Il futuro di Londra dopo Brexit
È diventata quello che è oggi grazie all'immigrazione, ma il suo stesso successo è stato uno dei motivi della vittoria del Leave: e ora molte cose rischiano di cambiare
di Marc Champion – Bloomberg
Londra, una città che fu fondata dai romani, reinventata dai commercianti dei Paesi Bassi e arricchita dai banchieri francesi ed ebrei, ora deve affrontare un esame potenzialmente pericoloso: sarà in grado di continuare ad attrarre ricchezza e talenti internazionali dopo un’eventuale “hard Brexit“? Londra, che ha quasi 9 milioni di abitanti, è considerata la capitale mondiale del soft power, come viene definita la capacità di una classe politica di attrarre cultura proveniente dall’esterno. Secondo uno studio della società internazionale di consulenza Deloitte, pubblicato poco prima del referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea, a Londra sono stati creati 235mila nuovi posti di lavoro altamente qualificati tra il 2014 e il 2015. Qui i dirigenti arrivano da un numero di paesi superiore a qualsiasi altra città. In questa classifica, New York è al secondo posto, staccata di molto.
Il timore è che una separazione complicata tra Regno Unito e Unione Europea possa far invertire la rotta alla metropoli globalizzata che è oggi Londra, causando un ritorno al passato recente in cui era la capitale, che si stava svuotando, di un impero perduto, conosciuta soprattutto per il punk, le rivolte razziali, il cibo di cattiva qualità e le infrastrutture a pezzi. Questo scenario non agita soltanto i banchieri, ma anche le molte persone che hanno avuto un ruolo nel risveglio della città: dai decani delle università agli imprenditori del settore tecnologico fino agli “chef stellati”. «Il fatto che la grandezza di Londra sia stata costruita storicamente sull’immigrazione è fuori di dubbio», ha detto Jerry White, uno storico che ha scritto diversi libri su Londra e ha definito «bizzarra» l’apparente decisione da parte del governo britannico di procedere verso Brexit a ogni costo.
Poche persone sostengono di saper prevedere quali saranno le conseguenze di Brexit, o quanto la capacità di attrazione di Londra si dimostrerà forte nonostante il cambiamento: la città ospita ormai una concentrazione forse unica di settori basati sulla conoscenza, dalla finanza high-tech all’industria cinematografica. Il risultato del referendum, però, fa pensare che Londra sia diventata vittima del suo stesso successo in termini di soft power, e abbia suscitato il risentimento degli elettori meno benestanti del Regno Unito nei confronti della ricchezza e degli immigrati che si riversano nella capitale.
I sostenitori di Brexit ritengono che l’uscita dall’Unione Europea permetterebbe a Londra di diventare un centro davvero globale, e non più solo europeo. Secondo queste persone l’immigrazione è proprio quello che gli elettori britannici hanno chiesto di tenere sotto controllo quando hanno votato per il Leave lo scorso 23 giugno, oltre che la causa dell’aumento dei prezzi degli immobili del centro di Londra, che sono diventati così alti da spingere le persone originarie della città ad andarsene. Secondo la maggior parte delle persone che ne sono state coinvolte, tuttavia, il recente successo di Londra potrebbe essere gravemente danneggiato se il governo britannico – come ha lasciato intendere l’utilizzo recente di una retorica anti-stranieri – dovesse interpretare il risultato del referendum come un voto a favore dell’isolamento. Londra ha prosperato riuscendo ad attrarre più stranieri delle città rivali. «Una serie di segnali forti, non solo a livello di politiche, ma anche di vita quotidiana, del fatto che Londra stia cessando di essere una città cosmopolita, aperta ed eterogenea metterebbe fine a tutto questo», ha detto Charles Leadbeater, uno scrittore che si occupa di gestione e innovazione, secondo cui Londra deve metà del suo successo economico alla sua immagine di città accogliente.
Dagli ugonotti agli hipster
La moderna Londra prese forma nel Seicento e nel Settecento grazie alle competenze “importate” dai profughi ugonotti provenienti dalla Francia, dai commercianti dei Paesi Bassi arrivati nel Regno Unito con Guglielmo III d’Inghilterra, e successivamente dagli ebrei in fuga dalla cosiddetta “zona di residenza” nell’Europa continentale, ha detto White. Il primo governatore della Banca d’Inghilterra, John Houblon, era il nipote di un immigrato ugonotto, mentre quello attuale è canadese. In tempi più recenti, la capacità di Londra di attrarre stranieri è stata fondamentale per riuscire a ospitare un numero di start-up digitali superiore a quello di qualsiasi altra città europea. Il Regno Unito e soprattutto Londra «sono al momento avvantaggiati» nei tentativi di attirare investimenti e società nel settore tecnologico, ha detto James Wise, socio della società di venture capital Balderton, che ha fondi per circa 2,1 miliardi di euro. Nel 2015 poco meno della metà dei fondatori di start-up tecnologiche del Regno Unito che hanno ottenuto dei finanziamenti erano stranieri, come indica uno studio di Balderton non ancora pubblicato, ha detto Wise.
«In questo caso le risorse naturali sono le persone, e non cose come il petrolio che viene estratto dalla terra», ha detto Wise. «E se c’è un modo per mettere in pericolo questa risorsa naturale, è fare quello che propone “hard Brexit”». La sola prospettiva di Brexit è riuscita a intaccare uno dei punti di forza di Londra nell’attrarre lavoratori qualificati, cioè stipendi più alti del 27 per cento rispetto a quelli di Berlino e del 18 per cento rispetto a Parigi, ha detto Wise. Questo divario salariale è stato assottigliato molto dalla svalutazione della sterlina di quest’anno.
Il deterrente dei visti
La retorica politica diffusa nel Regno Unito dopo Brexit ha portato anche a un’erosione della fiducia generale. Il ministro degli Interni Amber Rudd aveva proposto di costringere le aziende a pubblicare gli elenchi dei loro dipendenti stranieri, ma il governo ha dovuto poi rinunciare all’idea per le molte proteste. Per i cittadini europei impiegati nel settore creativo londinese che hanno altre opzioni, l’obbligo di ottenere un visto di lavoro – che metterebbe sostanzialmente fine al diritto di cittadini britannici ed europei di lavorare nei rispettivi paesi – combinato all’immagine di ostilità verso gli stranieri potrebbe essere un deterrente sufficiente. «Sinceramente sono venuto in Inghilterra perché era la cosa più semplice per me», ha detto Claude Bosi, uno degli chef francesi arrivati a Londra negli ultimi decenni, che hanno visto una grande diffusione di ristoranti stellati. Quest’anno a Londra ce n’erano 66, secondo la guida Michelin, oltre quattro volte di più rispetto al 1985. «Se all’epoca avessi dovuto fare richiesta di un visto forse sarei andato negli Stati Uniti», ha spiegato Bosi.
La paura che il processo innescato da Brexit possa allontanare i talenti stranieri preoccupa anche chi si occupa di istruzione superiore. A Londra questo settore è più grande che in qualsiasi città del mondo, oltre a essere un altro dei fattori determinanti – e allo stesso tempo uno dei principali beneficiari – del successo della città dagli anni Ottanta. «L’internazionalità è una componente ben radicata nella natura di questa istituzione e in questo l’Europa ha un grande ruolo», ha detto Michael Arthur, provost (l’equivalente del nostro “rettore”) dello University College di Londra. Arthur crede che la settima posizione della sua università nelle classifiche globali sia merito dei confini aperti e delle reti di ricerca transnazionali.
Preoccupazione
Da quando c’è stato il referendum su Brexit, Arthur ha passato buona parte del suo tempo a rassicurare i dipendenti preoccupati della sua università – il 20 per cento dei quali proviene da altri paesi dell’Unione Europea – sul futuro dei loro posti di lavoro, degli assegni di ricerca e dell’accesso alle reti accademiche molto sviluppate dell’Unione Europea. Secondo Arthur, solo dal punto di vista finanziario i cittadini stranieri, che rappresentano il 42 per cento degli studenti universitari, generano circa 225 milioni di euro in ricavi annuali. «Fu Jeremy Bentham», ha detto Arthur parlando del filosofo inglese dell’Ottocento, il cui corpo mummificato è esposto fuori dal suo ufficio, «a coniare il termine “internazionale”».
La rete universitaria di Arthur era una tessera del mosaico che permise a Londra di svilupparsi quando, a partire dagli anni Ottanta, l’economia globale iniziò a indirizzarsi verso i servizi mobili, ha detto Ben Rogers, il direttore del centro studi Centre for London. In quel periodo un altro accademico, questa volta di Harvard, Joseph Nye, coniò il concetto di “soft power” per descrivere la capacità di un paese di «cooptare le persone invece di costringerle con la forza».
Tra gli altri fattori del successo di Londra ci fu anche il cosiddetto Big Bang dell’ex primo ministro britannico Margaret Thatcher, un pacchetto di misure per la liberalizzazione del settore finanziario adottato nel 1986, che aprì la City – il famoso distretto finanziario di Londra – alle banche degli Stati Uniti e del resto del mondo. Oggi la City, che prima era una zona poco attiva di Londra, ospita oltre 250 banche straniere.
Il ritorno della Swinging London
Il National Lottery Fund, l’ente britannico che si occupa della gestione dei proventi della lotteria del Regno Unito, istituito nel 1994, ha portato a Londra oltre 6 miliardi di sterline (circa 6,7 miliardi di euro), che hanno permesso di rinnovare le gallerie e i musei della città e contribuito ad attirare le società del settore creativo. Ma anche l’apertura dell’Eurostar, il collegamento ferroviario ad alta velocità verso Parigi e Bruxelles, e la successiva crescita delle compagnie aeree low-cost che collegano Londra a piccole città europee sono state importanti. Nel 1996 la rivista Newsweek annunciò «il dominio di Londra», mentre un anno dopo Vanity Fair parlò del ritorno degli Swinging 60’s. Non sorprende che a giugno Londra abbia votato per rimanere nell’Unione Europea nel referendum su Brexit, al 60 per cento contro il 40. Il fatto che il margine non sia stato più ampio dimostra però come il racconto del grande successo di Londra a volte ne trascuri lati negativi e fallimentari.
Si sorvola spesso sul fatto che il recupero dei due milioni di persone perse da Londra tra il 1939 e il 1981 sia stato dovuto quasi interamente all’immigrazione, ha detto Ian Gordon, ex professore di geografia umana della London School of Economics. Nemmeno lo straordinario aumento nella proporzione di londinesi nati all’estero – passati da meno del 5 per cento nel 1961 al 37 per cento di oggi – rende l’idea della portata del cambiamento e dei trasferimenti, perché il maggiore tasso di natalità è dovuto in gran parte agli immigrati, ha aggiunto Gordon. La maggior parte dei cittadini britannici che hanno votato per il Leave, ha detto Gordon, stava anche protestando contro Londra, intesa non come città, ma piuttosto come emblema di tutto quello che è arrivata a rappresentare. Le persone nate a Londra e non laureate sono state lasciate indietro, incapaci di competere per posti di lavoro ben retribuiti o per avere una casa in una città che è sembrata essere conquistata all’improvviso dai nuovi arrivati. Con un tono sprezzante che inquadra bene l’attuale situazione nel Regno Unito, recentemente il primo ministro Theresa May ha dato un nuovo nome ai cittadini di Londra: «cittadini di nessun posto».
© 2016 – Bloomberg