Boateng, la Germania e il discorso sull’integrazione
Nessun altro paese europeo, scrive Filippomaria Pontani, produce altrettanto sforzo culturale e dibattito sull'immigrazione, buono e cattivo
di Filippomaria Pontani
boateng contubernale dei celesti / come zeus adirato i suoi fulmini / tu feroce hai scagliato / con tuono e polpaccio tremante / la palla di fuoco dal piede ardente / dentro la rete dei telchini / come se avessi trafitto il loro cuore / recintato gli slovacchi avevano / le punte dei capelli ritte un tempo / smorfie di diavoli emersi / dalle estreme profondità dei boschi / ora si dimenavano come pesci ornamentali / sul prato asciutto che non aveva / più buchi nei quali potessero / acquattarsi i peggiori / dei loro incubi si avveravano / come se non si fossero da tempo / bruciati sulla pelle / se avessero visto il terrore solo / l’uno nelle braccia dell’altro / sarebbero rimasti a casa / questi tremendi esseri fiabeschi / poco prima del pianto / sono scappati via dall’uomo / nero via di nuovo nel loro occidente / nel quale il sole può sempre e solo / tramontare mentre noi / partita dopo partita nella tua luce / resistiamo jérôme tu figlio / degli dèi
Quest’ode a Jérôme Boateng, il cui tiro vincente ha aperto il 3-0 con il quale la Germania ha superato la Slovacchia negli ottavi di finale, è apparsa sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung il 28 giugno scorso: l’autore è il drammaturgo e scrittore Albert Ostermaier, unico poeta compiutamente “pindarico” della letteratura tedesca contemporanea, che ha dedicato tra l’altro una raccolta ai Mondiali del Brasile (Cambio d’ala, 2014) e una profetica “Ode a Manuel Neuer” all’abilità nel parare i calci di rigore. La scelta di Boateng – pilastro della difesa dopo la defezione di Hummels – non è forse casuale: oltre a rappresentare una pedina insostituibile nella squadra di Loew (la débâcle nella semifinale contro la Francia è arrivata pochi minuti dopo la sua uscita per infortunio), il difensore di origine ghanese appartiene infatti alla pattuglia dei giocatori che rendono questa una delle nazionali più “MultiKulti” della storia tedesca – insieme a Khedira, Mustafi, Can, Özil, Mario Gomez, Sané, per non parlare di Gündogan, Rüdiger, Tah.
Con il suo fare posato e a tratti malinconico, ma soprattutto con la sua scelta di giocare con la Germania anziché con il Paese dei suoi genitori, il Ghana (per il quale ha optato invece il più turbolento fratello Kevin Prince, che gioca nel Milan), Boateng “figlio degli dèi” rappresenta un modello d’integrazione tramite lo sport del tutto affine a quello celebrato nella mostra che si tiene quest’estate al Deutsches Historisches Museum di Berlino, dal titolo “Immer bunter” (“Sempre più colorati”, “Sempre più vari”): la gigantografia è lì, nell’ultima sala, quella di Mesut Özil. L’esposizione è di estremo interesse in quanto condotta su due assi, che sottolineano l’importanza del tema dell’immigrazione nel discorso pubblico del Paese: da un lato un’attenta ricostruzione storica del fenomeno a partire dal secondo Dopoguerra, dall’altro l’educazione militante agli ideali di tolleranza e multiculturalismo.
Il sottotitolo della mostra dice “La Germania come Paese d’immigrazione” (“Deutschland als Einwanderungsland”), assumendo così d’emblée un dato di fatto tutt’altro che scontato. Terminata l’epoca del massiccio assorbimento di forza-lavoro (grosso modo dal 1955 al 1973, anno in cui non furono rinnovati i trattati bilaterali che favorivano l’arrivo di lavoratori dai Paesi del Sud e dell’Est), per molto tempo la politica tedesca provò a negare che la Germania fosse o potesse diventare un Einwanderungsland: esplicite dichiarazioni in tal senso si leggono nel patto di governo CDU-FDP del 1982, ma ancora nelle parole del ministro dell’interno Manfred Kanther nel 1996, ad onta di una popolazione straniera comunque sempre in crescita (i molti permessi speciali di lavoro, i ricongiungimenti familiari, i cittadini europei non più soggetti a limitazioni come Italiani e Greci, le nascite della seconda generazione). Né va dimenticato il picco degli arrivi di rifugiati dall’Est Europa tra il 1990 e il 1993 (dai 200mila ai 438mila profughi l’anno), un esodo paragonabile in termini numerici solo a quello dei Siriani di oggi, e tanto più rilevante in quanto composto essenzialmente di richiedenti asilo, ovvero di persone che – come recitava in quattro semplici parole l’art. 16 comma 2 della Costituzione tedesca – in quanto “perseguitati politici godono del diritto d’asilo”. È da notare che questo articolo, già ritenuto uno dei fiori all’occhiello della Costituzione del ’49, e fondamentale per esempio per l’accoglienza di profughi vietnamiti, greci e cileni negli anni ’70, venne modificato in senso restrittivo nel 1993 proprio sull’onda degli eventi: da allora, tecnicamente, non possono richiedere asilo coloro che entrino in Germania via terra; è proprio questo uno dei punti giuridici che si sono dovuti superare tramite una serie di legislazioni d’emergenza in occasione della crisi dell’autunno 2015, che ha portato nel Paese quasi un milione di fuggiaschi.
Il picco di arrivi attorno al ’90 fu alla radice di una recrudescenza di fenomeni xenofobi culminati nel pogrom contro il centro di raccolta degli immigrati di Rostock dell’agosto ’92 e nelle sanguinose aggressioni di Mölln e di Solingen, che tra tardo 1992 e primo 1993 causarono ben otto morti (tra cui due bambini) nelle locali comunità turche; e quella volta, sia detto per inciso, la protesta della politica e della società fu compatta, e duratura. D’altra parte, la reazione delle comunità straniere fu rapida e organizzata (“non vogliamo essere gli Ebrei di domani”): si creò la Deutsche Islam Konferenz come luogo istituzionale d’incontro fra il governo e le comunità islamiche per dibattere temi delicati e tuttora controversi come la cittadinanza, i luoghi di culto, il velo obbligatorio, le pratiche matrimoniali, l’adattamento alla morale corrente; nel 1994 entrarono in parlamento i primi deputati di origine turca (oggi Aydan Özoguz è ministra dell’integrazione); anche sul piano culturale cominciarono a proliferare gli artisti stranieri pronti a scrivere, cantare o girare in tedesco, dal regista Fatih Akin al gruppo hip hop degli Advanced Chemistry al prosatore Feridan Zaimoglu, autore peraltro di un testo autobiografico breve, scomodo e toccante per l’inaugurazione della mostra berlinese.
Ora, il senso di questa mostra, ampiamente visitata da scolaresche forzatamente ignare del passato, ma anche da privati cittadini desiderosi di orientarsi in un momento politicamente complesso, è proprio quello di indicare da un lato come – e a quali condizioni, spesso non vantaggiose per gli stranieri – il miracolo tedesco si sia potentemente avvalso di forza lavoro non qualificata proveniente da altri Paesi, e abbia provato, almeno a partire dagli anni ’70 con i programmi d’istruzione linguistica e le prime concessioni sul voto locale, a battere tra mille difficoltà la strada dell’integrazione (uno dei simboli è la motocicletta donata dallo Stato nel 1964 al milionesimo Gastarbeiter giunto in Germania, uno spaurito carpentiere portoghese); dall’altro, come questo processo sia stato e sia tuttora costantemente avversato da una frangia della politica e della società refrattaria a ogni discorso inclusivo. Quando il presidente della Repubblica Christian Wulff in un discorso del 2010 citò l’Islam come religione appartenente alla Germania allo stesso titolo di ebraismo e cristianesimo, fu travolto da polemiche d’ogni sorta; e il suo successore Joachim Gauck, attualmente in carica, non più tardi di domenica 26 giugno a Sebnitz, in Sassonia, è sfuggito all’assalto di un neonazista armato, che insieme a un centinaio di altre persone lo apostrofava come “traditore del popolo” proprio in virtù delle sue posizioni sul tema.
In prospettiva storica, colpisce vedere come, 40 anni prima della famigerata notte di San Silvestro del 2015, una vignetta di Klaus Pielert rappresentasse “il futuro skyline di Colonia” come una selva di minareti che fanno corona alle guglie del Duomo; o come già nel 1986, in una striscia di Peter Leger, vi fosse la chiara denunzia di una retorica xenofoba che ripercorreva ad litteram le orme di quella anti-giudaica del 1933. D’altra parte, una seconda mostra al piano inferiore dello stesso Deutsches Historisches Museum disegna la storia della propaganda antisemita e razzista in Germania seguendo le tracce degli adesivi d’ogni tipo comparsi da fine Ottocento ad oggi nei bagni pubblici, sulle lettere private (epistole d’amore degli anni ’20 sigillate con il motto “Gli Ebrei sono la nostra rovina”!) o sui muri delle città (per esempio gli odierni stickers “Refugees welcome” e viceversa “Nein zum Heim”). Se l’analisi politica, condotta sotto questa luce, è sottile, d’altra parte la condanna nei confronti della retorica odiosa è durissima ed esplicita, e anzi i visitatori più giovani vengono invitati in un apposito laboratorio a produrre essi stessi i propri slogan e i popri adesivi per combattere l’odio contro gli uomini e ogni atteggiamento discriminatorio.
Sorprende – ma conferma la centralità del tema, nonché l’urgenza di parlarne a un vasto pubblico – l’assoluta consonanza di questa mostra con l’assetto del Padiglione tedesco presso la 15ma Biennale di Architettura di Venezia. In risposta all’appello del curatore cileno Alejandro Aravena (condensato nel titolo “Reporting from the Front”), il commissario Peter Cachola Schmal (peraltro di origini pakistane) ha sfondato i muri esterni di quello che è diventato “The Open Pavilion“, trasformando una struttura chiusa in un punto di passaggio perennemente aperto da ogni lato, e dedicato a una questione chiara: “Making Heimat” (con tutto quello che di intraducibile ha il sostantivo Heimat, solo approssimativamente reso con “patria”). Dalla collaborazione con il giornalista canadese Doug Saunders, autore del saggio Arrival City (2011), nasce una struttura policentrica che affronta il problema delle migrazioni da diversi punti di vista. Per integrare i nuovi arrivati, si argomenta, sono indispensabili residenzialità a basso costo (è necessario che essi comprino casa, anziché restare in affitto o in alloggi di fortuna), prossimità al lavoro e alle opportunità d’impresa (un buon sistema di trasporti e di reclutamento), e infine reti di comunità che possano fornire aiuto in loco (anche se c’è sempre il rischio che queste reti viaggino al confine della legalità, com’è, a parere di alcuni, nel caso del vietnamita Dong Xuan Center di Lichtenberg a Berlino, o del giro di manodopera attorno al porto di Amburgo). Ma per far sì che i nuovi arrivati non siano né si sentano destinati solo ai lavori più umili (non ripercorrano cioè la sorte dei Gastarbeiter degli anni ’60), è essenziale insistere sin dal principio sull’apprendimento della lingua, istituire scuole di alto livello nei quartieri più disagiati (si cita sempre il caso del Campus Rütli di Neukölln a Berlino, antico istituto che nel 2006 pareva destinato alla chiusura per l’intollerabile livello di violenza e che da allora è stato invece riqualificato e rilanciato), creare biblioteche pubbliche che facciano concorrenza ai centri di indottrinamento religioso, e soprattutto – come illustrano anche molte foto della mostra berlinese – dare un gran peso alla cerimonia del conferimento della cittadinanza, rendendola de facto una forma di iniziazione civile.
La Germania, ricorda il sociologo Walter Siebel, ha creato un minor numero di quartieri-ghetto rispetto a Paesi gravati da una più lunga e più tormentata storia coloniale (il padiglione offre uno squarcio ottimista anche su Offenbach am Main, in Assia, forse uno degli agglomerati più problematici da questo punto di vista): dinanzi alle crisi dei rifugiati, il Paese ha anche escogitato soluzioni abitative interessanti, sia a livello di prefabbricati sia a livello di nuovi quartieri: da Monaco a Mannheim ad Amburgo, vengono documentate in Biennale diverse soluzioni abitative. Tuttavia, la tecnica di queste costruzioni passa in secondo piano dinanzi alla loro dimensione squisitamente politica, se è vero – come ricorda Emily Bromwell in una ricerca condotta in questi mesi presso il Max-Planck-Institut di Berlino – che tutto dipende in realtà da quanto “permanenti” o “provvisorie” vengono considerate le strutture in questione (e dunque, di riflesso, i soggiorni di chi le abita), da quanto cioè esse possano o debbano assomigliare a una casa vera. Di per sé, il “Better Shelter” promosso l’anno scorso da Ikea e UNHCR è molto simile all’unità abitativa disegnata da Paul Lester Wiener durante la II guerra mondiale: tutto sta a vedere come questi rifugi, non di rado provvisoriamente definitivi, s’inseriscono nel tessuto urbano esistente.
È interessante notare che nella Biennale di quest’anno, dove il tema dei rifugiati contagia diverse partecipazioni nazionali, l’altro Padiglione interamente dedicato all’immigrazione e alle tematiche correlate è quello greco, che dispone bensì di uno spazio assai più limitato, ma preferisce utilizzarlo non solo per presentare modellini di progetti realizzati o realizzabili da Lesbo a Patrasso alla vexatissima quaestio dell’aeroporto Ellinikòn di Atene (passato da campo di rifugiati a parco di lusso in pectore), bensì anche per ospitare conversazioni e dibattiti internazionali sul fenomeno migratorio e in specie sulle esperienze di accoglienza “dal basso” di cui la Grecia è insospettabilmente ricca (chi legge il neogreco dovrebbe seguire il fantastico reportage di Nikos Belavilas attraverso i campi profughi del Paese; tutti possono invece contribuire al coraggioso esperimento di occupazione e riconversione per i migranti dell’albergo City Plaza nel centro di Atene). Non v’è dubbio, peraltro, che l’esito di questi incontri riesca spesso assai poco “istituzionale”, nel senso che anche la recente politica del governo Tsipras sui rifugiati, specie all’indomani dell’accordo di scambio con la Turchia, viene sottoposta ad aspre e motivate critiche.
A Berlino, l’investimento ideale della politica sul tema dell’immigrazione è chiaramente assai elevato, almeno quanto l’atavica paura che il popolo (“das Volk”, termine che dal 1989 ha assunto coloriture d’ogni tipo) ricada d’un tratto in dinamiche perverse già viste nei primi anni Trenta. Nel dibattito pubblico continua infatti l’onda lunga del fortunatissimo best-seller di Thilo Sarrazin “La Germania si distrugge da sola” (“Deutschland schafft sich selbst ab”, 2010), in cui la paura dell’invasione e della subalternità rispetto alle culture dei migranti è declinata sulle corde dell’indagine socio-demografica e del pamphlet identitario, in una prospettiva non troppo distante – ma perfino più virulenta – rispetto a quella che ha incarnato da noi Oriana Fallaci. Ma è sul piano dell’azione concreta che i segnali di allarme sono sempre meno sporadici: le manifestazioni di Pegida e NPD persistono ormai da anni senza accennare a spegnersi; gli attacchi di vario ordine e grado contro i migranti sono decuplicati nel 2015; in varie città i cosiddetti Reichsbürger (“cittadini del Reich”, negazionisti che odiano la democrazia e non riconoscono l’autorità dello Stato) sono arrivati a intralciare regolarmente l’attività dei tribunali tramite proteste e azioni di disturbo; soprattutto, preoccupa l’evoluzione del partito AfD (Alternative für Deutschland, già di impostazione conservatrice euroscettica), che rappresenta di fatto – stante l’abnorme persistenza della “große Koalition” fra Cristiano-democratici e Socialdemocratici – l’unica consistente offerta di opposizione politica, e ha virato ormai da un anno verso un estremismo di chiaro stampo xenofobo.
Ecco quindi che un’indagine sulla “società della paura” (una paura di agire che diventa paura del diverso, secondo il sociologo Heinz Bude) non può che terminare in uno dei maggiori teatri berlinesi, la Schaubühne, dove Falk Richter mette in scena il suo spettacolo “Fear“. Nella critica mordace della retorica nazionalista, omofoba e razzista, nella derisione degli ipocriti stereotipi della società tedesca, ma ancor più nella satira a tratti violenta di alcuni uomini politici dell’AfD (le sagome di alcuni di loro vengono letteralmente prese a pugni), Richter propone un testo che è quanto di più simile io ricordi alla commedia greca di Aristofane – solo declinata in una chiave “nera” e fondamentalmente tragica. Senza paura di “onomastì komodèin“, di “mettere in burla chiamando per nome”, si deridono i tic di Frauke Petry, le smorfie di Marine Le Pen, le pulsioni antiabortiste di Gabriele Kuby, o il passato dell’aristocratica Beatrix von Storch (nipote del ministro delle Finanze di Hitler): non è un caso che nel novembre scorso il partito di destra abbia tentato di bloccare lo spettacolo per le vie legali, senza peraltro riuscirvi. In “Fear” si mostrano le parole e le paure di quella vasta “zona grigia” dei quarantenni-cinquantenni incattiviti, i quali, partendo da una blanda e quasi cameratesca diffidenza nei confronti dello straniero, finiscono per trovare negli slogan xenofobi uno sbocco collettivo, e politico, al proprio disagio esistenziale. Dinanzi a un pubblico per lo più molto giovane, e per nulla turbato dagli eccessi verbali, gli attori – essi stessi tra i 20 e i 30 anni – rispettano il paradigma aristofaneo anche nel momento della “paràbasi”, ovvero quando l’interruzione della finzione scenica li fa ritornare ciò che sono nella realtà – Tedeschi meticci, figli di emigranti, ballerini nordamericani, biondissimi purosangue alternativi -, e li spinge a interrogarsi in un libero dialogo all’impronta sulla loro idea di società, sulle mistificazioni dei media, sul passato dei loro nonni (un po’ come Fassbinder e altri sfidavano quello dei loro padri), finendo a cantare con una chitarra e a piedi scalzi Fourth of July di Sufjan Stevens.
Né la Francia né l’Italia né l’Inghilterra (a tacere d’altri Paesi) stanno producendo uno sforzo comunicativo e ideologico paragonabile a quello che mobilita la Germania – in modi diversi, al livello istituzionale come a quello della cultura alternativa – per promuovere seriamente una cultura dell’accoglienza e dell’integrazione. Porre i problemi, discuterne anche con toni franchi, è un segno di civiltà; ma ovviamente non tutto è limpido: chi dimenticherà le lacrime della bimba palestinese dinanzi alle rigidità di Angela Merkel? quale politica redimerà la condanna tedesca della Grecia, una delle porte dell’Europa, a decenni di miseria? chi pagherà per l’infame accordo con la Turchia, propiziato in ogni modo proprio dalla Germania? e, per tornare ai fratellli Boateng, come non pensare che nella loro diversa riuscita abbia avuto un ruolo il fatto che l’uno ha trascorso l’infanzia con la madre nei bassifondi di Wedding e l’altro, il “contubernale dei celesti”, con il padre nel centro storico di Berlino?
Il tassista che mi porta a Schönefeld (un aeroporto piccolo e vecchio, mi spiega, niente a che vedere con quello nuovissimo che sta per aprire a Istanbul) è un sessantenne di Sanliurfa, che parla un tedesco semplice e dal forte accento turco: ha fatto per trent’anni l’operaio, poi la fabbrica ha chiuso e si è inventato questo nuovo mestiere; ora spera di sistemare il figlio, attualmente disoccupato, e di poter tornare finalmente a invecchiare nella sua Anatolia. Lui, mi dice, ama la pace, sia con la Russia sia con Israele sia – nei limiti del ragionevole – con i Curdi. È un grande ammiratore di Erdogan, e spera che faccia presto a completare il muro che separa la sua patria dal nord della Siria, perché i Siriani sono un problema. È grato alla Germania, che ha strutturato la sua vita adulta attorno al lavoro e al rispetto. È anche, mi confessa sommessamente sapendomi Italiano, un grande fan di Mesut Özil.