I bonus per i lavoratori dipendenti non funzionano più

Secondo l'Ufficio parlamentare di bilancio l'inflazione degli ultimi tre anni ha annullato i vantaggi fiscali introdotti negli ultimi dieci anni, dagli 80 euro di Renzi in poi, rendendo il sistema fiscale più iniquo

Un cartello abbandonato durante una manifestazione della CGIL, il 15 dicembre 2023 a Roma (ANSA/Massimo Percossi)
Un cartello abbandonato durante una manifestazione della CGIL, il 15 dicembre 2023 a Roma (ANSA/Massimo Percossi)
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Tra le diverse conseguenze che l’inflazione ha avuto sull’economia italiana, la più rilevante è la riduzione del potere di acquisto di chi ha un reddito fisso, come i dipendenti: con i prezzi in aumento si sono potute comprare e fare sempre meno cose. Secondo l’ultimo rapporto dell’Ufficio parlamentare di bilancio, presentato mercoledì, l’inflazione ha avuto anche un’altra conseguenza sui redditi, cioè cancellare del tutto i vantaggi fiscali che erano stati assicurati ai lavoratori dipendenti negli ultimi dieci anni: a partire dal bonus da 80 euro introdotto dal governo di Matteo Renzi nel 2014 (e poi riformato nel 2020 e nel 2021), fino ad arrivare alla riduzione delle aliquote dell’imposta sulle persone fisiche (IRPEF) voluta dal governo di Giorgia Meloni a partire da quest’anno, che ha comportato una riduzione di 2 punti percentuali per i redditi più bassi.

Tramite un fenomeno che in economia si chiama fiscal drag (drenaggio fiscale), dopo dieci anni in cui i governi hanno rimaneggiato più volte il sistema fiscale con bonus e sconti peraltro costosissimi per lo Stato, i lavoratori dipendenti in realtà si trovano a pagare più tasse oggi che nel 2014. Il loro reddito disponibile, quindi, si è abbassato.

Il fiscal drag è una conseguenza dell’inflazione e si verifica nei sistemi fiscali cosiddetti “progressivi”, quelli per cui chi ha redditi più alti paga più imposte: è il caso del sistema italiano a scaglioni dell’IRPEF, per cui all’aumentare del reddito aumenta anche l’aliquota, ossia la percentuale che si applica per calcolare le imposte da pagare (è del 23 per cento per i primi 28mila euro di reddito, del 35 tra i 28 e i 50mila euro, e del 43 per cento oltre i 50mila).

Il fiscal drag in realtà trae origine da uno scenario positivo, che è il graduale aumento degli stipendi in risposta all’inflazione: quando il costo della vita cresce ci sono più incentivi a chiedere un aumento di stipendio per recuperare il potere d’acquisto perso, e anche i rinnovi contrattuali negoziati periodicamente tra sindacati e aziende prevedono solitamente aumenti più sostanziosi. La conseguenza è che cresce anche la base imponibile su cui si calcolano le imposte. Lo si nota anche dal gettito fiscale raccolto dallo Stato, che negli anni di alta inflazione è salito per effetto dell’aumento dei prezzi, tramite l’IVA, e dei redditi, tramite l’IRPEF.

L’Ufficio parlamentare di bilancio (UPB) ha calcolato che con tutte le misure degli ultimi dieci anni, tra bonus e ritocchi vari dell’IRPEF, i dipendenti hanno avuto complessivamente un vantaggio fiscale del 3 per cento. Vantaggio che è stato completamente annullato dall’effetto del fiscal drag, che ha ridotto i redditi disponibili del 3,6 per cento. Per fare qualche esempio: rispetto al 2014 oggi un lavoratore dipendente con 20mila euro di reddito annuale paga 319 euro in più di IRPEF all’anno, e uno con 100mila euro di reddito ne paga 1.020 in più.

C’è un ulteriore problema che riguarda chi ha redditi negli scaglioni medi, come quelli vicini ai 35mila euro. Il rischio per chi si trova in questa fascia è di perdere il bonus esistente sui contributi, introdotto dal governo di Mario Draghi e poi confermato e ampliato da quello di Giorgia Meloni.

È una misura nota anche come “taglio del cuneo fiscale” (il cuneo fiscale è la differenza tra quanto le aziende spendono per un dipendente e quanto effettivamente poi gli viene pagato come stipendio), e che produce effetti immediatamente visibili sulle buste paga dei dipendenti, il cui stipendio netto è aumentato di conseguenza. Di contro si sono ridotti i contributi pagati da questi lavoratori dipendenti agli istituti di previdenza e assistenza, l’INPS e l’INAIL, la cui differenza viene coperta dallo Stato.

Il problema è che chi ha guadagnato anche solo un euro oltre il proprio scaglione di riferimento vede ridursi il bonus (nel caso superi i 25mila euro) o deve rinunciarvi del tutto (se supera i 35mila), con una perdita che secondo i calcoli dell’UPB è di 150 euro annui quando si superano i 25mila euro e di circa 1.100 euro quando si superano i 35mila.

Benché secondo l’UPB la decontribuzione ha aiutato a compensare i redditi bassi dagli effetti del fiscal drag, ha però comportato una distorsione per i redditi “a cavallo” delle aliquote, contribuendo così a complicare e rendere più iniquo il sistema fiscale nel suo complesso. Tanto che secondo l’UPB si genera «una trappola della povertà» vicino alle due soglie di reddito: è quella situazione per cui non c’è alcun incentivo a guadagnare di più, perché il vantaggio di ogni euro aggiuntivo è più che compensato dalla perdita di benefici o dall’aumento delle imposte.

Può sembrare improbabile che ci si trovi a guadagnare un solo euro in più della soglia che dà accesso a un beneficio fiscale, ma in realtà l’economia si trova in un momento in cui gli stipendi devono gradualmente salire per adeguarsi al nuovo costo della vita. Essendo buona parte dei lavoratori dipendenti concentrati nelle fasce di reddito medie, un maggior dinamismo delle retribuzioni può portare ai casi limite più frequentemente del solito.

Il meccanismo generale dei bonus, dunque, non è più funzionale allo stato attuale del mondo del lavoro, anche se la politica continua a intervenire sul sistema fiscale in questo modo, visto che sono immediatamente percepibili dalle persone e quindi popolari, benché costosi.

Secondo l’UPB a lungo andare la decontribuzione può diventare un disincentivo all’aumento dei redditi, evidentemente controproducente per le società, e rendere più difficile per sindacati e imprese negoziare i nuovi rinnovi dei contratti. È comunque finanziata solo fino alla fine di quest’anno, ma se dovesse essere riconfermata o se dovesse diventare permanente, bisognerebbe dunque fare dei correttivi per evitare la perdita netta del beneficio da una fascia all’altra di reddito, per esempio introducendo una riduzione graduale.

Il problema è che così aumenterebbe la platea di beneficiari, e servirebbero più soldi per finanziare la misura; l’alternativa è distribuire la cifra stanziata finora, circa 11 miliardi, su una platea più ampia, riducendone l’impatto sui redditi che ne hanno beneficiato finora. Secondo il giornalista del Foglio Luciano Capone «il governo Meloni è vittima della sua misura di successo: non ha i soldi per migliorarla ampliandola e non vuole pagare il prezzo politico per migliorarla riducendola. Al massimo spera di confermarla».

Non è chiaro infatti se il governo riuscirà a farlo: a parole Meloni e il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti hanno sempre detto di volerla confermare. È però una misura molto costosa, come del resto tutti i bonus di questo tipo, e il governo si trova in un momento di grande difficoltà sui conti pubblici: non ci sono soldi e non sarà possibile fare un maggiore ricorso all’indebitamento a causa delle regole europee sui bilanci dello Stato, che sono appena tornate in vigore dopo la pandemia e che impongono un maggior rigore nella gestione della finanza pubblica.

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