La crisi del riciclo negli Stati Uniti

A un anno dal blocco delle importazioni di rifiuti da parte della Cina molte città sono tornate agli inceneritori: uno dei problemi, però, è proprio la raccolta differenziata

(Spencer Platt/Getty Images)
(Spencer Platt/Getty Images)

A partire dagli anni Ottanta i paesi industrializzati hanno iniziato a esportare gran parte dei loro rifiuti da riciclare verso la Cina, un mercato in espansione disponibile ad accontentarsi anche di rifiuti di bassa qualità per trasformarli in materie prime. Solo per quanto riguarda la plastica si calcola che dal 1992 – cioè da quando si è cominciato a raccogliere dati a riguardo – la Cina abbia ricevuto il 45 per cento di tutti i rifiuti prodotti, arrivando nel 2016 ad assorbire più del 70 per cento di tutti i rifiuti di plastica. La Cina prendeva dai rifiuti quello che poteva riciclare e bruciava il resto, sopperendo a una carenza di materia prima causata dall’ancora diffusa povertà del paese.

Tutto questo è stato possibile fino a quando, nell’estate del 2017, il governo cinese ha deciso di diminuire le importazioni dei rifiuti plastici e cartacei, imponendo a partire dal 1 gennaio 2018 il blocco delle importazioni di 24 tipologie di rifiuti, tra cui plastica, carta da macero e scarti tessili, a cui nel 2019 sono state aggiunte altre 16 tipologie, tra cui rottami di auto e navi demolite. Si trattava infatti di materiale considerato di bassa qualità, i cui costi di importazione e riciclaggio non erano più convenienti per il mercato cinese. La Cina ha deciso quindi di importare solo rifiuti “di qualità”, più facilmente riciclabili, ma ha provocato problemi enormi, che a cascata riguardano tutti i paesi che per anni avevano venduto alla Cina i loro rifiuti.

Un mercato in stallo
Questi problemi, negli ultimi mesi, abbiamo imparato a conoscerli bene anche in Italia, ma negli Stati Uniti si stanno verificando in scala molto maggiore. Gli Stati Uniti sono stati infatti i più grandi esportatori di rifiuti verso la Cina, e il blocco delle importazioni deciso dal governo cinese ha significato un improvviso stallo nel riciclo dei rifiuti, oltre che un aumento dei costi. Molte città si sono trovate a dover scegliere tra pagare molto di più per riciclare i propri rifiuti negli impianti statunitensi, oppure disfarsi di tutti i i rifiuti, anche quelli frutto della raccolta differenziata, in discariche e inceneritori (in Italia sono chiamati anche termovalorizzatori quando il calore prodotto dalla combustione dei rifiuti viene utilizzato per produrre energia elettrica).

Alana Semuels ha raccontato in un articolo sull’Atlantic come nel concreto questo stia modificando il processo di riciclo negli Stati Uniti, mostrando i casi di diverse amministrazioni cittadine che si sono ritrovate a dover rinunciare a fare la raccolta differenziata, a causa di un mercato senza sbocchi. A Franklyn, nel New Hampshire, per esempio, il costo per il riciclo dei rifiuti è passato da 6 dollari per tonnellata del 2010 ai 125 dollari per tonnellata attuali, una cifra insostenibile per una città dove gli abitanti vivono in gran parte sotto la soglia di povertà. E quindi: ha ancora senso stare a dividere plastica e carta, se poi alla fine non possiamo far altro che bruciare tutto?

L’alternativa, più economica, è infatti stata quella di portare tutti i rifiuti indistintamente negli inceneritori, al costo di 68 dollari per tonnellata. È quello che è successo anche a Broadway, in Virginia, che ha sospeso la raccolta differenziata dopo 22 anni, e nella contea di Blaine, nell’Idaho, che si è vista costretta a portare in discarica le balle di rifiuti che si erano accumulate nei depositi in attesa di essere riciclate.

Aumentano discariche e rifiuti inceneriti
Il Guardian ha raccontato la storia di Chester, un città della Pennsylvania dove si trova un grande inceneritore dell’azienda Covanta. Da quando è attivo il blocco delle importazioni in Cina, nell’inceneritore di Chester arrivano ogni giorno 200 tonnellate di rifiuti riciclabili che non trovano altra destinazione. Solo una piccola parte di tutta questa spazzatura, però, arriva dalla città di Chester: gran parte dei rifiuti che vengono inceneriti lì proviene infatti dallo stato di New York, dall’Ohio, dal North Carolina e da molti altri stati.

Questa grande quantità di rifiuti crea anche un secondo problema: preoccupazione principale degli abitanti di Chester è che i fumi dall’inceneritore emettano sostanze tossiche che possano causare danni alla salute dei cittadini, in particolare quelli che abitano nei pressi dell’impianto, che spesso appartengono a minoranze etniche e sociali.

Nonostante tra i cittadini di Chester si registri una percentuale di cancro alle ovaie 24 volte maggiore che nel resto della Pennsylvania, e nonostante circa il 40 per cento dei bambini soffra di asma, l’azienda Covanta ha sempre detto di aver fatto tutti i controlli necessari per verificare la qualità dell’aria nella città, sostenendo che le emissioni di diossina siano molto al di sotto del limite consentito. Covanta ha anche sempre sostenuto che gli inceneritori siano il male minore in casi come questo, dato che l’alternativa sarebbe spedire depositare i rifiuti in discarica. «In termini di gas serra – ha detto Paul Gilman, responsabile della sostenibilità ambientale di Covanta – è molto meglio mandare i prodotti riciclabili in un impianto che recuperi energia, vista la quantità di metano che viene prodotta dai rifiuti lasciati in discarica».

Come si risolve questa situazione?
Secondo uno studio pubblicato lo scorso giugno sulla rivista scientifica Science Advanceil blocco delle importazioni di rifiuti da parte della Cina comporterà che entro il 2030 ci saranno 111 milioni di tonnellate di rifiuti di cui non sapremo cosa fare. Alcuni paesi hanno spostato le rotte dei propri rifiuti verso paesi del sud-est asiatico come Malesia e Vietnam, che però hanno a loro volta annunciato di voler seguire l’esempio cinese e smettere di importare rifiuti di bassa qualità dall’estero. E gli Stati Uniti producono proprio rifiuti “di bassa qualità”.

Sull’Atlantic, Semuels ha spiegato che per anni molti statunitensi – anche i meglio intenzionati – hanno riciclato “male”. Secondo la National Waste & Recycling Association, un’associazione che raggruppa le società che si occupano del riciclo e del recupero dei rifiuti negli Stati Uniti, circa il 25 per cento dei rifiuti che i cittadini statunitensi inseriscono nei bidoni che raccolgono insieme plastica e carta (un sistema di raccolta introdotto negli Stati Uniti negli anni Novanta per risparmiare sui costi di trasporto e incentivare le persone a non gettare i rifiuti nell’indifferenziata) è composto da materiale contaminato, e che quindi non può essere “riciclato” se prima non viene pulito, in qualche modo.

Inserire cartoni della pizza con avanzi di cibo, bottiglie sporche e altri rifiuti contaminati non ha rappresentato un gran problema fintanto che la Cina comprava rifiuti di qualunque tipo. È nessuno si era posto il problema di insegnare davvero come differenziare i rifiuti, specialmente quelli di plastica e carta, dato che c’era qualche lavoratore sottopagato che lo faceva in Cina al posto dei cittadini statunitensi.

Rimediare a questa situazione, negli Stati Uniti, al momento significa assumere personale perché pulisca i rifiuti che i cittadini non hanno differenziato bene, facendo salire di conseguenza i costi per chi poi vuole acquistare le materie prime secondarie, cioè derivate dal riciclo. In sostanza per un’azienda è più economico acquistare materie prime “vergini”, piuttosto che riciclate, anche se si tratta solo di qualche centesimo in più per prodotto.

Debbie Raphael, direttrice del dipartimento per l’Ambiente della città di San Francisco, sostiene che l’unico modo sensato per rimediare a questa situazione sia di usare molta meno plastica. Alle tre R di “Riduci, Riusa e Ricicla”, i capisaldi dell’economia circolare dei rifiuti, andrebbe secondo lei aggiunta una quarta “R”: Rifiuta. In un periodo come questo, secondo Raphael, non basta differenziare correttamente i propri rifiuti, pulendoli, selezionandoli ed evitando di contaminarli. Bisogna rifiutarsi di utilizzarne alcuni che poi saranno più difficili da riciclare, come ad esempio gli imballaggi in plastica.