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  • Lunedì 4 luglio 2016

I liberisti devono fare autocritica

Lo dice l'Economist, che si mette tra i liberisti, e ammette che la globalizzazione ha portato vantaggi a molti ma non a tutti

La manifestazione contro l'uscita del Regno Unito dall'Unione Europea che c'è stata a Londra il 2 luglio 2016 (Ik Aldama/picture-alliance/dpa/AP Images)
La manifestazione contro l'uscita del Regno Unito dall'Unione Europea che c'è stata a Londra il 2 luglio 2016 (Ik Aldama/picture-alliance/dpa/AP Images)

In un editoriale pubblicato il 2 luglio, l’Economist ha analizzato le ragioni per cui i cittadini del Regno Unito hanno votato per uscire dall’Unione Europea e ha fatto una specie di autocritica, sottolineando come chi crede nella globalizzazione – e l’Economist si mette tra questi – deve ammettere gli errori fatti dai politici che l’hanno promossa negli ultimi vent’anni. L’Economist parte dalla tesi per cui il voto della maggioranza dei cittadini britannici contro l’Unione Europea sia in sostanza un voto contro la globalizzazione, e soprattutto di alcuni suoi pezzi fondamentali come il libero mercato, la concorrenza, la libera circolazione delle persone e delle merci da una nazione all’altra, la perdita di importanza e sovranità delle singole nazioni a vantaggio di organismi sovranazionali.

Dal crollo dell’Unione Sovietica, scrive l’Economist, non è rimasta in circolazione nessuna forte ideologia a mettere in discussione la democrazia, e questo ha portato a trascurare alcuni problemi sulla vita nei sistemi democratici e capitalisti. La caduta del blocco sovietico “fu il più grande trionfo del liberismo, ma fece nascere un ambiente politico circoscritto, tecnocratico e ossessionato dalle procedure”. Per questo, nonostante le condizioni di vita della maggioranza delle persone siano globalmente migliorate, molti si sono sentiti trascurati: e nel caso del referendum britannico lo hanno dimostrato col voto.

Scrive l’Economist: “La loro rabbia è giustificata. I sostenitori della globalizzazione, compresa questa rivista, devono riconoscere che i tecnocrati hanno fatto degli errori e le persone comuni ne hanno pagato il prezzo. L’introduzione di una moneta europea imperfetta, una strategia tecnocratica per eccellenza, ha portato all’immobilità e alla disoccupazione e sta disgregando l’Europa”. La critica non è rivolta solo ai politici e ai burocrati dell’Unione Europea, ma più generale. E anche i complicati strumenti finanziari che hanno ingannato i legislatori e hanno danneggiato l’economia mondiale, facendo pagare ai contribuenti i salvataggi delle banche, sono considerati parte del problema.

L’Economist ammette che anche se la globalizzazione ha portato grandi benefici a tantissimi, i politici non hanno fatto abbastanza per aiutare chi ci ha rimesso. Un esempio sono le persone che lavoravano nelle fabbriche europee e hanno perso il proprio posto di lavoro a causa della delocalizzazione verso la Cina e altri paesi: i prezzi dei prodotti per i consumatori occidentali si sono abbassati, e centinaia di milioni di persone dei paesi in via di sviluppo sono uscite dalla povertà, ma molti operai non sono riusciti a trovare nuovi impieghi con uno stipendio equo.

“Invece che distribuire i vantaggi della globalizzazione dappertutto, i politici si sono concentrati su qualcos’altro. La sinistra è passata a occuparsi di cultura: delle questioni legati al razzismo, all’ambiente, ai diritti umani e alle discriminazioni basate sul genere o sull’orientamento sessuale. La destra invece ha predicato il miglioramento individuale attraverso la meritocrazia, ma non è riuscita a garantire a tutti la possibilità di partecipare al gioco. Le orgogliose comunità industriali che danno valore alle famiglie e senso della nazione si sono sentite escluse e hanno vissuto un periodo di declino. La sensazione di essere stati traditi è stata amplificata da slogan ingannevoli, rilanciati da media faziosi”.

Secondo l’Economist, poi, anche i fondamenti ideologici del liberismo sono stati trascurati. Quando Donald Trump ha citato gli slogan della campagna per Brexit dicendo che gli americani devono “riprendere il controllo” del loro paese, stava in qualche modo sfruttando il fatto che nessun politico difende i vantaggi del progresso portato dal liberismo economico. Questo perché per molte persone il progresso è “quello che accade alle altre persone”. Negli Stati Uniti il PIL è cresciuto del 14 per cento tra il 2001 e il 2015, ma il valore mediano degli stipendi (cioè non quello medio, tirato su dai pochi che guadagnano tanto, ma quello per cui la metà delle persone di un paese guadagnano più di così, l’altra metà meno) è cresciuto solo del 2 per cento.

Il referendum su Brexit ha fatto sì che l’Unione Europea – da sempre percepita come “distante, incomprensibile e prepotente” – diventasse il bersaglio di chi ha sentito di non essere più in grado di dirigere la propria vita e non avere ottenuto alcun beneficio dalla globalizzazione. Per l’Economist questo significa che chi crede nel liberismo, che si tratti di politici o giornali, deve riuscire a sfidare persone come Donald Trump o Marine Le Pen trovando un linguaggio nuovo. Inoltre deve trovare un modo per far ripartire la mobilità sociale e assicurarsi che la crescita economica si traduca in un aumento del valore degli stipendi per il maggior numero di persone possibili. Per fare ciò, secondo l’Economist, è necessario eliminare i privilegi che rendono la vita di alcune persone più facile di quella di altre: per esempio riformare il sistema dell’istruzione, in modo che funzioni per persone di tutte le età, a prescindere dal contesto sociale in cui sono nate. Dal punto di vista economico, invece, secondo l’Economist la politica deve favorire la concorrenza, così da ridurre il peso delle rendite di posizione. Bisogna invece evitare, secondo l’Economist, che lo stato aiuti chi è in difficoltà come se facesse la carità.

L’ultima parte dell’editoriale è dedicata alla questione dell’immigrazione. L’Economist sottolinea come la libertà di movimento all’interno dei paesi dell’Unione Europea sia un elemento unico, che non si trova in altri posti del mondo.

“Così come le regole del commercio globale permettono ai paesi di compensare l’aumento delle merci disponibili, così si potrebbero introdurre delle regole per l’aumento del numero di persone che arrivano da altri paesi. Ma sarebbe illiberale e controproducente arrendersi all’idea che l’immigrazione sia solo un fenomeno da accettare e sopportare. Prima di ridurre il numero di persone che possono entrare in un paese, i governi dovrebbero investire nelle scuole, negli ospedali e negli alloggi. Nel Regno Unito le persone che arrivano dai paesi dell’Unione Europea contribuiscono alle finanze dello stato molto più di quanto portino via. Senza di loro settori come quelli della cura delle persone e dell’edilizia avrebbero un problema di carenza di forza lavoro. Senza le loro idee e la loro energia, sarebbe il Regno Unito a perderci di più”.