Arriva una crisi dei giornali online?
Il modello basato sulla pubblicità è sempre meno sostenibile e si cercano altre soluzioni, con qualche preoccupazione
di Emanuele Menietti – @emenietti
Negli ultimi giorni diversi articoli pubblicati negli Stati Uniti hanno iniziato a mettere in dubbio la sostenibilità del modello economico dei giornali online, rendendo pubblico un tema che esiste da tempo e sul quale si interrogano esperti e analisti. Prima c’è stato un articolo del Wall Street Journal in cui si raccontava del mancato raggiungimento degli obiettivi economici per quest’anno da parte di BuzzFeed, uno dei siti di notizie online più innovativi e indicato solitamente come il caso di maggior successo economico di un nuovo modo di fare informazione diverso da quello delle testate tradizionali, di cui BuzzFeed è diventato un concorrente, spesso vincente. BuzzFeed aveva previsto di produrre ricavi per 350 milioni di dollari, ma secondo le ultime stime mancherà l’obiettivo fermandosi a una cifra più bassa di almeno il 15-20 per cento, pur mantenendo crescite invidiabili.
Ma c’è un generale problema comune a diverse altre testate, che sta portando nuovi elementi – stavolta più concreti e strettamente legati ai modelli economici – all’ormai sterminato dibattito sul futuro del giornalismo dopo la fase “fine dei giornali di carta”. Al centro delle analisi e delle valutazioni degli ultimi giorni c’è il rapporto dei siti d’informazione con un modello di ricavi basato sulla pubblicità “display” (ovvero i banner e gli spot video, soprattutto) che di fatto non sta funzionando. È un tema ampio e nel quale finiscono inevitabilmente tutti: testate, giornalisti, social network, Google, chi fa pubblicità, e naturalmente i lettori.
I problemi di BuzzFeed
BuzzFeed esiste dal 2006, ha sede a New York e impiega circa 1.700 persone in giro per il mondo. Nato come sito per sfruttare e rilanciare i cosiddetti “contenuti virali”, di solito molto frivoli, a partire dal 2011 ha lavorato per espandere la sua sezione giornalistica e produrre anche articoli di maggiore qualità e rilievo. Il successo del suo modello, che grazie a contenuti più leggeri come le sue famose liste rende sostenibile la parte meno redditizia del sito con le approfondite inchieste, in questi anni ha attirato investimenti da svariate centinaia di milioni di dollari. Ma ora le notizie circa il mancato raggiungimento degli obiettivi, con ricavi più bassi di 50 – 70 milioni di dollari rispetto al previsto, iniziano a preoccupare gli investitori, che assistono contemporaneamente a un aumento delle spese per espandere le sezioni che si occupano di notizie e della produzione di video.
BuzzFeed ha risposto al Wall Street Journal senza smentire le ricostruzioni, ma ha comunque ricordato che l’azienda ha ampliato la sua offerta di spazi pubblicitari e che sta “rapidamente diversificando” le sue fonti di ricavo, tra accordi per la vendita di prodotti online, produzione di contenuti in licenza per altri siti e lo sviluppo di contenuti video per la televisione: “Raggiungiamo una porzione di pubblico più ampia e diversificata, e siamo ben posizionati per affrontare il 2018”. Anche se dovesse mancare le previsioni di quest’anno, BuzzFeed continua a essere economicamente solido grazie ai suoi investitori, a cominciare da NBC Universal che ha investito finora più di 400 milioni di dollari, portando l’azienda a una valutazione intorno agli 1,7 miliardi di dollari. Il problema è che, seppure diversificando, BuzzFeed basa ancora buona parte dei propri ricavi su vari formati pubblicitari, che continuano a rendere sempre meno per tutto il settore dell’informazione.
E i guai degli altri
Qualche difficoltà è iniziata a emergere anche per Vice, altra testata digitale indipendente su cui negli ultimi anni si sono concentrati grandi investimenti tentati da un suo approccio aggressivo e informale sulle news e dalle sue ambizioni nei confronti dei lettori più giovani. Per quest’anno Vice aveva fissato ricavi intorno agli 800 milioni di dollari, ma secondo gli analisti mancherà le previsioni (non è ancora chiaro di quanto). Lo scorso giugno la società d’investimenti TGP aveva investito 450 milioni di dollari in Vice, portando l’azienda a una valutazione di 5,7 miliardi di dollari. Vice può contare inoltre sul sostegno di Disney, che negli anni ha investito oltre 400 milioni di dollari, e su un modello che comprende attività sulla tv via cavo statunitense. Sulla base di questi elementi, i più ottimisti ritengono che l’anno prossimo Vice possa andare in attivo, nonostante il recente rallentamento della sua crescita.
Le cose sono più precarie di quanto lo fossero qualche anno fa anche per Mashable, altra testata interamente digitale che già in passato aveva dovuto affrontare difficoltà. Qualche settimana fa Pete Cashmore ha riunito tutto il personale dell’azienda, annunciando di volere mantenere il controllo sulla sua società fondata 13 anni fa, ma di essersi reso conto di non avere molte alternative se non vendere all’editrice Ziff Davis per mantenere in piedi il sito. Secondo il Wall Street Journal, l’acquisizione si è conclusa grazie a un accordo da 50 milioni di dollari, molti meno rispetto alla valutazione di 300 milioni di dollari che Mashable aveva ottenuto qualche anno fa.
Il problema della pubblicità
Seppure piccoli, i segnali di rallentamento nella crescita non sono ben visti dagli investitori, che avevano sperato in prestazioni migliori, confidando nei più giovani che consumano sempre meno televisione e frequentano con più assiduità Internet. Il passaggio sta avvenendo e giova sicuramente a BuzzFeed, Vice e gli altri, ma basare quasi interamente i propri ricavi sulla sola pubblicità si sta rivelando molto più rischioso e meno redditizio di qualche anno fa: da qui la scelta di molte testate di differenziare la loro offerta sia sul piano dei contenuti sia dei servizi offerti per trovare fonti di ricavo diverse e più affidabili.
Il problema di fondo è dato da come funziona la pubblicità online, un mercato che ha creato un’offerta infinita di spazio pubblicitario grazie alla gigantesca quantità di siti che offrono pagine dove inserire gli annunci. In questo nuovo sistema, accanto alle tradizionali intermediazioni delle concessionarie pubblicitarie e dei centri media, sono nati network di gestione del rapporto tra inserzionisti e siti. Sono intermediari anche loro, ma completamente automatizzati: la loro pubblicità è detta programmatic e funziona tramite l’inserimento delle inserzioni sui siti attraverso codici gestiti dalle stesse piattaforme (generalmente non sono i siti a sapere quale pubblicità ospiteranno, e non sono gli inserzionisti a sapere dove appariranno). Molte piattaforme impostano vere e proprie aste al ribasso per la vendita degli annunci, con la conseguenza che gli inserzionisti troveranno sempre qualcuno disposto a ricavare meno di un concorrente pur di avere le pubblicità da mostrare sul proprio sito.
Per diversi anni è sembrato che il sistema proporzionale:
più pagine viste = più pubblicità visualizzate = più ricavi
fosse ideale per compensare progressivamente i minori guadagni dovuti al calo delle vendite dei giornali tradizionali, o per sostenere interamente le nuove testate che esistono esclusivamente online. Questa soluzione è sfuggita di mano creando un circolo vizioso dove click e visualizzazioni dei banner rendono sempre meno, al punto che gli editori provano a compensare con stratagemmi per fare più pagine viste o aumentando l’offerta di spazi, che quindi a loro volta influiscono sulla crescita dell’offerta e sulla minor resa economica delle pubblicità.
Il circolo vizioso è stato ulteriormente complicato dal crescente ruolo di Google e Facebook nel mercato pubblicitario di Internet. Entrambi offrono piattaforme di straordinaria potenza ed estensione che possono essere usate da chi vuole fare pubblicità e dai siti che vogliono ospitarla. Essendo aziende gigantesche e altamente pervasive online (Google vuol dire Gmail, YouTube e via discorrendo), prosciugano buona parte del mercato pubblicitario, perché gli inserzionisti preferiscono avere i loro annunci su un social network dove sanno di trovare milioni di persone – e che fa loro prezzi bassissimi – rispetto a un sito di notizie che ne raccoglie molti meno. Oggi il dominio di Google e Facebook sulla pubblicità online viene spesso citato come un duopolio, dato il limitato spazio che lascia alle gestioni più tradizionali della vendita di spazi (dove pure tradizionali intermediazioni avevano già limitato molto il rapporto diretto tra inserzionisti ed editori).
La bolla delle testate digitali
Per compensare i minori ricavi derivanti dai classici banner intorno agli articoli, nell’ultimo paio di anni gli editori hanno provato a intensificare la loro produzione di video, che possono essere anticipati da annunci pubblicitari simili a quelli televisivi e che teoricamente attirano di più l’attenzione e sono quindi pubblicitariamente più efficaci. Ma, come spiega Josh Marshall in un articolo molto pessimista su Talking Points Memo, la recente diffusione di video sulle testate (e sui social network) è stata incentivata molto da chi si occupa di pubblicità e non ha risposto a una effettiva domanda dei lettori, che non sempre hanno motivi per preferire un filmato a un buon articolo da leggere. Il passaggio ai video (“pivot to video”) è diventato un mantra per molte testate digitali ed è probabilmente la migliore dimostrazione della saturazione raggiunta sul mercato della pubblicità online. Ma lo slogan “il pubblico vuole video” è stato probabilmente un po’ esagerato – questo sostengono alcuni articoli controcorrente – per mimetizzare il più realistico “Google e Facebook vogliono i video”, perché offrono maggiori ricavi pubblicitari.
Per Marshall i media online “sono nel mezzo di una crisi della monetizzazione” e si è creata una bolla che potrebbe presto esplodere. Spiega che ci sono troppi siti di notizie rispetto alle risorse disponibili per sostenerli economicamente tramite la pubblicità. Questo ha portato a una competizione feroce per accaparrarsi gli annunci, lasciando tutto il potere in mano agli inserzionisti che davanti alla grande offerta di spazi si sono potuti permettere di pagare sempre meno per le loro pubblicità. I costi d’ingresso nel mercato dell’informazione online sono bassi, quindi il numero di testate è enormemente superiore a quello di una volta dei giornali di carta, che riuscivano a instaurare un oligopolio in cui pochi editori avevano in mano buona parte dei ricavi pubblicitari (c’erano solo quei giornali e gli inserzionisti facevano a gara per finirci dentro con i loro marchi).
Marshall usa questo esempio, simile al gioco delle sedie su cui sedersi quando la musica finisce (a ogni turno le sedie diminuiscono, chi resta in piedi perde), per capire meglio la situazione:
Ricordatevi che ci sono troppe testate rispetto ai ricavi derivanti dalla pubblicità. Immaginiamo che ci siano 30 testate e 25 sedie che permettono di fare ricavi. Le testate combattono come se non ci fosse un domani per ottenere uno dei posti. Intanto le piattaforme che di fatto hanno un monopolio (Facebook, Google) arrivano e si siedono su 5 – 10 delle 25 sedie disponibili. Ora potete vedere il problema. La concorrenza delle 30 testate diventa da matti perché i posti a disposizione sono scesi a 15. Alcune testate sono destinate a morire o sono costrette a trovare un altro modo per sostenersi.
In realtà, come abbiamo visto, per ora diverse testate sono riuscite a sopravvivere grazie agli investitori che hanno continuato a spendere per mantenerle attive e proseguire con la sperimentazione di nuovi formati e servizi, sperando che un giorno riescano a essere profittevoli. Marshall si chiede che cosa accadrà quando gli investitori ridurranno la loro spesa, dopo essersi resi conto che molte testate hanno una valutazione economica sproporzionata rispetto alla loro effettiva capacità di crescere e di avere un modello economico sostenibile:
Eravamo rimasti con le nostre 30 testate e le 25 sedie. Le piattaforme che hanno un monopolio se ne sono prese 10. Ora ci sono 30 testate che lottano per 15 posti. Ma, un momento, come possono 30 testate competere per 15 posti? Significa che 15 non avranno un posto dove stare. Beh, il non detto è che molte di loro sopravvivono grazie agli investitori. Una volta che spariranno gli investimenti, ci sarà una specie di crash. Perché un posto serve davvero a tutti. E c’è di più! Forse 5 di quei posti non erano nemmeno messi a disposizione dagli inserzionisti dapprincipio. Magari erano pagati dagli investitori. Quindi nella realtà ci sono 30 testate che competono per 10 sedie. Forse 7.
Il profumo della carta
Paradossalmente, scrive invece Will Oremus su Slate, da questa situazione potrebbero trarre vantaggio i siti dei giornali di carta tradizionali. Testate molto rispettate in buona parte del mondo come New York Times, Wall Street Journal e Washington Post hanno capito già da qualche anno che il loro modello di business online non si sarebbe potuto reggere sulla pubblicità e basta. Assumendosi qualche rischio, e con la consapevolezza di poter ridurre il loro numero di lettori (quindi i ricavi dalla pubblicità), hanno puntato sul modello a pagamento precludendo o limitando di molto l’accesso ai loro articoli a chi non si abbona (i cosiddetti “paywall”), e investendo molto, anche nella comunicazione, sulla qualità competitiva dei propri contenuti giornalistici.
Questa soluzione ha permesso di migliorare i loro conti e di avere una nuova fonte di ricavi, che non è poi così “nuova” se si pensa che è la riproposizione online di quanto facevano sulla carta chiedendo un abbonamento per le copie dei loro giornali (in Italia si sta muovendo in questa direzione Repubblica, con il suo nuovo approccio che separa i contenuti del giornale – a pagamento – da quelli del sito: mentre il Corriere non sembra voler investire su un maggior valore di determinati contenuti). Lo hanno potuto fare perché sono testate conosciute e affidabili, con una base già ampia di abbonati al giornale cartaceo, e perché si possono permettere di avere esclusive e scoop grazie a strutture giornalistiche grandi e costose. Insomma, superata la crisi della carta, alcuni di questi giornali sono messi meglio online delle testate completamente digitali: anche perché è condiviso che i contenuti dei giornali di carta abbiano un valore percepito maggiore di quello sui siti (sia vero o no) e che sia quindi più facile ottenere che i lettori li paghino.
Far pagare o restare gratuiti?
Il fatto di esistere da meno tempo, di avere strutture più piccole e di avere abituato i lettori ad avere sempre informazioni e articoli gratuiti rende più difficile la strada dei contenuti a pagamento per le testate che esistono solo online. Il sistema può funzionare dove c’è una comunità di lettori affezionata e complice del progetto, come dimostra il caso di ProPublica o quello di alcune testate molto specializzate e indirizzate ai professionisti come The Information. I siti di notizie più popolari come BuzzFeed per ora sono stati alla larga da questo modello, nel timore che possa rallentare la loro espansione e la capacità di raggiungere il maggior numero possibile di lettori (e quindi limitare i ricavi pubblicitari). Le titubanze nel passare a modelli in abbonamento contribuiscono a rafforzare la percezione che sia del tutto normale leggere notizie gratuitamente sopportando le pubblicità, o che sia giusto bloccarle con AdBlock perché sono diventate troppo invasive.
E intanto, content marketing
L’altro fronte su cui siti e testate giornalistiche si stanno muovendo molto sperando di creare fonti di ricavo più cospicue e garantite è quello di offrire ad aziende e inserzionisti offerte pubblicitarie di maggiore qualità e originalità, cedendo un po’ della propria integrità giornalistica. È il grande tema chiamato con varie formule – branded content, native advertising, content marketing – di produrre giornalismo pagato dalle aziende, o pubblicità che sembri giornalismo, ottenendo così maggiori finanziamenti per questa pubblicità “speciale”. Molte testate americane – anche le più autorevoli – hanno creato redazioni autonome dedicate solo a questo (ma è un’attività che a volte trabocca anche nelle redazioni principali) e ultimamente lo stanno facendo anche quelle italiane: questo è un esempio su Repubblica, questa è la nuova redazione di questo tipo annunciata la settimana scorsa dall’agenzia Agi (lo stesso Post produce da alcuni anni formati di “articoli sponsorizzati“, avendo cura che siano presentati come tali). Il limite del content marketing sui giornali è che è costoso e poco scalabile (il contenuto “originale” deve essere ogni volta originale) e che anche qui il crescere dell’offerta di prodotti ne abbasserà il valore.
Facebook e Google
Negli ultimi anni le testate online hanno inoltre realizzato, talvolta a caro prezzo, di avere fatto troppo affidamento sulle grandi aziende del web come Google e soprattutto Facebook. Il social network ha prospettato un futuro dove centinaia di milioni di persone avrebbero visto ogni giorno nei loro News Feed articoli, video e altri contenuti condivisi dagli amici, che li avrebbero poi portati sui siti delle testate che li avevano prodotti, dove i banner pubblicitari avrebbero offerto grandi ricavi. Facebook ha inoltre incentivato gli editori a produrre video e a pubblicarli direttamente all’interno del suo social network, assecondando la domanda che arrivava dalle agenzie pubblicitarie e non dai lettori per avere formati che rendessero di più. I video sono stati privilegiati rispetto a qualsiasi altro contenuto, ma hanno di fatto arricchito Facebook e lasciato pochi spiccioli alle testate. È la dimostrazione, l’ennesima per i più scettici, del fatto che Facebook e Google non sono organizzazioni benefiche e che, comprensibilmente dal loro punto di vista, sono interessate in primo luogo a sistemi per massimizzare i loro ricavi, a prescindere dai destini delle testate e dei lettori (e in certa misura delle società democratiche).
Il tema delle fake news, diventato centrale nel dibattito sui media, e il suo rapporto con i social network dopo le presidenziali negli Stati Uniti, ha aggiunto ulteriori livelli di complicazione. In seguito alle indagini avviate dal Congresso, Facebook ha ridotto sensibilmente il numero dei post mostrati dalle Pagine delle testate nel suo News Feed, in attesa di produrre sistemi più accurati per fermare gli account che diffondono notizie false, che per tornaconto economico o politico condizionano l’opinione pubblica. Questa decisione, che in molti casi ha interessato tutte le testate senza distinzioni, ha portato a una netta riduzione del traffico da Facebook e di conseguenza a minori ricavi per gli editori. È un’altra dimostrazione dei pericoli nel fare troppo affidamento sulle piattaforme esterne per la promozione dei propri contenuti: con la modifica di un singolo algoritmo, Facebook può incidere pesantemente sulle sorti di una testata.
Ridurre la propria dipendenza dal social network più grande del mondo con oltre 1,3 miliardi di persone che lo utilizzano ogni giorno non è semplice, e per alcuni siti è impossibile: molti hanno investito soldi in promozioni su Facebook per far crescere fino a grandissimi numeri i Like sulle loro pagine, e ottenere visibilità e click sufficienti sui link ai propri articoli. Se da un lato Internet è uno strumento formidabile per farsi conoscere in tutto il mondo, dall’altro la mancanza di regole ha comunque favorito lo sviluppo di aziende che sono diventate gigantesche e che agiscono sostanzialmente in condizioni di monopolio. Per lo meno in Occidente, non ci sono grandi alternative a Google se si vuole cercare qualcosa online, o a Facebook se si vuole restare in contatto con i propri amici e seguire le Pagine di personaggi dello spettacolo, sportivi e dei media. Per milioni di persone Internet inizia e finisce con Facebook: avviene tutto lì dentro ed è quindi naturale che le testate provino ad andare a pescare lì una parte importante del loro traffico. Come ha scritto di recente Farhad Manjoo sul New York Times, le cose difficilmente cambieranno in tempi brevi: i grandi gruppi di Internet continuano a crescere e né il governo né il Congresso degli Stati Uniti sembrano preoccuparsene, anche se ora le indagini sulle interferenze della Russia nei processi elettorali e informativi potrebbero cambiare qualcosa.
Molte testate digitali si sono adattate alle richieste e al modo in cui funzionano Facebook e gli altri, ma a quanto pare non è bastato. Come fa notare l’analista Ben Thompson nella sua newsletter Stratechery, è preoccupante che la crescita di BuzzFeed stia rallentando nonostante abbia fatto tutto quello che Facebook aveva consigliato di fare. Il social network ha chiesto agli editori di investire di più sui video, e BuzzFeed l’ha fatto più di qualsiasi altro, per esempio. Viene quindi da chiedersi come possano fare testate più piccole e con meno risorse a sostenersi, se anche le più grandi faticano a farlo perché evidentemente Facebook non riesce a mantenere le sue promesse.
E il Post?
Nel caso in cui ve lo stiate chiedendo dall’inizio dell’articolo, sì, problemi di questo tipo interessano anche il Post, che da quando è nato nel 2010 ha basato il suo modello economico interamente sulla pubblicità. La resa sempre minore degli annunci pubblicitari ha fatto sì che al costante aumento del numero di lettori del Post (grazie) non sia corrisposto un aumento proporzionale dei ricavi dalla pubblicità. Potete immaginare un grafico con due linee divergenti: una che va verso l’alto e indica l’aumento dei lettori e delle pagine viste, una che contemporaneamente va verso il basso per rappresentare la resa sempre più bassa della pubblicità. Una gestione molto attenta ai costi ha permesso al Post di continuare a esistere in questi anni, ma non ha reso possibili tutti gli investimenti in nuove iniziative e servizi cui il giornale pensa da tempo e che vorrebbe sperimentare. Anche per questo motivo, proprio come le testate più grandi di cui abbiamo parlato prima, il Post sta lavorando per differenziare le sue fonti di ricavo, valutando collaborazioni e iniziative commerciali, compresa la possibilità di affiancare all’offerta gratuita una a pagamento, cercando la complicità dei lettori più affezionati a una testata che ormai esiste da quasi 8 anni e con buone soddisfazioni.
E se la bolla scoppia?
Non tutti gli analisti sono comunque convinti che l’eventuale esplosione della bolla delle testate digitali abbia solo effetti negativi. L’idea di un panorama editoriale vario e plurale con una miriade di voci diverse piace a tutti, ma se quel sistema non riesce a reggersi in piedi e fa sì che molte testate vivano col freno tirato o scendano a compromessi offrendo contenuti scadenti, forse uno scossone potrebbe giovare. La Silicon Valley e Internet non sono certo sparite dopo la bolla della new economy, e quella batosta finanziaria è stata assorbita e in molti casi ha fatto da base al sistema più dinamico e strutturato di adesso. I più ottimisti pensano che potrebbe avvenire qualcosa di analogo anche nell’editoria digitale, seppure contesti e dinamiche siano molto diversi e resti un problema di fondo legato a come funziona la pubblicità online. Considerati i precedenti, si può dubitare sulle effettive capacità del mercato pubblicitario di riformarsi e di adottare meccanismi diversi, soprattutto fino a quando resterà nelle mani di poche grandi aziende che gestendola ricavano decine di miliardi di dollari ogni anno. Sempre che anche in quel settore la crisi non imponga grossi ripensamenti, che finora non sono avvenuti.