Noi capitani

«Nella sua città natale, Thiès, Seydou Sarr, il capitano del film, ha avuto un’accoglienza da star. La proiezione era in uno spiazzo polveroso dove i suoi amici hanno portato decine di djembe, i tamburi a forma di calice ricoperti di pelle di capra originari di queste zone. L’attesa della proiezione si è trasformata in una grande festa di balli sfrenati. Decine di ragazze indossavano magliette azzurre con la foto di Sarr, fatte preparare dalla madre. A Kolda abbiamo dormito in un villaggio di tucul in mezzo a un bosco di manghi e di alberi di anacardo dove le scimmie sono più numerose degli umani. A Sédhiou in un palmeto dove gli uccelli si fanno sentire forte a ogni ora del giorno»

Alla proiezione di Io Capitano a Thiès
© Claudio Caprara
Alla proiezione di Io Capitano a Thiès © Claudio Caprara

Sto scrivendo su un pullman che è partito da Medina Dakhar, un piccolo centro agricolo a quattro ore da Dakar (la capitale del Senegal). Sono diretto a Kolda, una delle più importanti città della regione della Casamance: una lingua di terra stretta tra il Gambia a nord e la Guinea-Bissau a sud. È la terra di origine del nuovo presidente del Senegal, Bassirou Diomaye Faye.

Viaggio con una trentina di persone italiane e senegalesi. Alcuni sono vecchi collaboratori della Cinemovel Foundation, un’organizzazione che da molti anni propone eventi di cinema itinerante. Nel pullman ci sono esperti che ogni giorno montano le strutture per le proiezioni su grande schermo. Poi ci sono operatori, fotografi, un fonico che produrranno un documentario su questa avventura. C’è poi uno degli sceneggiatori e tre attori dell’ultimo film di Matteo Garrone. Questa carovana porta nelle scuole, nelle città e nei villaggi del Senegal il film Io capitano, Leone d’argento per la miglior regia all’ottantesimo festival del cinema di Venezia e nella cinquina dei candidati agli Oscar come migliore film internazionale (Io capitano ha vinto sette David di Donatello per la miglior regia, film, montaggio, fotografia, produzione, effetti visivi e suono).

Anche il regista è stato nel gruppo per la prima settimana del viaggio. Al termine delle proiezioni, quando gli spettatori discutono con chi ha realizzato il film, ha ripetuto che noi occidentali siamo abituati a vedere solo l’ultima parte del viaggio dei migranti, quando e se le barche riescono ad arrivare in Italia. Con Io Capitano, invece: «Abbiamo voluto dare una forma visiva a quello che c’è prima di arrivare, attraverso gli occhi di chi vive questa odissea. Il cinema è una forma di arte che tocca il cuore e le emozioni delle persone e per poterlo fare ha bisogno di grandi interpreti, di grandi attori e io sono stato fortunato a lavorare con attori straordinari che sono stati la vera forza del film».

Secondo Garrone il suo lavoro «è la dimostrazione che le cose si possono fare insieme e che la strada per il futuro è lo scambio di culture e l’apertura. Io non ho fatto altro che mettermi al servizio dei racconti di chi ha vissuto queste avventure e sapevo che la sola cosa fondamentale per ottenere un buon risultato era essere sinceri».

Matteo Garrone e uno sceneggiatore di Io Capitano, Mamadou Kouassi, alla proiezione a Rufisque © Claudio Caprara

Cinemovel Foundation è nata nel 2001, quando – con un’idea vecchia come il cinema – ha organizzato un viaggio in tanti luoghi del Mozambico per proiettare i film più belli della cinematografia di quel paese, che ha una tradizione solida e di qualità, affiancando alla visione delle opere una campagna di comunicazione sociale per la prevenzione della diffusione dell’HIV, il virus che provoca l’AIDS (la sindrome da immunodeficienza acquisita), che in quegli anni in Africa provocò una vera catastrofe.

Con il tempo l’idea di utilizzare il cinema come strumento di sensibilizzazione e comunicazione di pubblica utilità e di allargamento dei diritti, soprattutto delle donne, si è evoluta. In Marocco, nel 2006, Cinemovel ha messo in marcia una carovana di cinema e libri per pubblicizzare e sostenere le nuove leggi sul diritto di famiglia che hanno allargato i diritti delle donne in quel paese. In Etiopia si sono occupati di comunicazione sulle mutilazioni genitali femminili e in Tunisia hanno realizzato un progetto per promuovere l’emancipazione culturale delle donne. Da 19 anni, ogni estate, in collaborazione con Libera, Cinemovel porta il cinema anche in Italia, in luoghi confiscati alle mafie e restituiti alla collettività per sostenere la cultura della legalità e promuovere le diverse cooperative nate su impulso di don Luigi Ciotti.

I due fondatori di Cinemovel sono Elisabetta Antognoni e Nello Ferrieri che hanno fatto diventare l’amore per il cinema e la loro coscienza civile un progetto di vita. Antognoni è la presidente della fondazione. Fino a qualche mese fa lavorava nella biblioteca di Bagnacavallo, in provincia di Ravenna. Si è licenziata perché i progetti di Cinemovel, in buona parte risultato di bandi di gara del ministero dell’Istruzione e del Merito, avevano cominciato a richiedere un impegno e un’attenzione a tempo pieno.

© Andrea Fiumana per Cinemovel 2024

Alla fine degli anni ’80 del secolo scorso Ferrieri aveva trascorso tre estati a guardare film africani, latino americani e asiatici alla Cinémathèque française (quando la sede era vicino alla Tour Eiffel). Quell’esperienza, unita alla curiosità per i viaggi nei paesi del sud del mondo, gli fecero nascere l’idea di reinventare il cinema itinerante: come nella Spagna repubblicana degli anni ’30, come nell’Italia degli anni ’40, ’50 e ’60. Come in tante altre parti del mondo.

Nel 2007 Antognoni e Ferrieri raccontarono il loro progetto a Ettore Scola. Si emozionò. Raccontò di come anche lui avesse visto per la prima volta un film nella piazza di Trevico (il suo paese d’origine in provincia di Avellino), su un lenzuolo svolazzante. Era Fra Diavolo con Stanlio e Ollio. Un’esperienza mai dimenticata che ricostruì in Splendor, il suo film del 1989 con Marcello Mastroianni, Massimo Troisi e Marina Vlady. Scola fu direttamente coinvolto in Cinemovel, e ne è stato il presidente onorario dal 2007 fino alla morte, nel gennaio del 2016.

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«Non è la prima volta che veniamo in Senegal, dal 2010 al 2014 a M’Boro sur Mer abbiamo realizzato un progetto che accompagnava le proiezioni a corsi di formazione per le ragazze e i ragazzi di lì di modo che potessero portare avanti da soli il festival negli anni successivi» racconta Antognoni. In effetti così è stato: nella squadra che accompagna la carovana di Moi Capitaine ci sono due professionisti che hanno partecipato a quel progetto di formazione.

© Andrea Fiumana per Cinemovel 2024

Dopo il successo di Gomorra Matteo Garrone ha raccontato storie oniriche e lontane dalla realtà, come in Il racconto dei racconti e Pinocchio, per poi riavvicinarsi all’attualità, per quanto rivisitata, con Dogman. Nel raccontare una storia di devastazioni umane, Io Capitano mantiene accesa una speranza. Non impone una lettura, ma come fa il buon cinema racconta: come le persone possano attraversare una storia terribile, ma rimanere con un sogno di emancipazione. Due ragazzi senegalesi, Seydou e Moussa (interpretati dagli attori non professionisti Seydou Sarr e Moustapha Fall) sognano di arrivare nell’Europa che conoscono attraverso Instagram e TikTok, per cercare fortuna come musicisti. Sono cugini, hanno sedici anni e abitano a Dakar. Ad aiutare Garrone a raccontare questa storia così distante da noi, per le differenze anche di lingua (i due protagonisti parlano in wolof), c’erano persone che il viaggio in Italia lo hanno fatto, passando per il deserto, la Libia e il Mediterraneo: Mamadou Kouassi, Arnaud Zohin, Amara Fofana, Brhane Tareke e Siaka Doumbia.

Il protagonista del film, Seydou Sarr, e lo sceneggiatore Mamadou Kouassi © Andrea Fiumana per Cinemovel 2024

Mamadou Kouassi è in carovana con Cinemovel. È un ragazzo della Costa d’Avorio, i suoi genitori sono braccianti. A 19 anni dava una mano in campagna e, oltre a giocare a pallone, si era appena diplomato al liceo linguistico e sapeva già parlare abbastanza bene il francese, l’inglese, un po’ di tedesco.

«Sono partito dalla Costa d’Avorio con mio cugino perché eravamo attratti dalle cose che avevamo visto sull’Europa. Volevamo fare i calciatori. Abbiamo deciso di partire dopo aver parlato con qualcuno che aveva già fatto questo viaggio. Sapevamo che ci sarebbero stati dei rischi, ma abbiamo deciso lo stesso di andare in Libia, abbiamo attraversato il Ghana, il Burkina Faso, il Niger… È stato un viaggio molto duro, fatto di sofferenze, sete, torture. Nel deserto ho avuto accanto persone che morivano per disidratazione. Quando ho capito che partire era stato un errore, non potevo più tornare indietro. In Libia mi sono fermato per tre anni. Durante questo periodo sono stato in prigione per quattro volte e l’unica soluzione che ho trovato è stata attraversare il Mediterraneo per andare in Europa. Ma le difficoltà non erano finite: in mare sono stato per molte ore alla deriva su un gommone spaccato a metà. Per fortuna il nostro relitto è stato soccorso dalla Guardia costiera italiana e sono riuscito a sbarcare a Lampedusa».

Da lì Kouassi è stato trasferito in un centro di accoglienza straordinaria a Roma. «Avevo fatto una richiesta di asilo politico, ma mi fu negato». Uscito dal centro di accoglienza ha dormito per mesi e mesi nelle strade della capitale d’Italia. Nel settembre del 2009 è stato a sud, prima a Napoli, poi a Castel Volturno, dove è stato accolto da una struttura della Caritas. Per procurarsi un po’ di soldi ha cercato qualcosa da fare in campagna: è andato a Foggia per raccogliere i pomodori, a Rosarno per la campagna degli agrumi, poi a Torino, Cesena, Roma…

«Questo viaggio mi ha fatto crescere. Il mio primo obiettivo in Italia è stato imparare la lingua. Il giorno lavoravo in campagna e la sera seguivo i corsi di italiano». Nel 2011, finalmente, la svolta. Kouassi ha cominciato a fare il mediatore culturale nei centri di accoglienza: era un tipo giusto per accompagnare gli immigrati a compilare la domanda del permesso di soggiorno, per portarli da un medico, per stare con loro in questura. Dopo otto anni dalla sua partenza ha ottenuto il suo primo permesso di soggiorno. Dopo otto anni era diventato un immigrato regolare.

Kouassi ha partecipato alla scrittura della sceneggiatura di Io Capitano con Garrone, Andrea Tagliaferri, Massimo Gaudioso e Massimo Ceccherini, e durante la lavorazione è stato un consulente per risolvere alcuni snodi. «Dopo aver visto il film per la prima volta e aver rivisto le sofferenze che anch’io ho vissuto, ho pensato che questo lavoro si poteva trasformare in un’arma per evitare ad altri ciò che ho passato io».

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Kouassi ha visto il film al Festival di Venezia, a Parigi, a Hollywood e ha potuto valutare le differenti reazioni del pubblico, ma le emozioni più forti le ha sentite in Senegal nelle proiezioni di Dakar, nelle periferie della capitale e poi a Thiès, M’Boro, Medina, Kolda. La differenza fondamentale è che in Senegal c’è la tradizione del dibattito, dell’incontro tra il pubblico e gli autori, dell’ascolto delle osservazioni, delle emozioni che la pellicola ha suscitato.

La proiezione a Thiès © Claudio Caprara

«Il film non è sempre uguale: cambia a seconda del contesto in cui viene proiettato», dice Nello Ferrieri. È interessante vedere come le persone reagiscono alle proiezioni. Ci sono momenti drammatici, come la morte di una donna nella traversata del deserto, e capita che le persone ridano. Difficile dire perché. Una spiegazione riguarda il rapporto che gli africani hanno con la morte, ma anche la costante presenza dell’“elemento magico”: le streghe, gli sciamani, tutto ciò che riguarda l’organizzazione della tribù o della comunità di riferimento pesano molto sulle loro reazioni. Infatti quando Seydou, il protagonista del film, ha un’allucinazione e la donna morta prende il volo spesso la platea esplode in un applauso. Ho sentito uno di loro dire guardando lo schermo: “C’est l’Afrique!”».

Un altro momento euforico è il volo di un angelo, della malaika si direbbe in lingua swahili. «È una sorpresa per loro – spiega Enzo Bevar, dello staff di Cinemovel – non si aspettano che un film europeo possa proporre immagini in cui riconoscersi che hanno a che fare con le loro credenze, con la stregoneria, con le loro favole». Quella che per noi occidentali può apparire una forzatura, qui in Africa è naturale. È perfetta.

La proiezione al Centre de Développement de l’Entrepreneuriat et de la Professionnalisation des Jeunes di Rufisque © Claudio Caprara

Le reazioni cambiano perché cambia il pubblico. I senegalesi vanno al cinema con un atteggiamento molto sobrio e rispettoso. Non mangiano, non fumano, spesso indossano uno dei loro vestiti buoni. A Rufisque il direttore della scuola, vestito con una sgargiante tunica gialla, ha guardato il film regalmente su una sedia con i braccioli più alta di tutte le altre. Alla fine, senza aprire bocca, è salito sul palco e ha consegnato il suo cappello a Matteo Garrone in segno di rispetto e apprezzamento per il suo lavoro.

Nella sua città natale, Thiès, Seydou Sarr, il capitano del film, ha avuto un’accoglienza da star. La proiezione era in uno spiazzo polveroso dove i suoi amici hanno portato decine di djembe, i tamburi a forma di calice ricoperti di pelle di capra originari di queste zone. L’attesa della proiezione si è trasformata in una grande festa e di balli sfrenati. Decine di ragazze indossavano magliette azzurre con la foto di Sarr, fatte preparare da sua madre.

Il protagonista di Io Capitano, Seydou Sarr, a Thiès con la madre © Andrea Fiumana per Cinemovel 2024

A M’Boro il film è stato proiettato di mattina al CIFOP, il Centre International de Formation Pratique, in uno scenario tipico del Senegal: fichi d’india smagriti dal caldo, arbusti, sabbia gialla, alberi di karité e soprattutto imponenti, sontuosi e magnifici, i baobab, simbolo del Paese. Nella sala in mezzo alla natura c’erano duecento posti, ma eravamo stipati, saremo stati stati il doppio, con un caldo e un’umidità insopportabili. Ma gli studenti non hanno fatto una piega, le ragazze avvolte nelle stole colorate – gialle, arancioni, fucsia, rosse… – erano uno spettacolo nello spettacolo.

Quando il film è iniziato a Mérina Dakhar c’erano soltanto bambini. Gli adulti stavano lontano. Poi con circospezione, man mano che il racconto proseguiva, uomini e donne si sono avvicinati, e la serata si è rivelata una delle più partecipate di tutto il viaggio. Ai lati dell’unica strada che porta alla piazza dove si è tenuta la proiezione, c’erano delle bancarelle che vendevano una bevanda che chiamano “café touba”, fatta con grani di pepe senegalese e altre spezie a me sconosciute (in questi giorni ho adorato un “cocktail” analcolico composto da bissap, un infuso di karkadè rosso dolce, e zenzero).

A Kolda abbiamo dormito in un villaggio di tucul, le capanne circolari con il tetto di paglia, in mezzo a un bosco di manghi e di alberi di anacardo dove le scimmie sono più numerose degli umani. A Sédhiou in un palmeto dove gli uccelli si fanno sentire forte a ogni ora del giorno.

Nelle strade della Casamance, la regione che prende il nome dal fiume che l’attraversa, lo scenario è diverso: la vegetazione è più fitta rispetto al nord del Senegal, il caldo è infernale e cresce la sensazione di povertà diffusa, la capanne sono più piccole e fatte di canne secche, sembrano fragili e instabili, con i tetti in lamiera. A decine, ai lati delle strade, ci sono termitai enormi dai quali si tengono lontane anche le capre che vagano libere nella savana.

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Il Senegal ha oltre 18 milioni abitanti, il 60% dei quali hanno meno di 25 anni (in Italia siamo poco sopra il 20%), il tasso di disoccupazione è attorno al 20%. Il pubblico che ho visto alle proiezioni è lo specchio di questi numeri. Frotte di bambini accorrono incuriosite dall’arrivo del pullman e dal montaggio del grande schermo. A loro si aggiungono le donne giovani, eleganti e raffinate, in abiti lunghi in cotone damascato con capelli intrecciati, a volte tinti, o foulard dai colori sgargianti. Nonostante più del 90% dei senegalesi sia musulmano, i veli sul viso sono rari. Sono più frequenti, invece, le donne che hanno una fascia di stoffa stretta in vita per assicurarsi sulla schiena bambini di pochi mesi che si guardano in giro.

Io Capitano è un film duro. Sulle facce del pubblico nei diversi posti dove il film è stato proiettato ho visto il dolore fino alle lacrime, ma anche l’ilarità e il sollievo. Qualcuno si è alzato per la fatica di sostenere la visione di situazioni patite da persone a loro vicine: figli, fratelli, nipoti. È un film che trasmette la consapevolezza dei rischi connessi alla partenza: racconta la realtà del viaggio verso l’Europa, ma prima o dopo le proiezioni nessuno – dal regista a chi proietta il film – si preoccupa di stimolare o contrastare la voglia di partire. Il film racconta una storia e le persone, dopo averlo visto, hanno qualche informazione in più su quello che succede, ma partire o no rimane una scelta personale e libera.

La proiezione a Thiès © Claudio Caprara

I senegalesi e gli africani in genere sanno già che cosa li aspetta se decidono di rischiare. Lo hanno scoperto dai racconti di chi è partito e tornato, anche se vedere le immagini di questo viaggio può essere un’esperienza più dirompente di un racconto orale. Spesso sono i genitori a indebitarsi per fare partire un figlio e questi sacrifici non consentono fallimenti: un ritorno senza fortuna, dopo tutto quello che la famiglia ha fatto, rende chi torna uno sconfitto.

Il viaggio di Mamadou Kouassi è durato otto anni: «Mi ha fatto vivere tante vite. Io sono fortunato. Grazie alla mia esperienza credo di poter dare un mio contributo alla lotta per migliorare la condizione di chi ha già scelto di partire, ma anche per convincere le persone a impegnarsi per migliorare il loro paese e continuare a vivere qui».

Forse l’auspicio più solido si è sentito a Pikine, un comune della “Grand Dakar”, che comprende la sconfinata periferia della capitale senegalese. Il film è stato proiettato all’interno di un centro culturale che organizza corsi di teatro, dove ha fatto le sue prime esperienze da attore Moustapha Fall. Nel suo intervento dopo la proiezione il direttore ha detto: «Partite! Vedere il mondo e vivere nuove avventure è una cosa bellissima. Ma ci dobbiamo impegnare tutti affinché le ultime parole che ascolterete sul suolo senegalese siano: allacciate le cinture di sicurezza».

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Claudio Caprara
Claudio Caprara

È il più anziano del Post, dove si occupa di personale e pubblicità. Ha fondato e diretto giornali locali in Romagna. Abita a Roma dal 1997 dove si è occupato di comunicazione anche per il governo. Ha lavorato in Matrix (editore di Virgilio). Ha collaborato con Grundy (oggi Fremantle). Ha diretto un canale satellitare dedicato alla politica. Per il Post ha realizzato il podcast L'ombelico di un mondo.

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