorni la Moncler se la passa peggio di Apple (che, anzi, può permettersi indisturbata e credibile di fare la paladina dell’uguaglianza e dei diritti umani): un risultato molto poco logico, tenuto conto di eventuali responsabilità reali delle due aziende.
COME FUNZIONA L’INDIGNAZIONE COLLETTIVA NEL 2014
Tutto questo ci dice qualcosa su come funziona l’indignazione nel 2014.
Prima di tutto, la nostra indignazione è figlia della nostra percezione delle cose o quantomeno è circoscritta da essa nel “qui e ora”.
Ed è un sentimento collettivo e passeggero, fatto di brevi liaison con la rabbia, sottoposto al flusso delle comunicazioni e degli eventi a cui siamo esposti.
E proprio perché siamo immersi in un flusso di segni sempre più grande e pervasivo, ci indigna solo ciò che spicca dalla massa. Ecco perché l’indignazione collettiva moderna è fortemente visiva. E spesso, per questo, è superficiale.
Non sbagliavano i Chumbawamba, anni fa, a intitolare un loro album “Pictures Of Starving Children Sell Records”: l’indignazione collettiva è un atto repentino che chiama all’azione istantanea, proprio come un acquisto d’impulso.
Non so dire se esiste un vero e proprio marketing dell’indignazione: di certo c’è un suo mercato, con prodotti specifici, tra cui un partito (il Movimento 5 Stelle) e un giornale (il Fatto Quotidiano). Ma anche attività come le gallerie di “post-it indignati dei lettori” prodotte nel corso degli anni da Repubblica sono puro marketing dell’indignazione.
In molti, dopo il servizio di Report, hanno fatto del comprensibile “benaltrismo” riferendosi a chi si indignava per le povere oche spennate con forza. È un fenomeno ormai noto nelle conversazioni online. Chiamiamolo “Effetto ‘e allora le foibe?'”: c’è sempre un problema più importante, una questione più grave, un dramma più serio di quello di cui ci si sta occupando in quel preciso momento. Qualcuno lo fa notare e di solito la conversazione, da lì in poi, si perde in schermaglie tra opposte fazioni.
La natura irrazionale e squilibrata (in senso neutro, cioè non basata sull’effettiva gravità dei problemi) dell’indignazione collettiva può avere esiti paradossali come quello appena evidenziato o può addirittura arrivare a dettare l’agenda ai media, dando diverse priorità a eventi simili.
Non è un caso, per fare un altro esempio recente, che la rabbia collettiva per la sorte di Stefano Cucchi sia incomparabilmente più alta di quella riservata ai casi Uva e Aldrovandi, che pure hanno tratti comuni.
Pensiamoci: il caso Cucchi dispone di (terribili) immagini che raccontano in un solo colpo d’occhio un caso – uno solo – per cui è giusto indignarsi. E lo fanno con una forza – quella che un comunicatore definirebbe “potenza iconica” – che vale davvero più di mille, amarissime, parole.