Tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana
(Lo scorso fine settimana sono stato ospite del primo Festival della Comunicazione, che si è tenuto a Camogli. Questo è il testo delle cose che ho detto nel mio intervento a proposito della mia esperienza di comunicazione dell’astrofisica e, più in generale, della scienza.)
Di mestiere faccio l’astrofisico. Sono cioè uno scienziato, e perciò appartengo a una categoria che, nel sentire comune, non è esattamente associata alla comunicazione, a farsi capire fuori della cerchia degli esperti. Voglio dire: lo scienziato è colui che nei film, tipicamente, compare nel momento in cui serve qualcuno che dica una cosa incomprensibile. Nei film peggiori l’espediente si usa addirittura per mascherare un buco di sceneggiatura, oppure per rendere plausibile uno snodo narrativo che plausibile non è. A un certo punto arriva lo scienziato — generalmente un tizio trasandato, con una capigliatura discutibile — e dice una cosa tipo “dobbiamo invertire la polarità del flusso canalizzatore”. C’è anche un termine inglese per queste frasi incomprensibili: “techno-babble”, che in italiano si potrebbe rendere con “tecno-bla-bla”. Insomma, lo scienziato fa un po’ la parte dello sciamano, del santone, di quello che tutti rispettano ma che nessuno capisce davvero.
L’astrofisico, poi, ha a che fare con cose lontanissime dall’esperienza quotidiana, che affascinano ma sembrano anche un po’ incomunicabili. Quando stavo facendo la tesi, un giorno ho incontrato un mio conoscente che non vedevo da un po’. Mi ha chiesto cosa facessi, io gli ho detto che stavo per laurearmi in fisica, e lui mi ha chiesto su cosa. Ora, il titolo della mia tesi era “Effetti di una tarda reionizzazione del mezzo intergalattico sulle anisotropie angolari del fondo cosmico”. Il fondo cosmico sarebbe il fondo cosmico di radiazione a microonde, che, detto in termini più comprensibili, sarebbe il calore residuo del big bang. Vabbe’, io ho risposto che studiavo il fondo a microonde, e lui: Ah, fantastico, ne stavamo proprio parlando ieri a cena, stavamo decidendo se comprarne uno, ma mia madre ha paura che faccia male, che rovini i cibi. Insomma, c’era stato un serio problema di comunicazione. Ecco: in quel momento, mi fu definitivamente chiaro che facevo un lavoro che rendeva complicato avere conversazioni normali con le altre persone. Allora ho cominciato a sforzarmi di raccontare in modo più semplice le cose che facevo a quelli che avevo intorno. Ho iniziato con i miei genitori, perché mi dispiaceva che non capissero quello che facevo.
Se inizi a farlo — se provi cioè a raccontare la scienza ai non-scienziati — scopri subito che è molto complicato, che un sacco di cose che dai per scontate non lo sono, e che magari tu stesso hai solo dato un nome difficile a cose che non capisci del tutto. Einstein diceva che non hai capito davvero una cosa se non sai spiegarla a tua nonna. In realtà non so se lo abbia detto veramente — se avessi un euro per ogni citazione farlocca attribuita a Einstein sarei milionario — però rende l’idea. Farsi capire dà una certa soddisfazione, umana e intellettuale, perché si è costretti, tra l’altro, a imparare cose che non si sapeva di non sapere. E quindi, dicevo, ho cominciato a raccontare agli altri le cose che facevo o capivo, e ci ho preso gusto, e ho finito per diventare uno scienziato che comunica ai non-scienziati — che per certi versi è un po’ come dire un pesce che cammina. Naturalmente, a questo punto forse avrete capito che tutto quello che dirò sarà tremendamente personale e che ogni possibile lezione su come si comunica la scienza che dovesse venirne fuori sarà puramente involontaria.
Bene. Il titolo di questo intervento è «Tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana» e credo non ci sia bisogno di spiegare da dove viene questo titolo. Per inciso, devo subito confessare di essere abbastanza vecchio da far parte della generazione che ha potuto vedere il primo Guerre Stellari al cinema. Era la fine del 1977, avevo sei anni, facevo la seconda elementare, e avevo visto la pubblicità di due film che avevano attirato la mia attenzione: uno dei due film era Guerre Stellari, l’altro era un film sullo Yeti — ossia l’abominevole uomo delle nevi — che non ha lasciato traccia nella storia del cinema, se non, forse, per qualche impallinato di cinematografia di serie B. Chiesi allora a mio padre di portarmi al cinema nei giorni delle feste di Natale. Mio padre mi disse di scegliere, mi avrebbe portato a vederne solo uno dei due. Per fortuna scelsi bene, quindi non so dirvi come inizia il film sullo Yeti. Invece, ricordo perfettamente il momento in cui si fece il buio in sala e sullo schermo nero apparve quella scritta: «Tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana» — seguita, un istante dopo, dalle note della fanfara di John Williams. L’inizio perfetto. Ecco: dal punto di vista narrativo, «Tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana» è una frase incredibilmente efficace. È come «C’era una volta». Uno la legge, come è capitato a me a sei anni, e si prepara immediatamente a sentire un racconto. È una porta d’ingresso che ti trascina immediatamente dentro la storia.
Se sei uno scienziato, però (e a sei anni non lo ero ancora, per fortuna), una frase del genere ti lascia anche una certa insoddisfazione. Inizi a chiederti: tanto tempo fa, sì, ma quanto tempo fa? Quando è successo, esattamente? La galassia è lontana lontana, d’accordo, ma che significa di preciso? Dove sta, questa galassia? Che galassia è? E soprattutto, come lo siamo venuti a sapere, noi, quello che succede (è successo?) in una galassia diversa dalla nostra? (Naturalmente i non-scienziati se ne fregano: non rompere, scienziato, e lasciaci sentire la storia di Luke Skywalker.)
Insomma, quella frase mi sembra un buon punto di partenza, perché lì dentro è contenuta gran parte della sfida che deve fronteggiare chi si trova a dover comunicare la scienza, che poi sarebbe questa: possiamo usare, e come, la forza evocativa, emotiva, della narrazione, per raccontare storie che hanno a che fare con una materia che richiede rigore e precisione? C’è una tensione, una polarità, che mi sembra interessante. Ma probabilmente la avverto, questa tensione, e mi sembra interessante, proprio perché mi ritrovo a essere una figura “anfibia”, a cavallo tra due mondi — quello della comunicazione e quello della scienza — che normalmente sono separati e coinvolgono figure diverse. E allora, a questo proposito, volevo leggere l’inizio di una storia, che è sorprendentemente simile all’inizio di Guerre Stellari.
In un luogo dell’universo molto lontano di qui viveva un tempo una stella tranquilla […]
È l’inizio di un racconto che si intitola Una stella tranquilla, di uno scrittore che amo molto, ovvero Primo Levi. Levi è stato un caso rarissimo — tanto più nel panorama culturale e intellettuale italiano — di figura anfibia, appunto: una persona con una solida preparazione scientifica (era un chimico) che è diventato un narratore, e che non ha mai separato queste sue due anime, anzi ha fatto del suo essere anfibio una caratteristica che lo identifica e che pervade tutta la sua opera. E infatti, mentre Guerre Stellari usa la frase «Tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana» come una porta di ingresso da cui entrare spediti, senza problemi, Levi, dopo aver usato praticamente la stessa frase, si ferma un attimo sulla soglia. La frase diventa l’inizio di una riflessione:
Questa stella era molto grande, molto calda e il suo peso era enorme: e qui incominciano le nostre difficoltà di relatori. Abbiamo scritto «molto lontano», «grande», «calda», «enorme»: l’Australia è molto lontana, un elefante è grande e una casa è ancora piú grande, stamattina ho fatto un bagno caldo, l’Everest è enorme. È chiaro che nel nostro lessico qualcosa non funziona.
Insomma, da quella innocua frase inizia una riflessione sul linguaggio, sulla sua inadeguatezza, sulle difficoltà di chi vuole raccontare la vastità dell’universo. Levi dice: per raccontare questa storia «bisognerà avere il coraggio di cancellare tutti gli aggettivi che tendono a suscitare stupore: essi otterrebbero l’effetto opposto, quello di immiserire la narrazione.» Il nostro linguaggio, dice, è talmente inadeguato a trattare cose lontane dall’esperienza quotidiana che si rischia il ridicolo: Levi paragona il tentativo, con una delle sue metafore vive e precise, a quello di uno che «volesse arare con una piuma». Ora, essendo io uno che racconta prevalentemente di astrofisica — una materia che ha a che fare con tempi e spazi e oggetti molto grandi e molto lontani — e che lo fa usando prevalentemente la scrittura, mi rendo perfettamente conto del dramma. Cioè, da un lato so per esperienza diretta che le cose stanno esattamente così come dice Levi, che più si usano aggettivi mirabolanti, più si perde efficacia e ci si allontana dall’obiettivo. Dall’altro lato — e qui sta il dramma — sono convinto che lo stupore in qualche modo bisogna pur suscitarlo, perché è proprio lo stupore la molla principale che spinge a conoscere il mondo. Bisogna trovare il modo di coinvolgere emotivamente, di far avvertire che quello che si vuole comunicare ci riguarda da vicino, risuona con il nostro essere umani.
Come si fa a riuscirci? Intanto, dando per assodato il presupposto che chi comunica sappia di cosa parla, l’altro requisito scontato per comunicare efficacemente sarebbe quello di voler farsi capire. O meglio, dovrebbe essere scontato, però siamo sicuri che lo sia? A un certo punto della mia vita — piuttosto recentemente, devo ammettere — ho scoperto che la parola “divulgazione”, in italiano, ha spesso una connotazione negativa. Sul vocabolario Treccani, ad esempio, la definizione è accompagnata dalla precisazione: “talora con leggero senso spreg.”. La cosa è stata una sorpresa per me, perché io sono cresciuto ammirando profondamente i grandi divulgatori: probabilmente, se ho fatto prima lo scienziato e poi ho provato a cimentarmi io stesso con la divulgazione la ragione è anche che da piccolo ho letto libri che raccontavano la scienza in modo semplice, per esempio quelli di Piero Angela. Un paio di anni fa ho parlato proprio con Piero Angela prima di una trasmissione in cui eravamo entrambi ospiti e gli ho detto che avevo letto un suo libro quando avevo forse nove o dieci anni, e che mi aveva ispirato. Lui è stato molto contento, ma un po’ sorpreso che un bambino di quell’età potesse leggere un libro del genere. Ma la cosa va tutta a merito delle sue capacità di divulgatore: il punto è proprio che il libro era scritto in modo talmente chiaro che un ragazzino curioso poteva, a qualche livello, capirlo e restarne affascinato. Ricordo ad esempio che, per provare a spiegare come mai l’universo primordiale fosse più caldo e denso di quello attuale, usava un paragone con lo stato dell’aria che viene compressa in una pompa da bicicletta. Ora, nessuno è stato nell’universo primordiale, ma una pompa da bicicletta l’abbiamo vista più o meno tutti: si tratta quindi di un’immagine molto efficace.
Naturalmente, però, l’universo primordiale non è una pompa da bicicletta. Quindi, per farci capire, per semplificare, stiamo tradendo in qualche modo il significato originario. Allora, forse, un po’ del motivo per cui la parola divulgazione per alcuni ha una sfumatura dispregiativa è che la si vede come una forma di corruzione del sapere — come se ci fosse una purezza che va preservata e non può essere in alcun modo diluita o contaminata, come se esistesse un unico modo giusto di abbeverarsi alla fonte. Credo ci sia dietro anche una forma di difesa delle proprie competenze, la paura da parte degli esperti di dare via troppo facilmente i propri segreti: dopotutto, uno dei significati impliciti di “divulgare” è proprio quello di rivelare cose che sarebbe stato meglio tenere nascoste. Mi sembra un atteggiamento irrazionale e controproducente, che andrebbe superato. E credo che andrebbe recuperato il significato positivo e nobile della parola divulgazione.
Oltretutto, la comunicazione è uno degli elementi insostituibili di quel vasto insieme di pratiche a cui diamo, per semplicità, il nome di metodo scientifico. Rendere pubblici e accessibili i propri risultati — perché tutti possano comprenderli e criticarli — è una delle cose che fin dall’inizio ha distinto la pratica della scienza. Le società e le accademie sorte con la rivoluzione scientifica avevano tra i loro compiti proprio quello di far conoscere le nuove scoperte ai propri membri. Ci sono sempre stati casi di diffidenza e resistenza, come quello di Newton, che era un paranoico ossessionato dalla segretezza: ma Galileo, ad esempio, scrisse il Dialogo sopra i massimi sistemi in italiano, proprio perché voleva che fosse letto il più possibile. Oltretutto lo scrisse in forma di dialogo e in una prosa meravigliosa, altamente godibile. Era a tutti gli effetti un’opera di grande divulgazione. Poi, certo, come sappiamo, non gliene venne molto di buono, e mi chiedo se una parte della diffidenza italiana nei confronti della comunicazione della scienza non arrivi proprio da lì.
Comunque: bisognerebbe farsi capire, e credo che per questo si debba essere disposti a qualche rinuncia, a lasciarsi un po’ andare. La cosa difficile è stabilire fino a dove arrivare con la semplificazione. Un’altra delle innumerevoli citazioni attribuite a Einstein dice: «Bisogna rendere le cose il più semplice possibile, ma non più semplice di così». Sembra semplice. Ma, dopotutto, noi scienziati costruiamo modelli, e sappiamo (o dovremmo sapere) che essi sono sempre, anche nei casi più accurati, una descrizione approssimata del mondo. Non dobbiamo (non dovremmo) mai confondere il modello con la realtà. Non so se conoscete quella battuta sui fisici teorici, che quando si trovano a dover trattare un problema che ha a che fare con una mucca iniziano così: «Supponiamo che la mucca sia una sfera di densità uniforme». Ecco: noi scienziati siamo abituati a trovare semplificazioni che funzionano, che rendano trattabili i problemi, e in fondo comunicare significa trovare un modello che possa tradurre ragionevolmente i concetti nel linguaggio più adatto al contesto, che chiaramente non può essere lo stesso se parlo al congresso dell’American Astronomical Society o al Club delle Mamme Marchigiane (esiste veramente). Trovare il modello adatto, il linguaggio adatto, dunque. Naturalmente, la bravura sta nel riuscirci senza perdere di precisione e di chiarezza. Non è facile, è una forma di ricerca anche questa, magari non tutti hanno voglia di provarci: ma se vogliamo possiamo farcela.
Mi sembra interessante che in lingua inglese il corrispettivo della nostra “divulgazione” sia “science popularization”, popolarizzazione della scienza. Sarà che gli anglosassoni hanno un rapporto diverso con la cultura pop, ma la sfumatura negativa sembra non esserci. Soprattutto negli Stati Uniti, raccontare a tutti quello che si fa è parte degli obblighi, direi dell’etica, del ricercatore. Ci sono molti esempi di straordinari divulgatori tra i più grandi scienziati di lingua inglese di tutti i tempi — da Faraday a Feynman. E, a questo proposito, ritorno a Guerre Stellari, che della cultura pop è uno dei punti di riferimento indiscussi, per trovare qualche altra chiave utile per la comunicazione della scienza. La prima, appunto, mi sembra quella di cercare di essere “pop” alla maniera anglosassone, che non è un insulto ma un pregio, e provare usare le infinite risorse che le forme espressive popolari ci mettono a disposizione. Partire da spunti presi a prestito dai film, dalla letteratura, dal fumetto, dalla fantascienza, anche dalle canzoni, per trovare pretesti per parlare di scienza, magari senza farlo troppo notare.
La seconda chiave che prendo in prestito da Guerre Stellari è quella della narrazione. Guerre Stellari, se uno lo analizza, è chiaramente un esempio da manuale di quel famoso modello narrativo chiamato “viaggio dell’eroe”, con la sua struttura in tre atti, i suoi archetipi e compagnia bella. È una roba antichissima, che si trova nelle storie e nei miti classici (e noi abbiamo dovuto riscoprirla grazie ai manuali di sceneggiatura americani). Comunque, il fatto è che la predilezione per le storie di un certo tipo probabilmente è codificata nei nostri geni dall’evoluzione: noi apprendiamo di più, e meglio, attraverso le storie. Siamo portati a organizzare i fatti secondo una sequenza temporale, con dei protagonisti, degli snodi, e così via. È così che capiamo il mondo.
Addirittura, a me piace estremizzare dicendo che il metodo scientifico è una procedura per selezionare, tra tutte le storie che uno può inventare sul mondo, le storie migliori: non quelle più belle o appassionanti, naturalmente, ma quelle che descrivono meglio il modo in cui è fatta davvero la realtà. Le storie basate sull’evidenza. Ecco, tornando alla comunicazione della scienza, tradizionalmente la forma narrativa è stata un po’ trascurata, e si è preferito concentrarsi solo sull’elencazione dei fatti, ricalcando il modello impersonale della letteratura tecnica. E però, anche un saggio o un articolo divulgativo funzionano molto meglio quando c’è dietro una costruzione narrativa, un’organizzazione dei fatti in una storia che ricalca i modelli classici di racconto. Non dico che bisogna necessariamente seguire la struttura in tre atti — che anzi ha le sue serie limitazioni — ma il punto è che nel raccontare la scienza si può rimanere rigorosi nei contenuti, precisi nel linguaggio, ma evocativi nella costruzione di una storia che tocchi la nostra parte più emotiva. Da questo punto di vista, credo che sia importante avere dei protagonisti, raccontare storie di scienza che coinvolgano persone in carne e ossa, con cui ci possa identificare: persone che fanno qualcosa, che sono coinvolte in un’impresa, che hanno un’ossessione, una domanda a cui cercano di dare risposta. Persino il coinvolgimento personale dell’autore, che in un resoconto tecnico è assolutamente da evitare, in una narrazione divulgativa può, usato con moderazione, creare empatia e vicinanza con chi ascolta.
Il che mi porta a un’altra cosa che credo di aver capito, e forse è quella a cui tengo di più. Purtroppo, il principale contatto che la maggior parte delle persone ha con la scienza è quello con le notizie scientifiche nei mezzi d’informazione generalisti, da cui si trae l’impressione che la scienza sia l’operazione di raccogliere, come in una specie di ricettario, una collezione di formule di utilità pratica. Cioè: il pubblico viene esposto alla scienza prevalentemente attraverso la cronaca delle ultime scoperte, dei risultati più recenti, di solito secondo un canovaccio del tipo: «Uno studio dell’università di blabla ha scoperto che il gene del blabla…». Spesso, tra l’altro, aleggia su tutto questo l’interrogativo «A che ci serve?», come se questa fosse l’unica cosa che importa quando si parla di scoperte scientifiche. Questo fatto, secondo me, finisce per produrre un effetto non molto positivo, per almeno due motivi. Il primo è un motivo di efficacia comunicativa. Sentire parlare di scienza in questo modo è noioso. Annoia persino me che amo la scienza. Se noi ci chiediamo senza snobismo da dove viene l’enorme successo di certe trasmissioni di pseudo-scienza (non faccio nomi ma ognuno ha in mente qualche esempio) credo che dobbiamo risponderci che esso viene dal fatto che queste trasmissioni ci mettono di fronte a un mistero. Poi, naturalmente, si limitano a sguazzarci dentro e non fanno niente per farci capire meglio, per risolverlo, o se non altro per dirci perché non si possa ancora risolvere: insomma, trovano false soluzioni. Ma il punto è che in questa ricerca di mistero c’è anche una componente positiva, una spinta che è straordinariamente potente negli esseri umani: noi siamo attratti dai problemi, ci piace capire come stanno le cose. Allora, comunicare la scienza partendo dai problemi, invece che dai risultati, mostrare un percorso duro e accidentato verso la possibilità di una soluzione, peraltro sempre provvisoria, è un modo più efficace di comunicare. Non lasciamolo tutto alle pseudo-scienze.
L’altro motivo per cui quello di snocciolare solo i risultati è un modo poco valido di comunicare la scienza è che esso ne travisa la vera essenza. La scienza non è un insieme di ricette: è un metodo per capire il mondo, e le faremmo un servizio migliore — oltre a rendere, come ho già detto, le cose molto più interessanti — se raccontassimo il metodo, oltre ai risultati. Se cercassimo di comunicare non soltanto quello che abbiamo capito, ma come abbiamo fatto a capirlo — come abbiamo saputo cosa c’è in quella galassia lontana lontana. Fornire alle persone gli strumenti intellettuali per farsi un’idea della realtà il più possibile basata sull’evidenza dei fatti è probabilmente una delle cose più importanti che può darci la scienza, al di là dei progressi o delle conquiste tecnologiche. E nel riportare l’attenzione sulla problematicità della conoscenza, sul senso critico che si forma attraverso la pratica della scienza, c’è qualcosa che, forse, potrebbe convincere anche gli intellettuali di estrazione umanistica a guardare con meno sussiego al lavoro di noi scienziati, che non siamo specialisti impegnati a disumanizzare l’uomo o a creare la prossima arma di distruzione di massa. Nei casi più alti, gli scienziati sono pensatori che hanno chiarito meglio il posto dell’uomo nell’ordine delle cose. La scienza non è una forma di sapere inferiore, di serie B, ma è cultura a tutti gli effetti.
Insomma, io sono convinto che uno dei modi che può aiutare a comunicare la scienza in maniera più vera e efficace sia mostrare come dietro tutta la conoscenza scientifica ci sia una componente emotiva potentissima, una sete di meraviglia; che gli scienziati non siano altro che persone che hanno conservato la curiosità che abbiamo tutti, in modo innato, quando veniamo al mondo. Gli scienziati sono cercatori di meraviglia.
Allora, tornando al punto di partenza, alla galassia lontana lontana e alla tensione tra la forza evocativa delle cose vaghe e la ricerca di precisione della scienza: io credo che ci sia una meraviglia che viene proprio dal vedere le cose così come sono, in modo chiaro. E c’è così tanta bellezza e stupore nel mondo naturale che, proprio come voleva Levi, non c’è bisogno di esagerare con gli aggettivi. Se io dico che ci sono più stelle nell’universo che granelli di sabbia in tutte le spiagge della terra, sto dicendo una cosa allo stesso tempo semplice, vera, e stupefacente. La storia della scienza ci offre miriadi di episodi, profondamente emozionanti, in cui il mondo rivela per la prima volta un aspetto rimasto fino a quel momento nascosto. Galileo guarda nel cannocchiale e vede per la prima volta cose che nessuno ha mai visto prima di lui: prende carta e penna e comunica ciò che ha visto, con asciuttezza e precisione. Quello che ne viene fuori, il Sidereus Nuncius, è un resoconto scientifico e però è anche una delle cose più emozionanti che siano mai state scritte: è il racconto di un uomo che vede le cose in modo nuovo, e sa di essere il primo a farlo. Se volessimo usare un’immagine della cultura pop, potremmo dire che quel momento è un momento simile alla nascita di un supereroe dei fumetti: Galileo scopre di avere la super-vista. C’è dramma, c’è bellezza, c’è stupore, c’è tutto.
La scienza ci ha fatto vedere le cose in modo più articolato, più ricco, più connesso, più profondo, di quanto abbiano mai fatto i miti e le leggende più fantastiche. Ci ha trasmesso lo stupore che nasce dal cambiamento del punto di vista, dall’andare al di là delle apparenze immediate e del senso comune. Ci ha detto che il tempo scorre in modo diverso a seconda della velocità di chi lo misura, che la materia curva lo spazio, che l’universo si espande, che esistono galassie così lontane che la loro luce impiega miliardi di anni per raggiungerci. Ma soprattutto ci ha dato i mezzi per stabilire quanto possiamo fidarci delle storie che costruiamo sul mondo.
Per finire: a me sembra naturale che uno che fa l’astrofisico abbia anche voglia di comunicare quello che sa, di raccontare l’universo. Come diceva un grandissimo divulgatore, Carl Sagan: «Se sei innamorato vuoi che lo sappiano tutti». Essere un anfibio, vivere a cavallo tra due mondi, crea una tensione, una difficoltà, ma ha però un grande vantaggio: quello di comunicare una passione che si vive in prima persona. Alla fine, forse, il modo migliore per raccontare cose che sono fuori dall’esperienza immediata — spazi e tempi immensi o piccolissimi, difficili da comprendere e interiorizzare anche per chi queste cose le studia per mestiere — concetti e esperienze che a molti possono sembrare irrimediabilmente disumani o distanti, è proprio quello di mostrare con l’esempio diretto come l’impresa di tentare di capirli ci coinvolga personalmente, completamente, fino a cambiare il nostro modo di vedere e sentire le cose. Insomma, mostrare come fare scienza sia un modo molto umano — forse addirittura uno dei modi più genuinamente umani che esistano — di stare al mondo.