La notizia della morte dell’euro è stata grandemente esagerata

Cinque anni fa, politici, giornalisti e premi Nobel pronosticavano la fine della moneta unica: oggi le cose sono cambiate

(Arne Dedert/picture-alliance/dpa/AP Images)
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Sono passati cinque anni da quando il presidente della Banca Centrale Europea Mario Draghi annunciò che avrebbe fatto “whatever it takes” per salvare l’euro, cioè avrebbe utilizzato qualsiasi mezzo per preservare la moneta unica europea. All’epoca la Grecia era a un passo dal fallimento e Spagna e Italia non sembravano molto lontane dal seguirla. Politici ed economisti dentro e fuori dal continente europeo pronosticavano l’imminente fallimento della moneta unica, alcuni con timore, altri come un mezzo di salvezza. Il premio Nobel Paul Krugman scrisse nel maggio del 2012 che la fine dell’euro avrebbe potuto essere «questione di mesi». Oggi quelle profezie si sono dimostrate sbagliate.

L’eurozona non si è spezzata, non è stata abbandonata nemmeno dalla Grecia e oggi sono rimasti in pochi a prospettare un imminente crollo dell’euro. Anzi, come scrive l’Economist questa settimana, l’economia dei paesi che usano la moneta unica è in ripresa e cresce a una media dell’1,5 per cento. Un risultato non particolarmente spettacolare, in effetti, ma comunque rispettabile per una delle aree geografiche più anziane del pianeta, dove, scrive l’Economist, le politiche fiscali sono state per anni non proprio generose e in cui il mercato del lavoro è ancora molto rigido.

Anche dal punto di vista politico, scommettere sulla fine dell’euro sembra aver perso il suo appeal. Marine Le Pen, uno dei politici anti-euro più in vista di tutto il continente, ha rapidamente messo in secondo piano il tema della moneta unica tra il primo e il secondo turno delle presidenziali francesi. Ugualmente ne è uscita sconfitta. Oggi in molti ritengono che a tenerle lontano una buona parte dell’elettorato moderato sia stata proprio la sua posizione sull’uscita dall’euro, vista da molti come un pericoloso salto nel buio. Anche in Italia è accaduto qualcosa di simile. Il segretario della Lega Nord, Matteo Salvini, ha ridotto molto i suoi riferimenti all’euro e così ha fatto l’altra forza storicamente contraria alla moneta unica, il Movimento 5 Stelle, preferendo concentrarsi sull’immigrazione.

Le ragioni di questa svolta nell’opinione pubbliche sono molte. In uno scenario di crisi senza apparente via di uscita, anche le persone più ragionevoli possono optare per soluzioni estreme: mano a mano che l’economia europea è andata stabilizzandosi, la volontà di compiere strappi imprevedibili si è invece attenuata. Oggi la classe media teme per i suoi risparmi in banca, la popolazione più in generale è preoccupata da uno scenario di cui si fa faticano a prevedere le conseguenze. La crisi della Grecia nell’estate del 2015, quando le banche furono chiuse e venne imposto un limite alla possibilità di prelevare denaro dai bancomat, ha probabilmente contribuito ad aumentare questi timori.

Ma aldilà dell’opinione pubblica, come mai l’eurozona non è crollata sotto il peso delle contraddizioni economiche che l’affliggevano, come avevano pronosticato numerosi economisti? Secondo l’Economist, il merito è di un «asso estratto dalla manica di Draghi». Dietro il famoso “whatever it takes”, infatti, c’è un cambiamento importante: la BCE sotto Draghi ha aumentato il suo bilancio fino a quattromila miliardi di euro, portando i tassi di interesse in negativo. Significa, in altre parole, che Draghi ha immesso enormi quantità di denaro nel sistema dell’eurozona, contribuendo ad abbassare i tassi di interesse, permettendo così anche agli stati più in difficoltà, come l’Italia, di finanziarsi a basso costo e riportando persino la Grecia sul mercato dei titoli di stato. Nel 2012 l’idea che la Grecia sarebbe potuta in pochi anni tornare a vendere bond sul mercato sarebbe sembrata assurda alla maggior parte degli esperti.

Nonostante questo apparente successo, la BCE non può fare tutto da sola e l’eurozona ha ancora numerosi problemi, a partire da quelli interni dei singoli paesi fino a quelli di architettura istituzionale e governance europea. Nonostante l’attività di Draghi, l’inflazione è ancora bassa (sotto il 2 per cento, fissato come obiettivo dalla banca). Nel prossimo futuro la BCE dovrà cominciare a ridurre i suoi stimoli monetari e questo potrebbe rendere più complicato finanziarsi a paesi come l’Italia. Questo non toglie che Draghi abbia fatto molto per l’euro e per l’Europa, scrive l’Economist. Probabilmente non è un merito che gli sarà riconosciuto, visti i danni subiti dalle economie dei paesi mediterranei negli ultimi anni: ma, conclude l’Economist, se non statue nelle piazze, a Mario Draghi spetterebbe comunque un ringraziamento.