Cercare lavoro è diventato un lavoro

Le fasi delle selezioni sono sempre più lunghe e impegnative, e contemporaneamente trovare personale è un processo sempre più complesso anche per le aziende

(La La Land)
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Secondo un sondaggio di Linkedin, la piattaforma più usata nel mondo per la ricerca di lavoro, alla fine del 2023 in Italia più della metà dei professionisti intervistati definiva frustrante l’attività di trovare un nuovo lavoro. In effetti la battuta secondo cui cercare lavoro sia a tutti gli effetti «un secondo lavoro» è diventata un po’ un tormentone tra chi è impiegato nel mondo delle aziende private, soprattutto quelle più “moderne” e che si trovano nelle grandi città, dove l’offerta è continua e la competizione è maggiore.

Inviare una candidatura richiede tempo e impegno maggiori rispetto a quelli di mandare semplicemente un curriculum; quando va bene poi il processo di selezione si struttura quasi sempre in almeno due o tre colloqui, spesso anche di più, e non è raro sentir parlare di test attitudinali o di logica, video-curriculum, “compiti a casa” e colloqui di gruppo. Nella maggior parte dei casi però quello che succede è che nessuno risponde e il tempo speso per la candidatura diventa tempo perso o porta a un’attesa di mesi. Per certi versi sono dinamiche che esistono da sempre, per altri invece la situazione negli ultimi anni si è fatta effettivamente più complessa, e non solo per i lavoratori.

Secondo Manuela Vergano, direttrice della multinazionale Hays, che si occupa di ricerca e selezione del personale, «la complessità di questo settore sta decisamente aumentando: in gran parte è per via delle tecnologie, che hanno velocizzato e facilitato la possibilità di cercare e mettersi in contatto con i candidati, dall’altro hanno contribuito a cambiare il mercato e introdotto nuove dinamiche che richiedono un approccio più strategico e accurato nella gestione delle risorse umane».

Tra queste tecnologie, in Italia come in molti altri paesi del mondo, la più usata è Linkedin, che funziona come un social network per mettere in contatto le persone a scopo professionale. Lo si può usare gratuitamente ma con delle limitazioni, oppure si può pagare per la versione premium, che permette tra le altre cose di mandare messaggi privati anche a persone con cui non si è già in contatto. «Non solo cercare lavoro è un secondo lavoro, ma comincia anche a costarmi parecchio», commenta Francesco (il nome è di fantasia), che ha 33 anni e lavora in un’azienda nel settore della moda di lusso ma da alcuni mesi vorrebbe cambiare lavoro, e paga circa 40 euro al mese per essere utente premium.

Linkedin non pubblica dati sul numero dei suoi abbonati, ma nonostante il costo significativo e alcuni dubbi sul fatto che la versione a pagamento sia effettivamente determinante per avere maggiori opportunità, tra chi cerca attivamente di cambiare la versione premium è molto usata. Lo stesso vale per le aziende, che la usano spesso per dare maggiore visibilità ai propri annunci di lavoro, ma anche agli head hunter (professionisti o agenzie che si occupano di reclutare possibili candidati per le aziende) per contattare direttamente persone interessanti e proporre loro un colloquio.

Secondo i dati raccolti da LinkedIn, alla fine del 2023 circa 6 italiani su 10 tra gli intervistati stavano «valutando nuove sfide professionali», e se nel 2022 si registravano in media 5 candidati per un’offerta di lavoro, a metà del 2023 questo numero è salito a 8. La competizione quindi è aumentata, e c’entrano in parte la pandemia e i lockdown del 2020 e del 2021, che hanno portato molte persone a mettere in dubbio alcuni aspetti della propria vita lavorativa e a cercare posti di lavoro che permettano più flessibilità, più soldi e in generale una maggiore attenzione alla qualità della vita dei loro dipendenti. Sono stati insomma anni di grande “turnover”, come si dice nel mondo aziendale, i cui effetti si vedono ancora adesso.

Quando ci si candida per una posizione trovata su LinkedIn possono succedere due cose: o si compila la candidatura direttamente sulla piattaforma, con i propri dati, un’indicazione del compenso cui si ambisce e il curriculum, oppure, spesso, si viene rimandati a un modulo dell’azienda la cui compilazione può richiedere anche 15 o 20 minuti. A volte oltre alle informazioni sulle esperienze passate viene chiesta anche una lettera di motivazione e, in alcuni casi, una lettera di raccomandazione di passati datori di lavoro o di altre persone titolate. Qualcuno chiede anche un video di presentazione di pochi minuti, per farsi un’idea della disinvoltura del candidato nel parlare di sé di fronte a una telecamera.

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La percezione tra i candidati è che questa prima fase sia stata resa più articolata e impegnativa per disincentivare i meno motivati, e permettere alle aziende di fare già una prima scrematura e non dover gestire più curriculum del dovuto. Non è necessariamente così: Fabrizio Rotondi, country manager di Workday, una piattaforma che tra le altre cose viene usata dalle aziende per gestire le offerte di lavoro e la raccolta di candidature, spiega che «nelle aziende vedo il contrario: non vogliono puntare solo sulle persone che hanno già una motivazione alta, creando una barriera d’ingresso, perché il rischio è di perdersi candidati validi ma meno motivati. La priorità non è ridurre il tempo di recruiting, anzi, l’obiettivo delle aziende è raccogliere più candidature possibili». Il motivo per cui la compilazione della candidatura è diventata più lunga è che per le aziende è preferibile riceverle in un modo che siano più facilmente consultabili e confrontabili, ordinate in un database anziché in tanti curriculum sparsi.

Ma diversi dipendenti delle risorse umane sentiti dal Post spiegano che quasi mai la ricerca per un nuovo dipendente si ferma alla pubblicazione dell’offerta di lavoro online, quasi sempre ci si muove anche in modo diretto, provando a contattare su LinkedIn persone che sembrano adatte. Un tempo questo processo richiedeva molto tempo, ora LinkedIn permette alle aziende o agli head hunter con profilo premium di mandare lo stesso messaggio a una lista anche di cento persone.

È un’opportunità per le aziende, ma non è sempre ideale per le persone contattate, che raccontano che capita spesso loro di ricevere proposte, rispondere positivamente e poi non avere più notizie. Vale anche per quando rispondono agli annunci: le persone intervistate dal Post che negli ultimi mesi hanno passato diverso tempo a cercare lavoro e fare colloqui dicono che mediamente solo il 20/30 per cento delle loro candidature le porta a essere ricontattate dall’azienda o da un head hunter. Lo confermano anche i sondaggi pubblicati da LinkedIn: il 43 per cento dei professionisti italiani intervistati dice di ottenere raramente una risposta.

Questo succede principalmente perché all’interno delle aziende si dedica comprensibilmente maggiore attenzione al processo di reclutamento e raccolta di candidature che non alla gestione del rapporto con le persone scartate. Ma non solo: c’entra anche il fatto che, soprattutto tra gli head hunter, è diffusa la pratica di pubblicare offerte di lavoro generiche che permettano di raccogliere curriculum e informazioni su eventuali candidati da accumulare in caso di futuro bisogno, o il fatto che alcune aziende sanno che di certe figure hanno ciclicamente sempre bisogno e quindi tengono la posizione aperta anche se non stanno cercando attivamente.

Le candidature che vanno “a buon fine” danno poi inizio a un processo di selezione che prevede di solito almeno tre colloqui. Il primo è in genere una telefonata o videochiamata di pochi minuti in cui i reclutatori cercano di capire un po’ meglio le aspettative dei candidati. Qui si parla per la prima volta del compenso economico che il candidato si aspetta, che raramente viene esplicitato nell’offerta di lavoro ma è una grossa discriminante. Molte candidature e molti di questi primi contatti potrebbero infatti essere evitati rendendo pubblico il tipo di compenso economico previsto (la ral, retribuzione annua lorda): è una cosa che in alcuni paesi è stata sdoganata, ma in Italia si vede ancora molto poco. Un po’ perché l’azienda preferisce riservarsi la possibilità di abbassare il proprio compenso iniziale nel caso di un candidato valido ma che potrebbe pagare di meno, un po’ perché culturalmente è ancora considerata una cosa che semplicemente non si fa. Nel 2023 comunque l’Unione Europea ha approvato una legge che prevede che entro il giugno del 2026 in tutti gli stati membri si debba inserire la ral negli annunci di lavoro.

Addirittura nel caso delle agenzie di head hunter gli annunci di lavoro vengono spesso pubblicati senza riferimento al nome dell’azienda, ma solo al tipo di posizione richiesta. «Prima si poteva essere più misteriosi», dice Manuela Vergano, «le informazioni erano diluite, oggi sta diventando fondamentale essere molto diretti e precisi». Una cosa che è cambiata infatti è che «chi cerca lavoro ha molti più strumenti, è più consapevole e con molte più informazioni: vediamo che arriva già con le idee molto chiare, sulla motivazione ma anche sulle aziende e sui ruoli, ed è quindi anche più esigente», dice sempre Vergano.

È una sensazione che c’è anche tra chi cerca lavoro, che ci sia più circolazione di informazioni su come usare LinkedIn, come compilare una candidatura, come prepararsi a un colloquio, ma anche su come si lavora all’interno di una certa azienda e quanto paga. Da alcuni anni Glassdoor, un sito che permette di valutare anonimamente le aziende e far sapere gli stipendi di chi ci lavora, è diventato molto frequentato anche in Italia.

Se dopo il contatto iniziale le aspettative di entrambe le parti combaciano, si passa poi ai colloqui veri e propri, che negli ultimi anni hanno cominciato a essere più spesso in videochiamata, cosa che rende più comodo anche al candidato farli senza essere notato dai propri colleghi o capi, magari mentre lavora da casa. Sono solitamente almeno due: uno con il responsabile della posizione, quindi il futuro capo del candidato, e uno con la stessa persona e un’altra, che può essere il suo capo o un altro manager che ci lavora a stretto contatto. Di tutte le persone che si sono candidate (che vanno dalle decine alle centinaia in base al tipo di posizione) solitamente ne arrivano a questo punto non più di 5 o 6, ma dipende molto da caso a caso.

A volte in questi colloqui viene chiesto al candidato di risolvere degli “esercizi” per dimostrare delle competenze tecniche specifiche. Può succedere anche che venga chiesto di preparare a casa una presentazione per il giorno del colloquio, che preveda un’analisi di un caso e una proposta di soluzione. Nelle aziende più ambite, magari in consulenza o nel mondo delle banche e della finanza, i colloqui sono mediamente di più, anche cinque, sei o sette, e prevedono l’incontro con altri manager. In generale, nella maggior parte delle aziende che considerano le risorse umane un aspetto strategico viene dato per scontato che nei periodi di assunzione i manager dedichino buona parte del loro tempo ai colloqui con i candidati.

Un elemento che ha ricevuto maggiore attenzione dopo la pandemia e che ha reso i processi di selezione più lunghi, articolati e complessi è quello che genericamente viene identificato col termine “soft skills”: le aziende sono cioè più interessate di un tempo a valutare i candidati in base a tutte quelle competenze che non sono strettamente tecniche e specialistiche, ma che determinano la sua attitudine psicosociale all’interno di un contesto di lavoro. Questa cosa però non è sempre facile da fare e richiede più tempo.

Francesca Vera Magrini, responsabile delle assunzioni di Bending Spoons, una delle aziende italiane più rinomate per il suo approccio alle risorse umane, spiega per esempio che «visto che nel nostro settore le skills specifiche “tecniche” diventano velocemente desuete, ci interessa soprattutto valutare se una persona ha l’attitudine giusta, la sua motivazione per imparare velocemente, fino a che punto è ambiziosa per migliorarsi, se ha i giusti valori, e fino a che punto è capace di risolvere problemi complessi con un approccio logico e razionale». Magrini spiega anche che le risorse umane di Bending Spoons non hanno scadenze specifiche quando si tratta di assumere qualcuno, «perché il nostro scopo è quello di trovare le migliori persone per l’azienda nel lungo periodo e non quello di raggiungere obiettivi di breve periodo».

Ma non vale solo per le aziende: secondo Vergano «possiamo dire che i candidati sono diventati più esigenti, ad esempio il work-life balance [l’equilibrio tra lavoro e vita privata] è prepotentemente messo al centro da tutti, non solo dai più giovani. Questo rende ancora più complesso attrarre e trattenere le persone».

In generale, tra le aziende si è diffusa una maggiore consapevolezza del fatto che investire nelle risorse umane sia fondamentale per una crescita sana, sia per quanto riguarda la fase di assunzione di nuove persone, sia per tutto quello che viene dopo, e quindi la capacità dell’azienda di tenere più a lungo possibile le persone che ha formato. Si parla sempre più spesso di “employer branding”, e cioè della reputazione delle aziende come datori di lavoro, che è diventata sempre più importante per attrarre le persone più adatte e trattenerle poi una volta inserite e formate. «Prima c’era il mito della grande azienda, oggi si guarda molto al clima, alla qualità manageriale, e il processo di selezione è già un biglietto da visita per il candidato», dice Vergano.

Paradossalmente quindi quello che succede è che le aziende più strutturate da questo punto di vista non prevedono processi di selezione più snelli e veloci, ma al contrario più sofisticati e lunghi: oltre a Bending Spoons, che struttura di volta in volta i processi di selezione in base a quello che sta cercando e dispone di centinaia di test diversi da usare all’occorrenza, un esempio è Amazon, che per certe posizioni sottopone i candidati anche a sette colloqui, e a volte anche più di uno di seguito all’altro nello stesso giorno con un impegno di tempo di quattro o cinque ore.