Il costo della vita
«Anche se non fosse in corso una pandemia, e al di là dell’ambito strettamente medico, la mortalità intorno a noi è determinata in larga misura da mercanteggiamenti del tutto analoghi a quello che scandalizza quando si parla di riaperture».
Ogni mattina prendo una pillola che mi salva la vita. Costa 200 euro, 70mila l’anno. In Germania, dove vivo, la spesa è coperta dal sistema sanitario nazionale; questo significa che una catena di decisioni politiche e burocratiche, partita dall’Agenzia Europea per i Medicinali e transitata dal governo federale tedesco, ha stabilito che la vita di chi è nella mia situazione in Germania vale più di quella cifra. Altrove si ritiene valga meno.
In questi due anni, discutendo delle misure di contenimento della pandemia, periodicamente qualcuno calcola una quantità di morti che considera un prezzo accettabile per riaprire gli uffici e le fabbriche. Chi è contrario spesso risponde con raccapriccio, scandalizzato dall’idea che si possa stare a mercanteggiare con le vite umane.
Personalmente sono profondamente contrario alle riaperture anticipate, eppure trovo che scandalizzarsi sia ingenuo, forse controproducente. Mercanteggiare con le vite umane è qualcosa che facciamo sempre.
Nel mio caso, in fondo, è un conto facile. 70mila euro non sono poi tanti nel budget sanitario di un paese occidentale, per una malattia rara. D’altro canto, con quei soldi si potrebbe comprare ogni anno un appartamento in cui ospitare un senzatetto a rischio di assideramento. Si potrebbe dare da mangiare a tantissimi affamati. Alla lunga si salverebbero più vite. Sarebbe giusto? Certo, la cosa giusta sarebbe fare entrambe le cose – la cosa giusta sarebbe fare tutto – ma ovviamente tutto non si può fare, e qualcuno ha deciso che quel prezzo fosse ragionevole per la mia vita, per altre no. Ma persino ipotizzando un budget infinito, o un’economia priva di denaro, le risorse non lo sono: i chirurghi specializzati, i donatori di organi, sono una quantità limitata. A chi spettano? Chi lo decide?
Anche se non fosse in corso una pandemia, e al di là dell’ambito strettamente medico, la mortalità intorno a noi è determinata in larga misura da mercanteggiamenti del tutto analoghi a quello che scandalizza quando si parla di riaperture. Nel 2018, in Italia, sono morte 3.173 persone in autostrada; 115 in cantieri edili (nel dato INAIL: includendo il nero il totale è molto probabilmente maggiore). L’aspettativa di vita maschile a Trento era di 82,2 anni, a Napoli 79,4; in tutta Italia i laureati, rispetto ai diplomati, potevano attendersi in media tre anni di vita in più.
Questi non sono fatti di natura. Sono fatti artificiali. Li abbiamo determinati con le nostre decisioni collettive, o li accettiamo pur potendo rimediarvi, nonostante siano in contrasto con i principi che dichiariamo. Queste decisioni, e questa accettazione, sono il frutto di un calcolo, per quanto magari implicito o taciuto. Se riducessimo i limiti di velocità gli incidenti sarebbero di meno. Se imponessimo standard di sicurezza maggiori i cantieri vedrebbero meno infortuni. Questo migliorerebbe la vita dei gruisti e aumenterebbe il costo di produzione delle case. Se non lo facciamo stiamo decidendo che la vita dei primi vale meno di un margine nel fatturato degli imprenditori edili, o del nostro diritto ad avere case più economiche. Viceversa, quando sono state introdotte le misure di sicurezza sul lavoro attualmente in vigore, si è deciso collettivamente (in seguito a lotte durissime) che la vita dei lavoratori valeva più di quello che tali misure costavano. Chi, come me, le ritiene tragicamente insufficienti sta dicendo che vale molto di più di così, non che non è negoziabile: perché, appunto, stiamo negoziando.
Queste scelte – e anche la scelta di accettare uno stato di cose è una scelta – sono l’essenza di ciò che è la politica. Qualcuno la definisce come il processo con cui, collettivamente, allochiamo il denaro e le risorse; ma questo è un altro modo di dire che è il processo con cui allochiamo il dolore e il pericolo. Non c’è nulla nell’aria di Trento che la rende più salubre di quella di Napoli. I tre anni in più che vive un commercialista rispetto a un saldatore (tre anni! Una laurea breve, un figlio dalla nascita alla pioggia di “perché?”, una pandemia e mezzo, da Wuhan a oggi!) non sono un dato inevitabile, dovuto alle caratteristiche fisico-meccaniche dell’attività di compilare libri contabili rispetto a quella di avvicinare alla lamiera la testina di una torcia TIG. Queste differenze sono un’immagine delle nostre preferenze, di cosa riteniamo accettabile come società e cosa no. Dipendono dalla nostra tolleranza nei confronti di certi crimini ambientali, in certe regioni anziché in altre; dall’imposizione di certe aliquote marginali anziché altre, che finanzierebbero certe terapie anziché altre; dalla stipula di norme di sicurezza che ritengono ammissibile un certo livello di rischio d’infortunio o di intossicamento perché ridurlo vorrebbe dire rendere il lavoro, e quindi il prodotto, troppo caro, a meno di sussidi finanziabili solo con una revisione di certe aliquote marginali.
Sia chiaro: non sto dicendo che questo calcolo è giusto. Sto dicendo che è ovunque, e ha esiti mostruosi che pure, in qualche modo, tolleriamo. L’ingiustizia emerge in modo palese quando si parla di comprare la riapertura degli uffici con una data quantità di cadaveri, ma scandalizzarsi dicendo che la vita non è negoziabile è ingenuo: perché è di questo negoziato che consiste, in ultima analisi, la politica. Presentarla come un gioco di palazzo arbitrario e distante è un modo di nasconderlo. Chi ne trae vantaggio lo fa per interesse; e tutti noi accettiamo di non pensarci perché implica una responsabilità atroce, e una verità tragica a cui non vogliamo pensare. Riconoscerle per ciò che sono è però la base di ogni impegno politico serio.
“Non possiamo sapere perché si soffre,” ha scritto il giudice italo-americano Guido Calabresi in Tragic Choices, un saggio di filosofia del diritto dedicato a questo tema. “Ma possiamo sapere perché qualcuno soffre di più, e qualcun altro di meno”: perché è una decisione che abbiamo preso tutti noi come società. Rendersene conto è il primo passo per cambiarla.