La sala Boulez, e cosa fa la Germania con cultura e integrazione
Filippomaria Pontani loda la nuova architettura di Frank O. Gehry a Berlino e la mette in un contesto più ampio, come si dice
di Filippomaria Pontani
Se c’è una cosa che a Berlino non manca, sono le occasioni di ascoltare musica classica. Tanto più colpisce la recentissima apertura, il 4 marzo, di una nuova sala da concerto nel centro della capitale tedesca, a pochi passi dal Konzerthaus che troneggia al centro della piazza di Gendarmenmarkt. Il Pierre-Boulez-Saal, intitolato al compositore francese morto l’anno scorso, è però qualcosa di più di una semplice sala da concerto: è diventato il cuore dell’Accademia musicale fondata nel 1999 dal musicista ebreo argentino Daniel Barenboim e dall’intellettuale palestinese Edward Said (1935-2003) per istruire giovani musicisti israeliani e arabi, come segno tangibile e augurale della possibilità di fratellanza e cooperazione fra i ragazzi delle due religioni.
Il progetto, portato avanti da Barenboim tramite la sua ormai celebre West-Eastern Divan Orchestra e tramite una serie di iniziative tra cui l’avventuroso concerto di Ramallah nel 2005, trova ora una casa nel centro di Berlino, in un antico magazzino del Teatro dell’Opera riattato all’uopo da uno dei più famosi architetti contemporanei, Frank O. Gehry. L’esito è da vari punti di vista strabiliante: la sala da concerto vera e propria, posta al livello stradale, è di forma ovale e prevede una scena centrale di forma e ampiezza variabile a seconda del numero e della disposizione delle sedie che la attorniano, e al piano superiore due ellissi tra loro disassate che sembrano quasi basculare sopra l’orchestra. La “salle ovalable”, come la definiva Gehry in un progetto che Boulez teneva in casa negli ultimi mesi di vita (quando già sapeva che lo spazio gli sarebbe stato intitolato), riprende il concetto di “salle modulable“ (ossia quella che può essere configurata in modo diverso secondo le esigenze di ogni concerto o di ogni evento), insistendo su questa inusuale figura geometrica, che garantisce – assieme al calore del legno e alle ridottissime distanze fra suonatori e pubblico – un’atmosfera quasi familiare, ideale per la musica da camera.
Non mette conto di soffermarsi sull’acustica davvero ottima, né sulle caratteristiche tecniche dell’edificio, che nel foyer propone un’efficace combinazione fra il color ruggine con cui è tinteggiata della scala e quello spontaneo di alcune parti comuni segnate dal tempo (intercapedini, travi metalliche, porte, cavi etc.) recuperate e lasciate tali e quali dalla “vita precedente” dell’edificio – un’idea architettonica che poggia sulla difesa della continuità storica e non può non ricordare, sempre a Berlino, il Neues Museum di Chipperfield. E si sorvolerà qui sia sul sordo arazzo che domina il foyer (Rivers and Rights di Christine Meisner, che rappresenterebbe i 4 fiumi del Paradiso) sia su alcune cadute di stile, come il triplice maxischermo celebrativo che sulla controfacciata mostra in loop e in simultanea i video di alcuni concerti di Barenboim e della sua orchestra in giro per il mondo. Ogni difetto è ampiamente compensato da un programma musicale che – seguendo il noto eclettismo del patron – sin dalle prime settimane si annuncia notevole per qualità e soprattutto per varietà, spaziando dalla Winterreise di Schubert alla musica persiana, dai quartetti di Mozart al jazz.
(Maurizio Gambarini/dpa via AP)
Più importante è naturalmente la carica ideologica dell’iniziativa, che – debitamente illustrata in una serie di pannelli dedicati all’insieme delle attività dell’Accademia musicale in giro per il mondo – s’incarna nelle figure che popolano il foyer (le maschere, i cibi e gli inservienti del bar sono per lo più di provenienza mediorientale), e deborda financo sulle porte a vetri, ornate (oltre che da frammenti di spartiti di Boulez) da massime di Said e di Barenboim medesimo sullo “spirito del Diwan”, sulla “discussione aperta”, sul “suono dell’utopia”. Quelle porte, chiuse ai visitatori, immettono in realtà nelle aule dove si tengono le lezioni per i 100 studenti dell’Accademia, che abbinano una severa istruzione musicale (uno degli scopi dell’istituzione, tra gli altri, vorrebbe essere proprio quello di riflettere scientificamente sulla natura della musica araba) a riflessioni ideali sulla convivenza fra i popoli, sul valore civile e sul potere della musica e dell’arte, sulla convivenza con il diverso. Messaggi quanto mai attuali nel pericoloso mondo contemporaneo, e portati da un testimone del tutto credibile come Barenboim, che ha ottenuto anche il passaporto palestinese e non ha lesinato esposizioni personali in nome dei suoi ideali (un amico israeliano mi racconta la commozione del padre quando il musicista argentino osò suonare Wagner a Gerusalemme nel 2001, per la prima volta dopo l’Olocausto); messaggi forse anche per questo degni di essere protetti tramite qualche controllo di sicurezza all’entrata, che attualmente non sembra affatto previsto.
Un’opera così importante ha i suoi costi: ben 20 dei 32 milioni di euro necessari alla costruzione sono venuti dal ministero della Cultura sotto gli auspici della politica cristiano-democratica Monika Grütters, i restanti dalla Fondazione Barenboim e da privati (tra i nomi dei 5-6 maggiori donatori, scolpiti con tutti gli onori nel foyer, si nota quello di Giorgio Napolitano); e il governo finanzierà il funzionamento della maison con 5.5 milioni all’anno, che dal 2019 diventeranno addirittura 7. Non senza ragione sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung il critico Jan Brachmann segnala la singolarità di uno Stato, quello tedesco, che elargisce moltissimi denari a un’accademia privata come questa e nel contempo (sì, accade perfino in Germania) riduce i fondi ai conservatori pubblici, anche a quelli di migliore qualità. Ma è chiaro che – ad onta delle dichiarazioni dello stesso Barenboim, che parla di un progetto “umanistico” e non “politico” – un investimento di questo genere non riguarda soltanto, né principalmente, l’àmbito della musica. È chiaro che in Germania ancora si crede all’idea dell’efficacia politica dell’educazione umanistica e artistica, e lo Stato vede come una missione quella di propiziare iniziative culturali che vadano nella direzione della pace.
Già abbiamo detto in passato di altre iniziative didattiche e di divulgazione (dalla rivisitazione del colonialismo tedesco alla nuova storia dell’immigrazione in Germania nel XX secolo), albergate per lo più nel Deutsches Historisches Museum che è sito a pochi passi dal Pierre-Boulez-Saal, e tese a creare nella popolazione una coscienza più matura sul problema storico dell’alterità etnica e religiosa; oggi piace ricordare come nel Museo delle Culture Europee (MEK) della stessa capitale molte classi tedesche vengano portate a contatto con “Sguardi su vite fuggiasche”, una raccolta site-specific di opere di rifugiati di vari Paesi (per lo più musulmani), che sui muri e nelle sale del Museo, sito nel sonnacchioso sobborgo universitario di Dahlem, raccontano le loro storie di migrazione (spesso traumatica, a rischio della vita) e di accoglienza (talora pessima, come in alcuni Centri di raccolta indegni di un Paese europeo; spesso addirittura terminata, ché molti di loro, Albanesi, Pakistani o Bosniaci, sono stati nel frattempo rimpatriati): le raccontano tramite un disegno, un’installazione, un acquerello – la serie di “Miss Shingal” dell’irachena Ina Sado non sfigurerebbe in una Biennale d’Arte Contemporanea. Quello che più colpisce in questa mostra, che nasce da un progetto di nome KunstAsyl legato all’elaborazione artistica delle storie di chi è giunto nel centro di Staakener Strasse, è la potenza delle carte geografiche tracciate sui muri del museo dagli indomiti migranti nel tentativo – più frutto di sensazioni che di studio del mappamondo – di ricostruire i propri itinerari di vita: l’albanese Selma Murati rappresenta dei Balcani grandi, un’Italia lunga lunga, un’Europa centrale minuscola e un’Inghilterra lontanissima nel mare (al Regno Unito Selma approderà infine, e da lì nel giro di poche settimane verrà rimessa su un volo per Tirana); mentre per l’afghano Mohamed Jasim Gull l’Iran e il Kurdistan grondano sangue e fucili, e Serbia, Ungheria e Austria sono i Paesi di gran lunga più sterminati del Vecchio Continente. Verrebbe da dire, parafrasando certe frasi di Said e Barenboim nella sullodata accademia, che solo cercando di capire la geografia dell’altro, la mappa del mondo che ha in mente chi è diverso da noi, vi è una qualche speranza di lenire gli odi e smussare le reciproche contrapposizioni.
Al giorno d’oggi, il governo tedesco non lesina rimpatri dei migranti, né – specie a ridosso delle elezioni – la politica sui rifugiati e quella sulla questione israelo-palestinese (indubbiamente accomunate dal comune riferimento al problema-Islam) appaiono scevre di tentennamenti e di spinte alla semplificazione e talora all’insofferenza. Lo si capisce anche qui mettendosi dalla parte dei disperati, come ha fatto la giornalista Antonie Rietzschel nel fortunato libro Dreamland Deutschland? (Hanser 2016), in cui la drammatica vicenda di due fratelli siriani è continuamente giustapposta al “grande gioco” della politica nazionale nel corso dei mesi dal 2014 al 2016. Ma lo si capisce anche visitando il memoriale dell’attentato di dicembre, sotto la Gedächtniskirche, dove nel manifesto con i volti dei defunti (tra cui l’italiana Fabrizia di Lorenzo) l’aggettivo “islamistiche” (riferito appunto all’attacco terroristico) è stato cancellato da qualcuno con un pennarello nero, ma nel contempo un anonimo quadretto listato a lutto, ben visibile in mezzo alle candele, reca una lugubre e rabbiosa parodia della reazione di Frau Merkel e dell’ex- presidente Christian Wulff: “L’Islam e il terrore appartengono alla Germania”.
Nonostante queste contraddizioni, è tramite il potenziamento e il sostanzioso finanziamento della cultura, soprattutto in rapporto all’istruzione delle giovani generazioni (quella elitaria per i facoltosi fruitori della sala Boulez o quella di base per le scuole che vanno in gita al MEK), che la Germania pensa di poter affrontare alla radice problemi così epocali e forse insolubili. Il tempo s’incaricherà di mostrare se questo ideale, forse figlio di un antico spirito illuministico, è in realtà l’estremo frutto di un velleitario intellettualismo borghese o una ricetta applicabile con successo nel tormentato mondo d’oggi.