Negli Stati Uniti i musicisti faticano a riempire i palazzetti

Alcuni cantanti e band hanno dovuto annullare i tour per evitare gli spalti semivuoti: c'entrano l'aumento dei costi dei biglietti e le condizioni imposte dalle società che li organizzano

(Unsplash)
(Unsplash)
Caricamento player

I Black Keys, un gruppo rock statunitense che ebbe un periodo di grande popolarità alcuni anni fa, avrebbero dovuto passare il prossimo autunno a suonare in diverse città degli Stati Uniti. Alla fine però hanno deciso di cancellare il tour: la decisione era stata annunciata a giugno dal batterista Patrick Carney con un post su X (Twitter), poi cancellato, in cui diceva che la band si era «fatta fregare». Carney criticava implicitamente l’operato della Full Stop Management, la società che rappresentava i Black Keys fino a qualche settimana fa e che, a suo dire, avrebbe impostato il tour in maniera disastrosa, organizzando i concerti in palazzetti troppo grandi da riempire e proponendo i biglietti a prezzi più alti rispetto al solito, un aspetto che negli scorsi mesi era stato evidenziato da molti fan della band.

Dopo l’annullamento del tour i Black Keys si sono affidati a una nuova società di rappresentanza, la Red Light Management: nei prossimi mesi comunicheranno le date di una nuova serie di concerti negli Stati Uniti, che saranno organizzati in posti più piccoli e facili da riempire.

I Black Keys non sono i primi ad aver dovuto annullare un tour quest’anno. A maggio aveva fatto lo stesso anche la popstar statunitense Jennifer Lopez, annunciando la cancellazione di tutti i concerti collegati al suo ultimo album This Is Me… Now, uscito a febbraio dopo 10 anni di inattività discografica.

– Leggi anche: Non è stato l’anno che Jennifer Lopez sperava

Negli ultimi mesi vari musicisti e gruppi hanno avuto difficoltà a vendere i biglietti per i loro concerti. Uno degli esempi è quello di Porter Robinson, un dj molto popolare negli Stati Uniti: in alcuni palazzetti in cui dovrà esibirsi a settembre, come per esempio l’Addition Financial Arena di Orlando, in Florida, ci sono interi spalti completamente liberi. Stanno avendo lo stesso problema anche la cantante pop britannica Charli XCX e il collega australiano Troye Sivan, che a settembre inizieranno un tour congiunto negli Stati Uniti.

Parlando dei recenti insuccessi di questi e altri tour, il giornalista di Stereogum Zach Schonfeld ha scritto che questa sarà «l’estate dei tour nei palazzetti misteriosamente falliti». Per comprendere le ragioni di queste difficoltà, Schonfeld ha intervistato diversi addetti ai lavori che si occupano più o meno direttamente di concerti.

Uno di questi è Jordan Kurland, manager musicale che rappresenta band statunitensi di discreta fama come New Pornographers e Death Cab For Cutie. Parlando dell’annullamento del tour dei Black Keys, Kurland ha detto che la loro è stata una scelta comprensibile, dato che confermare il tour avrebbe significato suonare in palazzetti semivuoti, creando un’atmosfera poco piacevole sia per i fan che per la stessa band.

Kurland ha aggiunto che uno dei motivi che portano ad annullare il concerto è il modo in cui funziona Live Nation Entertainment, la società che aveva organizzato il tour dei Black Keys, e che viene accusata da anni di avere creato una situazione di sostanziale monopolio nel settore degli eventi dal vivo, imponendo prezzi sempre più alti per i concerti grazie al controllo di Ticketmaster, la principale società di vendita di biglietti online al mondo.

Live Nation Entertainment tende a privilegiare i gestori di palazzetti con cui ha stipulato degli accordi di collaborazione, che nella maggior parte dei casi consentono alla società di guadagnare su tutta una serie di attività accessorie che ha in gestione, come i parcheggi e la vendita del cibo. Di conseguenza, ha spiegato Kurland, è probabile che ai manager dei Black Keys siano stati imposti dei palazzetti troppo grandi da riempire: «hanno fatto pressioni? Non ne ho idea. È stato più redditizio scegliere questi palazzetti rispetto a strutture più piccole? Ne sono sicuro», ha detto.

Un manager musicale che ha parlato con Schonfeld a condizione di rimanere anonimo ha raccontato che un’altra causa che porta al fallimento di molti tour è la scarsa competenza di molte società che rappresentano musicisti e gruppi, che spesso danno un’importanza eccessiva ai numeri dello streaming. «I dati sono molto confusi», ha detto. «Puoi avere milioni e milioni di streaming, ma ciò non significa che si trasformeranno automaticamente in biglietti».

Il manager ha citato a questo proposito l’esempio di Porter Robinson, che pur avendo più di 2 milioni di ascoltatori mensili su Spotify sta avendo difficoltà a riempire anfiteatri e palazzetti da 10mila posti, nonostante i biglietti per i suoi concerti siano acquistabili a prezzi bassissimi nel mercato secondario. Finora Robinson si era esibito perlopiù insieme ad altri dj di fama internazionale nei grandi festival di musica elettronica, che richiamano un pubblico composto principalmente da appassionati del genere e che sono abituati ad ascoltare molti set nella stessa serata: è probabile che la musica che propone sia poco adatta per un tour da solista.

Secondo Eric Renner Brown, redattore della rivista musicale statunitense Billboard, un altro aspetto da tenere in considerazione è che l’euforia per i concerti che aveva caratterizzato il periodo successivo alla fine della pandemia da coronavirus si è ormai esaurita. «Nel 2022 c’erano persone davvero entusiaste di tornare ai concerti dopo due anni. Forse pensavano che non avrebbero potuto vedere la loro band preferita, come per esempio i Black Keys, per molti anni». Quell’improvviso aumento delle vendite, ha spiegato Brown, potrebbe aver dato ai manager di musicisti e gruppi «la percezione che la domanda fosse un po’ più alta rispetto a quella effettiva».

Un altro problema che negli ultimi due anni ha portato all’annullamento di diversi tour ha a che fare con i costi che si devono sostenere per poterli organizzare, che sono diventati insostenibili soprattutto per i gruppi e i musicisti con un seguito più piccolo. Tra il costo degli strumenti da affittare, dei materiali e dei tecnici, anche suonare nel proprio paese è diventato più costoso e si rischia di andare in perdita, ma sono soprattutto le band americane che devono venire in Europa e quelle europee che devono andare negli Stati Uniti che spesso scelgono di cancellare i tour.

Nel 2022 per esempio gli Animal Collective, un gruppo statunitense che fa rock sperimentale molto popolare tra gli amanti del genere, annullarono il loro tour in Europa dopo essersi resi conto che, anche nel caso in cui fosse andato tutto per il meglio, non sarebbero riusciti a rientrare nelle spese. «Tutto è diventato ridicolmente costoso», ha detto a Schonfeld un altro manager che lavora con musicisti di fama internazionale e che ha chiesto di restare anonimo. «Un singolo pullman per un tour di sei settimane può costare 100mila dollari».

Il manager ha ricordato anche come, dopo la fine della pandemia, migliaia di band e cantanti tornarono in tour nello stesso periodo, finendo per competere tra loro per i locali, i palazzetti e gli stadi in cui suonare, e facendo aumentare moltissimo la domanda per le attrezzature e il loro costo. «Non c’era abbastanza attrezzatura per coprire le richieste. Molte band hanno dovuto cancellare i tour perché non avevano il materiale, o semplicemente non potevano permetterselo».

Di recente si è parlato moltissimo anche di un altro problema che riguarda le band europee che vogliono andare in tournée negli Stati Uniti. Ad aprile l’USCIS (United States Citizenship and Immigration Services), l’agenzia federale statunitense che si occupa di gestire il sistema di naturalizzazione e immigrazione del paese, ha aumentato del 250 per cento il costo dei visti che musicisti e band devono ottenere per potere andare in tournée negli Stati Uniti.

La decisione sta avendo delle conseguenze piuttosto concrete sulla vita lavorativa di migliaia di musicisti e gruppi emergenti non statunitensi, che a causa delle spese insostenibili rischiano di rimanere esclusi da un mercato enorme e fondamentale come quello degli Stati Uniti, il primo paese al mondo per il settore dei concerti.

I visti che musicisti e gruppi possono richiedere per ottenere il permesso di suonare negli Stati Uniti sono due: il P-3 e l’O-1B. Il primo consente di rimanere negli Stati Uniti per motivi professionali (e quindi soprattutto nel caso dei concerti) per un periodo di tempo non superiore a un anno, mentre il secondo può essere ottenuto da chi dimostri di avere delle «capacità straordinarie» nel campo delle arti (come per l’appunto la musica) e ha una durata massima di tre anni.

– Leggi anche: Per musicisti e band non americane suonare negli Stati Uniti è diventato molto più costoso

Fino a marzo il costo di questi visti era di 460 dollari, ma con l’aumento deciso dall’USCIS è salito rispettivamente a 1.615 dollari (per il P-3) e 1.655 (per l’O-1B), circa 1.500 euro. Concretamente significa che, per ottenere un visto P-3, quello più diffuso, oggi una band con una formazione standard di quattro membri (chitarra, basso, batteria e voce) deve pagare più di 6mila euro: fino a due mesi fa ne pagava 1.720.

Gareth Paisey, cantante della band indie rock gallese Los Campesinos!, ha detto ad Associated Press che per organizzare la tournée estiva del gruppo negli Stati Uniti, che è iniziata la scorsa settimana, ha dovuto muoversi con largo anticipo. Si è assicurato di ottenere i visti per tutti e sette i componenti della band prima del primo aprile, pagando così una cifra complessiva di 3.220 dollari (se li avesse ottenuti dopo quella data, il costo sarebbe salito a 11.305 dollari). Paisey ha anche detto che, la prossima volta che il gruppo dovrà ottenere un visto per gli Stati Uniti, cercherà di organizzare un tour più lungo e con molte più date, assicurandosi così di poter coprire i costi.

Oltre ai costi, un altro problema che i musicisti devono risolvere per potere ottenere un visto è l’estrema meticolosità della burocrazia statunitense. Paisey ha raccontato che il processo di candidatura richiede di presentare una documentazione imponente, che tra le altre cose comprende un itinerario degli spostamenti della band e una serie di “prove supplementari”, come estratti di articoli di giornale, necessari per dimostrare alle autorità che esaminano le domande di visto lo status di “musicisti in attività”, e le raccomandazioni scritte di persone ritenute degne di nota, come produttori discografici e musicisti più famosi. «Non è giusto aspettarsi che le persone capaci di scrivere canzoni siano altrettanto capaci di compilare una domanda di visto di 20 pagine», ha detto Paisey commentando la farraginosità delle procedure burocratiche dell’USCIS.

Schonfeld ha sottolineato come, attualmente, i pochi tour di successo sono quelli che puntano su elementi che possano entusiasmare i fan. Per esempio, enfatizzare all’estremo la reunion di una particolare band può portare a ottimi risultati. Uno dei casi più recenti è stato quello del gruppo pop punk californiano dei Blink 182, che lo scorso anno si sono riuniti dopo molti anni nella loro formazione “classica” (Mark Hoppus alla voce e al basso, Tom DeLonge alla chitarra e Travis Barker alla batteria), ottenendo degli ottimi riscontri da parte del pubblico.

Un’altra strategia che spesso porta a buoni risultati è quella del “farewell tour”, il tour d’addio: negli ultimi anni ne sono stati organizzati diversi, come quelli di Elton John e degli Eagles. Anche la nostalgia è un ottimo modo di riempire un palazzetto. Gli esempi sono molti, ma uno dei più recenti è quello del gruppo pop punk statunitense dei Green Day, che sono riusciti a riempire palazzetti e stadi (come l’Ippodromo di Milano) grazie a scalette basate quasi interamente sui loro due dischi più famosi, Dookie (1994) e American Idiot (2004).

– Leggi anche: Il business dei tour di addio