Dove sono tutti quanti?
Un estratto del nuovo libro di Amedeo Balbi su com'è nata la vita sulla terra e la ricerca di esseri viventi negli altri pianeti
Rizzoli ha pubblicato il libro Dove sono tutti quanti? di Amedeo Balbi, astrofisico che insegna all’Università di Tor Vergata a Roma, autore di diversi libri di divulgazione scientifica fra i quali Cercatori di meraviglia, Il buio oltre le stelle e Cosmicomic (con Rossano Piccioni), e blogger del Post.
Nel libro Balbi parla della ricerca di forme di vita diverse dalla nostra nell’universo partendo dai suoi primi ricordi di bambino negli anni ’70 con 2001: Odissea nello spazio, Goldrake, Spazio 1999 e il libro di Piero Angela Nel cosmo alla ricerca della vita. Dopo aver raccontato le ricerche scientifiche sulle condizioni che hanno favorito lo sviluppo della vita sulla terra, Balbi esamina quali possano essere i pianeti sui quali si possano trovare condizioni simili, e quindi dove si potrebbero trovare altre forme di vita. Questo è un estratto dal libro.
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Quanto è probabile che la catena di circostanze che ha portato alla comparsa delle prime forme di vita si sia ripetuta più volte, nella stessa forma o in modi molto diversi, sulla Terra o altrove? L’origine degli organismi viventi è stata uno scherzo del caso oppure, al contrario, un risultato praticamente inevitabile delle regole in base a cui funziona la realtà? È questo il vero dilemma per chi si chiede se esista altra vita nell’universo. Due biologi premi Nobel vengono spesso citati come esempio di posizioni opposte sulla questione. Il primo è Jacques Monod, che nel suo libro Il caso e la necessità scriveva: «La vita è comparsa sulla Terra: ma quale era, prima di questo avvenimento, la probabilità che esso si verificasse? […] Al momento attuale non abbiamo alcun diritto di affermare, né di negare, che la vita sia apparsa una sola volta sulla Terra e che, di conseguenza, prima che essa comparisse le sue possibilità di esistenza erano pressoché nulle. […] L’universo non stava per partorire la vita, né la biosfera l’uomo.
Il nostro numero è uscito alla roulette: perché dunque non dovremmo avvertire l’eccezionalità della nostra condizione, proprio allo stesso modo di colui che ha appena vinto un miliardo?». Il secondo, all’altro estremo, è Christian de Duve, il quale ribalta le parole di Monod parlando della vita come di un “imperativo cosmico”: «È auto-evidente che l’universo era gravido della vita, e la biosfera dell’uomo. Altrimenti, noi non saremmo qui».
Chi ha ragione? Diciamo che la mia propensione per l’una o l’altra posizione varia molto in base all’umore: se mi sveglio male sto con Monod, se è una bella giornata con De Duve. Ma la mia sensazione è che, da un punto di vista puramente metodologico, abbiano torto entrambi. La verità è che non possiamo trarre nessuna conclusione generale a partire da un evento di cui conosciamo un unico caso. Per di più, come ho già detto, noi non siamo spettatori obiettivi: il nostro punto di vista è molto particolare, e rischia di alterare le conclusioni. Se anche l’origine della vita fosse unica in tutto l’universo, noi, come dice Monod, saremmo comunque quelli che hanno pescato il numero fortunato. Ecco perché il ragionamento di De Duve («La vita doveva emergere, altrimenti non saremmo qui») è certamente fallace, ma anche il pessimismo di Monod è ingiustificato dai fatti. Semplicemente, ancora non sappiamo. Inoltre, come fa notare il chimico Addy Pross nel libro What Is Life, tra i due estremi esiste tutto uno spettro di possibilità. Il verificarsi di uno stesso fenomeno fisico, per esempio una nevicata invernale (uso l’esempio di Pross), può essere virtualmente certo in alta montagna, praticamente impossibile in un deserto, e più o meno probabile in altre località. Allo stesso modo, alcuni posti dell’universo potrebbero essere più adatti di altri all’origine della vita, e il fatto di essere nati in uno dei posti dove l’evento si è verificato non ci autorizza a trarre conclusioni, in un senso o nell’altro, sull’abbondanza di altri posti simili. (Da quando sono nato, ho visto solo un paio di nevicate importanti a Roma, ma non per questo credo che la neve sia un evento miracoloso o ugualmente raro in ogni altra città del mondo.)
Un evento unico è, per sua natura, inspiegabile. La comprensione scientifica della realtà è basata sulla ricerca di regolarità, di schemi, di leggi, e quindi di ripetizioni dello stesso processo. Ecco un altro motivo per cui sono convinto che cercare la vita al di fuori della Terra sia importantissimo. È probabilmente il solo modo che abbiamo per sperare di trarre qualche conclusione generale sul problema dell’origine della vita.
Va bene, ma se vogliamo cercare la vita altrove, dovremmo almeno sapere che cosa stiamo cercando, no? E lo sappiamo, che cos’è la vita? Non proprio, purtroppo. Si potrebbe dire la stessa cosa che sant’Agostino diceva a proposito del tempo: «Se nessuno me lo chiede, so che cos’è, ma se mi si chiede di spiegarlo, non lo so più». Esistono molti tentativi (alcuni testi specialistici ne elencano centinaia, addirittura) di definire la vita: e se sono così tanti va da sé che siano tutti discutibili, per un verso o per l’altro. Alcune definizioni sono troppo restrittive, altre troppo vaghe, molte sono in contraddizione tra loro, e per ognuna si possono trovare eccezioni ovvie – ovvero sistemi chiaramente non viventi che rientrano nella definizione e sistemi viventi che non ci rientrano. Tutte si scontrano con lo stesso problema di fondo: abbiamo un unico esemplare di fenomeno da classificare, non abbiamo una spiegazione completa di come sia sbucato fuori e non sappiamo quali delle sue caratteristiche siano indispensabili e quali accidentali. Insomma, detta fuori dai denti, stiamo tentando di definire una cosa che non capiamo completamente.
In ogni caso, per mantenere le cose semplici, mi limito a dare la definizione che è stata stabilita nel 1992 da un comitato di esperti riunito dalla NASA. È la più diffusa, e ha il pregio di essere sintetica e di basarsi su poche caratteristiche condivise da tutti gli esperti. Eccola qui:
«Un sistema chimico autosufficiente, capace di evoluzione darwiniana».
Tutto qui? Tutto qui. In realtà, però, se solo volessi sviscerare tutto ciò che questa definizione sottintende, ci vorrebbe un altro libro. In quelle poche parole c’è praticamente tutto: la capacità di replicarsi, il fatto di avere accesso a fonti di energia esterne e di essere in grado di usare l’energia per il proprio sostentamento e la propria sopravvivenza, la possibilità di mutare e andare incontro a selezione naturale eccetera. L’altra cosa che mi pare interessante della definizione NASA è che è una definizione “operativa”, una lista minima di criteri da usare per provare a riconoscere la vita, se dovessimo trovare da qualche parte qualcosa che le somiglia.
Ma alla fine c’è un criterio, più generale di ogni altro, che credo dovremmo tenere sempre a mente. Ed è che la vita non è un processo arcano, separato dal funzionamento del resto dell’universo: è materia organizzata in forme straordinarie e complesse, ma pur sempre materia. E la linea di confine tra ciò che è vivente e ciò che non lo è diventa sempre più incerta man mano che scendiamo verso livelli inferiori di complessità. Non sentiamoci speciali, anche in questo. E se un giorno (e quanto vorrei esserci, quel giorno) ci ritroveremo a dover stabilire se uno strano aggregato di molecole, incontrato per caso su un altro pianeta, possa essere considerato un nostro simile, ricordiamoci che noi stessi siamo parenti stretti di muffe e batteri – discendenti diretti di minuscoli e umili organismi che non hanno mai scritto libri o scoperto teoremi, ma che miliardi di anni fa hanno inventato questo gioco straordinario e sempre nuovo che chiamiamo vita.
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