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  • Martedì 14 ottobre 2025

In Italia non c’è un modo per accedere al suicidio assistito, se sei paralizzata dal collo in giù

Non si è ancora trovata una soluzione al caso di Libera, che avrebbe diritto a morire con un farmaco ma non può

I giudici della Corte costituzionale durante un'udienza pubblica (ANSA/GIUSEPPE LAMI)
I giudici della Corte costituzionale durante un'udienza pubblica (ANSA/GIUSEPPE LAMI)
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Il ministero della Salute, l’Istituto superiore di sanità e il Consiglio superiore di sanità hanno detto che attualmente in Italia non esistono strumenti per permettere a una donna paralizzata dal collo in giù di somministrarsi autonomamente un farmaco letale per morire: significa insomma che per questa persona non esiste un modo per ricorrere al suicidio assistito. A chiederlo era stato il tribunale di Firenze che sta valutando il caso di “Libera”, nome di fantasia attribuito (per ragioni di riservatezza) a una 55enne toscana affetta da una forma avanzata di sclerosi multipla e quasi completamente paralizzata, che ha chiesto di morire col suicidio assistito. Il suo caso è diventato noto negli ultimi mesi ed è finito anche davanti alla Corte costituzionale.

A Libera è stato accordato il suicidio assistito, cioè è stato riconosciuto che avrebbe i requisiti per accedere alla pratica: nei fatti però non può, perché dovrebbe materialmente somministrarsi da sola un farmaco. Aveva chiesto se potesse farlo un medico o un’altra persona al posto suo, e con la sua autorizzazione, ma le era stato negato. A quel punto il tribunale ha interpellato gli organi competenti per capire se ci fosse uno strumento che permettesse a Libera di farlo da sola: per esempio attraverso gli occhi, un comando vocale o altri modi che non comportassero movimenti fisici. Il parere redatto da ministero, Istituto superiore di sanità e Consiglio superiore di sanità dice che non è possibile.

La Corte Costituzionale era stata chiamata in causa dal tribunale di Firenze quando Libera aveva chiesto di farsi somministrare il farmaco da un’altra persona. Questa però è la pratica conosciuta come “eutanasia”, che in Italia è illegale: chiunque aiuti Libera a morire rischia da sei a quindici anni di carcere per averle somministrato un farmaco letale, sarebbe considerato un omicidio anche se è stata la donna a chiederlo.

Il caso di Libera è stato il primo in cui la Corte costituzionale si è espressa sul suicidio assistito, e per questo è ritenuto molto importante anche oltre la sua situazione personale. Su Libera la Corte aveva ribadito il divieto di eutanasia, motivandolo però col fatto che in quel caso specifico non erano state fatte sufficienti verifiche sull’esistenza o meno di strumenti con cui lei avrebbe potuto somministrarsi il farmaco da sola: in quel caso la pratica sarebbe stata quella del suicidio assistito, che invece è legale.

Ora che è stato chiarito che Libera non può somministrarsi il farmaco da sola, lei ha chiesto di nuovo che le venga permesso di ricorrere all’eutanasia, ribadendo che la sua condizione la costringe a sofferenze molto intense a cui vorrebbe porre fine: la donna aveva chiesto di morire la prima volta a marzo del 2024, quasi un anno e mezzo fa.

Il caso è seguito dall’associazione Luca Coscioni, che ha diffuso le informazioni su questi ultimi sviluppi. Negli ultimi anni Marco Cappato, attivista e tesoriere dell’associazione, ha compiuto diversi atti di disobbedienza civile sul fine vita con l’obiettivo di ottenere maggiore libertà di scelta per le persone: ora ha fatto capire di essere intenzionato a compierne un altro, in questo caso con l’obiettivo di portare alla legalizzazione dell’eutanasia.

– Leggi anche: Quante persone sono morte col suicidio assistito in Italia, e come

La sclerosi multipla, di cui è affetta Libera, è una malattia neurologica che colpisce il sistema nervoso centrale e che in Italia è stata all’origine di altre richieste di suicidio assistito.

Libera ha tutti i requisiti per accedere a questa pratica, per come sono stati stabiliti dalla Corte costituzionale, che nel 2019 la rese legale: è in grado di prendere decisioni libere e consapevoli; è affetta da una patologia irreversibile che è fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ritiene intollerabili (un criterio estremamente soggettivo e individuale); ed è «tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale».

Quest’ultimo requisito è il più complicato da definire e inizialmente l’azienda sanitaria locale le aveva negato il ricorso al suicidio assistito interpretandolo in senso stretto (respiratori artificiali, ventilatori meccanici). Poi, dopo un’altra sentenza della Corte costituzionale che aveva esteso la definizione anche ad altre condizioni, aveva ricevuto l’autorizzazione.

La Corte aveva detto che “trattamenti di sostegno vitale” possono essere anche terapie farmacologiche senza cui il paziente morirebbe, o anche alcune operazioni compiute da sanitari o caregiver, come l’evacuazione manuale dell’intestino o l’inserimento di cateteri urinari. La Corte ritiene che si possa ritenere un paziente dotato del requisito del trattamento di sostegno vitale anche se lo ha rifiutato, dato che ha la libertà di farlo.

Nel caso di Libera il requisito del trattamento di sostegno vitale è stato riconosciuto proprio nel fatto che aveva bisogno costante dell’assistenza di un caregiver, oltre che perché aveva rifiutato un sistema di nutrizione artificiale.

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Ottenuta l’autorizzazione a procedere col suicidio assistito, dopo un anno dalla sua richiesta iniziale e varie vicissitudini legali (raccontate qui), l’azienda sanitaria locale di Libera aveva rifiutato di procedere con la pratica sostenendo che non esistessero dispositivi in grado di permetterle di somministrarsi il farmaco da sola. A quel punto la donna aveva fatto ricorso al tribunale di Firenze, che aveva sollevato una questione di legittimità alla Corte costituzionale.