Considerazioni serie sulle “morti da selfie”

Vengono trattate come storie di cui ridere – e come persone da irridere – ma dicono molto di tutti noi e di come siamo fatti

Las Chopas, Veracruz, Messico, 9 marzo 2018 (AP Photo/Armando Serrano)
Las Chopas, Veracruz, Messico, 9 marzo 2018 (AP Photo/Armando Serrano)

Un gruppo di ricercatori dell’All India Institute of Medical Sciences ha pubblicato di recente sul Journal of Family Medicine and Primary Care uno studio sui cosiddetti “selficides”, gli incidenti mortali avvenuti mentre ci si faceva un selfie, spesso in luoghi pericolosi: in tutto il mondo, tra ottobre 2011 e novembre 2017, sono morte in questo modo 259 persone. A partire dai numeri Outside Magazine, rivista statunitense dedicata a sport, viaggi e salute, ha pubblicato un articolo che affronta la questione in modo sensato, al di là di facili giudizi e allarmismi come spesso si legge in giro, anche sui giornali italiani.

L’articolo inizia con uno dei casi più raccontati delle ultime settimane, quello di Gigi Wu, scalatrice trentaseienne di Taiwan che si è fotografata in bikini sulle cime di oltre cento montagne tra le più alte dell’Asia, accumulando migliaia di follower sui social. L’ha fatto per quattro anni, dal 2014, muovendosi sempre con un telefono satellitare, un kit di pronto soccorso e altre attrezzature. Lo scorso gennaio Gigi Wu era al Parco nazionale di Yushan per un’arrampicata in solitaria. Dopo diversi giorni di trekking, mentre scalava una delle cime centrali del parco, era caduta in un burrone: si trovava a 1.700 metri di altezza e con temperature notturne sotto lo zero. La donna era riuscita a chiamare un amico per chiedere aiuto, spiegandogli di non riuscire più a muoversi. Dopo diversi tentativi di avvicinamento con un elicottero, non andati a buon fine, i soccorritori erano partiti a piedi. Wu, che era completamente vestita, si era avvolta in una coperta termica cercando di rimanere idratata. Secondo un canale di notizie di Hong Kong, avrebbe scritto qualcosa nel suo diario e dei messaggi ai propri cari: è stata raggiunta dopo 43 ore quando era già morta.

La storia di Gigi Wu è solo l’ultimo di una serie di episodi legati a questo tipo di morti che hanno coinvolto alcune persone conosciute, molte persone comuni, e molte altre ancora che non sono morte ma che sono state gravemente ferite. I selfie hanno causato problemi al Tour de France e potrebbero aver contribuito all’incidente di un elicottero a New York nel marzo 2018, quando morirono tutti e cinque i passeggeri.

Ora, scrive Kathryn Miles su Outside Magazine, è facile parlare di queste tragedie dando un giudizio superficiale, come hanno fatto molti commentatori online – ma non solo – giudicando le persone morte in questi episodi come “stupide”, “viziate” o “ossessionate da loro stesse”. Ma forse, dice la giornalista, vale la pena fare un ragionamento più complesso.

 

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Lo studio indiano dice che dei 259 decessi verificabili relativi ai selfie registrati dal 2011 al 2017, la maggior parte è avvenuta in India, seguita da Russia, Stati Uniti e Pakistan. Le tre cause più comuni di morte “da selfie” sono annegamento, essere investiti da un veicolo e caduta. Più di un quarto delle morti si è verificato mentre la persona coinvolta era impegnata in quello che gli autori dello studio chiamano un “comportamento non rischioso”, ma quasi tre quarti delle vittime erano maschi che si erano in qualche modo messi in pericolo.

Perché, si è chiesta la giornalista di Outside Magazine? Sarah Diefenbach, docente di Psicologia del consumo presso l’Università di Monaco e autrice principale di un articolo di ricerca del 2017 intitolato The Selfie Paradox, dice che ci si fanno dei selfie per molte ragioni: per comunicare con le persone che si amano, per aumentare la propria autostima, per prendersi cura della propria immagine, per documentare le proprie storie e, sempre di più, per costruire il proprio personale “brand”. Se quest’ultima argomentazione è certamente nuova, dice Diefenbach, le altre non lo sono affatto e sono sempre esistite, in diverse forme. La psicologa dice che questo tipo di comportamento fa parte del nostro stesso DNA e che la nostra specie si è evoluta in un senso iper-sociale e molto preoccupato della percezione degli altri: «Abbiamo un’infanzia molto più lunga della maggior parte degli altri mammiferi, e questo è dovuto alla progettazione: abbiamo bisogno di quel tempo per capire come assimilare la nostra cultura e affermare un’identità».

Will Storr, autore di un libro intitolato Selfie: How the West Became Obsessed, è d’accordo. Dice che abbiamo sempre voluto documentare «le nostre imprese a colori» e che dovevamo solo aspettare che la tecnologia raggiungesse il modo di renderlo possibile. Prima dei selfie, gli aristocratici commissionavano i ritratti di famiglia, si incidevano i visi dei propri cari sui cammei, a partire dagli anni Venti iniziò a diffondersi la fotografia, e poco dopo Edwin Land inventò la Polaroid rendendo la gratificazione che deriva dalle immagini molto più semplice e immediata. «Negli anni Cinquanta, l’avvento del proiettore per diapositive significò che un’intera generazione poteva tenere in ostaggio amici, vicini e famiglie allargate mentre si faceva scorrere un’immagine dopo l’altra delle proprie vacanze e dei propri diplomi». L’impulso di costruire pubblicamente la propria immagine è aumentato solo nell’era digitale, ma questo significa anche che è diventato molto più difficile farsi notare.

Truppe di Franco a Salamanca, Spagna, dicembre 1936 (Berliner Verlag/Archiv/picture-alliance/dpa/AP Images)

Il problema, dicono gli esperti, è ciò che accade nel nostro cervello mentre stiamo scattando le foto: la chiamano “attenzione selettiva” o “cecità attenzionale”, fenomeni percettivi in cui una persona non riesce a vedere qualcosa perché si concentra su qualcos’altro (il nostro cervello non è in grado di elaborare tutti gli stimoli che riceve contemporaneamente, quindi fa delle scelte su cosa privilegiare e cosa ignorare). C’è un esperimento molto famoso condotto da Daniel Simons, psicologo dell’Università dell’Illinois: ai soggetti venne mostrato un video in cui veniva inquadrato un gruppo di persone, alcune vestite di bianco, altre di nero, che si passavano una palla. Era stato chiesto di contare i passaggi di palla fra quelli in maglia bianca ignorando i passaggi fra quelli in maglia nera. I ricercatori scoprirono che quasi la metà dei soggetti impegnati a seguire i passaggi non si accorse del fatto che durante l’azione una persona travestita da gorilla aveva attraversato il campo. Perché si stavano concentrando su qualcos’altro.


Questo è ciò che accade quando si fa un selfie: l’attenzione è focalizzata sullo scatto, non dove si stanno mettendo i piedi o su cosa ci circonda. E dunque: la questione di chi si fa una foto non è tanto quella di avere un comportamento rischioso, ma di non rendersi conto che ci si sta mettendo in pericolo.

Eppure ci sono persone che cercano deliberatamente situazioni rischiose. Storr ha una spiegazione: negli anni Ottanta si imposero il bisogno di auto-affermazione, all’interno di una società sempre più competitiva, così come molti sport estremi. Alla fine degli anni Settanta meno di 80 persone all’anno tentarono la scalata dell’Everest; nel 1990 quel numero è più che triplicato e l’anno scorso centinaia di persone hanno raggiunto la cima. Questo perché, dice Storr, ci sono pochi modi, nella nostra cultura, di affermare il proprio status che siano più efficaci di «conquistare la vetta di una montagna, di indossare una tuta alare da base jump o surfare un’onda gigante». Oggi nessuna di quelle cose «è davvero successa se non hai una foto per dimostrarla».

Negli ultimi mesi alcuni paesi hanno provato ad adottare misure per contrastare questo nuovo problema di sicurezza pubblica. In India, per esempio, il ministero del Turismo ha chiesto ai governi statali di predisporre “zone di divieto di selfie” in corrispondenza delle attrazioni turistiche del paese. A Pamplona l’amministrazione ha iniziato a fare multe alle persone che tentano di farsi dei selfie durante la corsa dei tori. Questo tipo di iniziative potrebbe avere un effetto positivo o potrebbe, al contrario, segnalare a quegli individui che cercano deliberatamente il rischio i posti più rischiosi dove farsi un selfie.

Alla base di tutto, conclude Outside Magazine, c’è naturalmente il fatto che, giusto o sbagliato che sia, la nostra società incoraggia i selfie estremi (acquisire un grande seguito sui social media può essere tra l’altro redditizio). Per questo, secondo alcuni, per fermare questo fenomeno si dovrebbe limitare la popolarità di queste immagini con il  coinvolgimento dei social. Instagram ha recentemente presentato una nuova funzionalità – che potrebbe risultare utile anche per i selfie estremi – per cui un utente che cerca un hashtag associato a “comportamenti dannosi per gli animali o l’ambiente” visualizzerà una schermata in cui viene invitato a “proteggere la fauna selvatica”. Tuttavia la schermata di avviso può essere facilmente rimossa. Facebook, nelle sue linee guida, stabilisce che le immagini violente o autolesioniste saranno rimosse, e così Twitter, ma questo non vale per il caso in questione. YouTube dice che “i contenuti violenti o cruenti pubblicati allo scopo di sconvolgere o disgustare gli spettatori e i contenuti che incoraggiano gli altri a commettere azioni violente non sono consentiti”, ma su YouTube si può trovare il video di Wu Yongning, famoso in tutto il mondo per i suoi selfie estremi, mentre cade nel vuoto da uno dei grattacieli più alti di Changsha, capoluogo della provincia dell’Hunan, e muore.

La giornalista di Outside Magazine ha contattato Twitter e YouTube per chiedere se avessero dei piani per rivedere o rafforzare le loro linee guida relative alla pubblicazione di selfie pericolosi. Nessuna delle due società ha risposto.