Lo “smart working” è un incentivo alla natalità?
Se ne discute negli Stati Uniti e forse in parte potrebbe valere anche per l'Italia, dove negli ultimi anni il calo delle nascite ha rallentato
Dal 2008 in Italia il numero dei nuovi nati è sempre calato: secondo i recenti dati pubblicati da Istat, anche il 2022 ha confermato questa tendenza diventando l’anno con meno nascite da quando ha cominciato a registrarlo, nel 1861. Se si guarda l’andamento delle nascite degli ultimi anni però si nota che dal 2020 il calo rispetto agli anni precedenti è stato leggermente più contenuto. Nel 2021 ci sono state circa 4.600 nascite in meno rispetto al 2020, e nel 2022 circa 7.200 in meno rispetto al 2021: dal 2014 al 2020 invece il calo di anno in anno era sempre stato superiore a 12mila.
Questo lieve rallentamento nel calo delle nascite può essere spiegato da diversi fattori, primo fra tutti il fatto che a un crollo così rapido possa seguire fisiologicamente un calo più graduale. Ma un’altra ipotesi è che possa dipendere almeno in parte dal cambiamento portato dai lockdown nelle abitudini delle donne che dal 2020 hanno cominciato a lavorare più spesso da casa, approfittando all’inizio dell’obbligo di “smart working” imposto dalle restrizioni e poi dalle maggiori flessibilità di alcune aziende rispetto a questa soluzione. È un’ipotesi che nelle ultime settimane è stata discussa e studiata negli Stati Uniti dove nel 2021, per la prima volta dal 2007, il numero delle nascite è aumentato.
In Italia non esistono attualmente studi che provino a spiegare il rallentamento del calo delle nascite avvenuto negli ultimi due anni, o che correlino il numero delle nascite alla diffusione dello smart working. Si possono quindi solo fare delle ipotesi.
Le ragioni del calo delle nascite degli ultimi quindici anni invece sono note. Innanzitutto il numero di donne nella fascia d’età considerata fertile, tra i 15 e i 49 anni, è calato rispetto a un tempo, ed essendoci meno genitori ci sono necessariamente anche meno nati. È aumentato, inoltre, il numero di donne in questa fascia d’età che decidono di lasciare l’Italia per andare a vivere e lavorare all’estero: secondo l’ultimo Rapporto Italiani nel Mondo Migrantes dal 2006 al 2022 il numero di iscritti all’Anagrafe Italiani residenti all’estero è cresciuto dell’87 per cento in generale e quello femminile del 94,8 per cento.
A questo si aggiungono le motivazioni che riguardano le retribuzioni troppo basse e la precarietà del lavoro, due fattori che rimandano o ostacolano le decisioni di molte coppie di avere dei figli: «il numero medio di figli per donna è inferiore rispetto a un tempo, ma dai dati sappiamo che è inferiore anche rispetto al numero atteso, cioè il numero dei figli che le donne vorrebbero», spiega Giovanna Badalassi, esperta in ricerca e analisi statistica delle politiche pubbliche e autrice del sito di economia e politica di genere Ladynomics.
Questo dato, cosiddetto “fertility gap”, viene sottolineato anche da Sofia Borri, che è la presidente di Piano C, organizzazione che dal 2014 si occupa di sostegno al talento delle donne fuori dal mercato del lavoro o maleoccupate e negli anni ha intercettato circa 3500 donne provenienti da tutta Italia nella fascia di età tra i 30 e i 55 anni, di cui circa il 70 per cento madri. «Tantissime delle donne che noi abbiamo incontrato raccontano con sofferenza la decisione di non aver avuto un secondo figlio, dopo che avuto il primo hanno percepito l’esperienza della maternità tutta sulle loro spalle e capito che una nuova maternità le avrebbe penalizzate dal punto di vista della realizzazione professionale».
La difficoltà in gran parte femminile di conciliare la carriera con i figli emerge anche dal rapporto BES di Istat del 2022, che rivela per esempio che dopo la nascita del primo figlio quasi una donna su cinque tra i 18 e i 49 anni che aveva un’occupazione smette di lavorare. «Nei paesi dove il tasso di occupazione femminile è più elevato e ci sono più servizi (come in Francia e altri paesi del Nord Europa) anche la natalità è più alta», dice Badalassi. «Bisogna anche considerare che avere due redditi in famiglia è in molti casi fondamentale per non scendere sotto la soglia di povertà, ed è un’esigenza che vincola la decisione di natalità o la fa rimandare».
Non è quindi impensabile che un cambiamento drastico nella gestione delle ore di lavoro come è stato quello causato dalla pandemia – che ha portato molte persone che prima lavoravano in ufficio a cominciare a lavorare da casa interamente o parzialmente – possa aver avuto un impatto anche sulla decisione di alcune donne o coppie di anticipare la nascita del primo figlio o di farne un altro.
È una correlazione che qualcuno ha provato ad approfondire negli Stati Uniti: all’inizio del 2023 è stata pubblicata l’analisi di un sondaggio su 3mila donne che è poi stato ripreso da un articolo sull’Atlantic. Si è trovato che le donne che lavorano da remoto, soprattutto quelle più istruite, più ricche e più avanti con l’età, hanno più probabilità di fare figli rispetto alle donne che lavorano fuori casa. Nell’ottobre del 2022 già un rapporto del National Bureau of Economic Research, autorevole organizzazione statunitense di ricerca economico-finanziaria, aveva fatto notare come l’aumento delle nascite nel 2021 riguardasse soprattutto le donne con la possibilità di lavorare da casa.
Il paragone tra Italia e Stati Uniti però non è così immediato.
Intanto bisogna tenere conto del fatto che lo smart working in Italia riguarda una parte della popolazione tutto sommato piccola: secondo i dati pubblicati dall’Inapp (Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche) a gennaio del 2023 «in Italia è appena il 14,9 per cento degli occupati che svolge parte dell’attività da remoto, ma potrebbe essere quasi il 40 per cento, considerando la potenziale telelavorabilità».
A questo si aggiunge che lo smart working da solo non basta se non c’è anche una prospettiva di pianificazione della vita a medio e lungo termine: «le donne che hanno già un lavoro solido e uno stipendio buono ma con criticità di gestione del tempo possono essere spinte a decidere di fare un figlio perché vedono nello smart working una promessa di maggiore conciliazione tra famiglia e carriera», commenta Badalassi, «ma è una condizione che riguarda un numero circoscritto di donne: in Italia tantissime donne in età fertile sono precarie o non hanno un lavoro». Il tasso di occupazione delle donne tra i 15 e i 64 anni in Italia è pari al 51,9 per cento.
Secondo Borri in Italia lo smart working si porta dietro ancora molte «resistenze e ostruzionismo da parte del management» e la convinzione che significhi lavorare meno, cosa che lo rende «penalizzante per le donne che ne usufruiscono per esigenze di conciliazione». Allo stesso tempo però, dice Borri, è innegabile che «lo smart working sia una modalità di organizzazione del lavoro che agevola la gestione dei tempi di vita e di lavoro. Le donne sono alleggerite nei loro carichi di cura, sia in modo diretto nell’organizzazione delle loro giornate, sia in modo indiretto perché anche gli uomini hanno iniziato a utilizzarlo e quindi sono più disponibili nelle esigenze di organizzazione familiare».
Secondo Badalassi inoltre bisogna considerare che per molte donne lo smart working può diventare un limite in ambito lavorativo: «è un’arma a doppio taglio: per chi è giovane, deve costruirsi una carriera e farsi conoscere, lavorare da casa può essere critico. Per le donne può anche diventare motivo di rallentamento della carriera, se lavorano in contesti dove i colleghi uomini non lo sfruttano altrettanto».