Le classifiche sulla libertà di stampa hanno senso?
In quella del 2017 l'Italia ha recuperato 25 posti nonostante gli attacchi contro la stampa del M5S, dice il rapporto: perché? Come sono decise le posizioni?
L’organizzazione non governativa Reporter Senza Frontiere (RSF) ha pubblicato il “World Press Freedom Index” del 2017, la classifica annuale che sostiene di ordinare i paesi del mondo sulla base di quanto è libera la loro stampa. L’Italia quest’anno è al 52° posto su 180, recuperando 25 posti rispetto al 2016 (quando era al 77° posto). Ai primi posti ci sono Norvegia, Svezia, Finlandia (che ha ceduto il primo posto, che deteneva da sei anni, a causa di «pressioni politiche e conflitti d’interesse»). L’ultima nazione in classifica è la Corea del Nord, preceduta da Turkmenistan ed Eritrea (la Turchia è al 155° posto). Davanti all’Italia ci sono paesi che difficilmente si possono definire campioni di democrazia: per esempio al 42° posto, nella stessa posizione del 2016, c’è il Burkina Faso, un paese che non ha grandi organizzazioni editoriali e dove negli ultimi anni si sono succeduti colpi di stato, attacchi di al Qaida e dove l’anno scorso si sono tenute le prime elezioni democratiche in 27 anni (il Burkina Faso ha incredibilmente ottenuto posizioni in classifica superiori all’Italia anche quando era una dittatura).
La metodologia utilizzata da RSF per stilare la classifica segue alcuni criteri qualitativi e altri quantitativi. RSF distribuisce un questionario tradotto in 20 lingue ai suoi partner in tutto il mondo: sono associazioni, gruppi e singoli giornalisti, scelti a discrezione di RSF. La lista dei partner non viene diffusa (per proteggerli, dice RSF). Questi partner rispondono alle 87 domande raggruppate in sette argomenti assegnando un punteggio. Gli argomenti sono: pluralismo, indipendenza dei media, contesto e autocensura, legislatura, trasparenza, infrastrutture e abusi. I vari punteggi vengono “pesati” diversamente con una complicata formula matematica con la quale, in base ai primi sei argomenti, si ottiene un primo punteggio, il cosiddetto “ScoA”.
Il secondo punteggio viene elaborato tenendo conto del numero di giornalisti uccisi nel paese, di quelli arrestati, di quelli minacciati e di quelli licenziati. Anche questi valori vengono pesati in maniera differente: un giornalista ucciso conta più di un giornalista arrestato, per esempio. Il risultato di questa formula viene a sua volta inserito in un’altra formula insieme allo “ScoA”. Dati quantitativi su violenze e minacce sommati allo “ScoA” producono il secondo punteggio, lo “ScoB”. Nello “ScoB” l’analisi quantitativa sugli abusi pesa per il 20 per cento, mentre il resto del punteggio deriva dallo “ScoA”. Nella classifica finale, RSF utilizza il dato più alto tra “ScoA” e “ScoB”. La mappa viene infine colorata in base ai punteggi ricevuti: da 0 a 15 punti “buono” (colore giallo chiaro), da 15,01 a 25 punti “abbastanza buono” (colore giallo), da 25,01 a 35 punti “problematico” (colore arancione, l’Italia sta qui), da 35,01 a 55 punti: “grave” (colore rosso), da 55,01 a 100 punti “molto grave” (colore nero).
È un metodo molto complesso, che RSF ha raffinato nel corso degli anni – un grosso cambiamento di metodologia è avvenuto nel 2013 – e che è stato discusso e criticato su diverse riviste specializzate. La cosa più importante da capire è che si basa in gran parte sulle opinioni soggettive di enti e persone scelte da RSF, e questo ha causato negli anni diverse critiche. RSF è stata accusata di avere tra i suoi partner personaggi legati all’opposizione cubana e venezuelana, per esempio, che quindi nel valutare i loro paesi potrebbero non essere stati completamente obiettivi; cose simili possono essere successe anche in altri paesi. Gran parte del punteggio – almeno l’80 per cento – deriva dalle valutazioni dei partner di RSF ed è quindi influenzato dalla loro sensibilità personale e dal loro contesto: un “4” assegnato in Italia, insomma, non ha necessariamente lo stesso valore di un “4” assegnato in Burkina Faso.
Di certo la metodologia rischia di portare a risultati bizzarri o difficilmente spiegabili. Tra il 2013 e il 2014 per esempio, l’Italia aveva perso 24 posizioni in un solo anno, scendendo dal 49° al 73° posto. Tra le ragioni fornite da RSF per questo calo c’era stato un aumento delle intimidazioni nei confronti dei giornalisti, con «un grande incremento di attacchi alle loro proprietà, specie le automobili». Erano aumentate anche le cause di diffamazione che RSF giudicava infondate, passate da 84 nel 2013 a 129 nei primi dieci mesi del 2014. Per il 2015, l’anno a cui si riferiva il rapporto dello scorso anno, RSF non era scesa altrettanto nei dettagli per spiegare un’ulteriore perdita di quattro posti in classifica, ma segnalava comunque altre motivazioni: il numero di giornalisti sotto protezione della polizia (tra i 30 e i 50, ma il rapporto lo diceva citando Repubblica) e il processo in cui erano coinvolti Gianluigi Nuzzi ed Emiliano Fittipaldi, giornalisti autori di due libri sugli scandali nella Chiesa cattolica. Il processo di Nuzzi e Fittipaldi aveva influito negativamente sul punteggio italiano anche se, di fatto, avveniva in uno stato che non era l’Italia bensì il Vaticano. Nuzzi e Fittipaldi sono stati poi assolti.
Nel rapporto appena uscito, Reporter Senza Frontiere scrive che comunque l’Italia si trova al 52° posto perché sei giornalisti sono ancora sotto protezione avendo ricevuto minacce di morte soprattutto da parte della mafia o di gruppi fondamentalisti e perché il livello di violenza contro i giornalisti (intimidazioni verbali, fisiche e minacce) è allarmante, soprattutto a causa di «politici che non esitano a colpire pubblicamente i giornalisti che non amano». Il rapporto cita esplicitamente Beppe Grillo e il Movimento Cinque Stelle tra gli autori di queste minacce. Si dice poi che i giornalisti si sentono in generale sotto pressione da parte dei politici, che sempre di più scelgono di censurarsi e che nel sud del paese si devono confrontare con gruppi mafiosi e bande criminali locali. Infine, si parla del disegno di legge presentato dalla senatrice Doris Lo Moro del PD sul contrasto alle intimidazioni agli amministratori locali, licenziato nel giugno del 2016 dalla commissione Giustizia del Senato. La proposta è stata approvata al Senato e dal 17 aprile scorso è in corso di esame alla commissione Giustizia della Camera: l’articolo 3 dice che «Le pene stabilite per i delitti previsti dagli articoli 582, 595, 610, 612 e 635 sono aumentate da un terzo alla metà se il fatto è commesso ai danni di un componente di un Corpo politico, amministrativo o giudiziario a causa dell’adempimento del mandato, delle funzioni o del servizio». In sostanza, dice RSF, esiste il rischio di un aumento della pena per un giornalista che diffama a scopo ritorsivo (da dimostrare in tribunale) un politico o un magistrato. Il disegno di legge non è stato però ancora approvato definitivamente.