Dopo la sentenza dell’Aquila
Ho passato buona parte delle ultime ventiquattr’ore cercando di mettere a fuoco una valutazione equilibrata sulla questione della condanna per omicidio colposo inflitta ai membri della commissione grandi rischi. Ho letto molte cose degne di attenzione (per una rassegna minima, limitata a cose reperibili in rete: Marco Cattaneo, Daniela Ovadia, Emanuele Menietti, Leonardo Tondelli, Anna Meldolesi, Silvia Bencivelli, Nicola Nosengo; per uno sguardo dall’estero: Scientific American, New York Times, oltre a un articolo lungo su Nature di qualche tempo fa, utile per avere sott’occhio un riassunto della vicenda). Sono commenti e analisi che illuminano diversi aspetti del problema, in modo non necessariamente convergente, ed è giusto che sia così, dal momento che su una questione come questa è bene non avere posizioni semplicistiche.
Senza entrare nel merito della sentenza, di cui peraltro al momento non si conoscono le motivazioni, che quadro viene fuori? Quello di un paese in cui manca una pur minima formazione scientifica di base, in cui un’opinione pubblica educata al principio di autorità e alla consultazione di oracoli pretende dagli scienziati ricette certe, anche dove non ci sono, e in mancanza di queste si affida al primo ciarlatano di passaggio, una risposta qualunque basta che sia chiara. In cui spesso gli scienziati non sanno o non vogliono comunicare col pubblico, e si fanno tirare con leggerezza dentro meccanismi che poi non sono in grado di gestire. In cui l’informazione rinuncia al ruolo di analisi, di critica e di approfondimento per prestarsi a letture superficiali, inseguendo risposte binarie, o sì o no, o di qua o di là. In cui la classe politica ha rinunciato al compito di indicare strade serie e di lungo termine per la soluzione dei problemi, in cui le decisioni vengono prese sull’onda delle emergenze, nulla è pianificato, e i rischi vengono sottovalutati o ignorati fino a quando non è troppo tardi. Infine, un paese in cui, una volta che la situazione sia ormai ampiamente compromessa e ingovernabile, si ricorre alla magistratura per assegnare colpe e responsabilità, non solo sul piano giudiziario, come sarebbe normale, ma anche sul piano politico e morale. Insomma, da qualunque angolo lo si guardi, il quadro di un paese spacciato.
Tutto questo non lo scopriamo con la sentenza dell’Aquila, certo. Si tratta di storture, errori e patologie che si sono accumulate per anni. Nel caso specifico, quello che fa più male è pensare che la scienza ormai ci darebbe tutti gli strumenti per gestire il rischio e convivere con l’ineliminabile incertezza della natura. Ho vissuto a lungo in California, e quello è stato l’unico periodo della mia vita in cui ho partecipato a regolari esercitazioni antisismiche. Non in Italia, dove pure vivo in una zona sismica, come la maggioranza dei miei connazionali. Sia in California, che in Giappone, due paesi con problemi geologici molto simili ai nostri, le mappe sismiche vengono prese molto sul serio, le costruzioni reggono, e agli scienziati si dà retta sempre, non li si va a cercare quando la terra inizia a tremare, perché a quel punto è già tardi. E nessun archimede pitagorico viene beatificato dai mezzi di informazione se millanta di aver inventato una scatoletta che prevede i terremoti.
Si fa notare da più parti – ed è superfluo, per quanto mi riguarda – che quello dell’Aquila non è stato un processo contro l’incapacità di prevedere i terremoti, né contro la scienza. Ma non si può neanche fare finta che questa sentenza non cambi nulla nella percezione pubblica del ruolo degli esperti, che non dia argomenti alle schiere sempre più folte e aggressive dei complottisti, che non rafforzi pericolosi equivoci su quello che la scienza può e non può fare, che non apra un varco ancora più ampio tra scienziati costretti sulla difensiva e cittadini già poco avvezzi al pensiero razionale – quasi mai per colpa o scelta loro, sia chiaro. Un paese vulnerabile e arretrato come il nostro avrebbe bisogno dell’esatto contrario, di ricostruire dalle fondamenta, assieme al suo disastrato territorio, anche l’educazione al ragionamento, e un vero dialogo tra scienza, politica e società.