Il padrone della Turchia
Fino a pochi anni fa Erdoğan era considerato un modello da seguire per tutti gli stati islamici, oggi molti lo definiscono un "dittatore": come ci siamo arrivati?
di Elena Zacchetti – @elenazacchetti
«Volevamo un sistema presidenziale ma il popolo non l’ha approvato». Nel giugno del 2015, poco dopo le elezioni parlamentari in Turchia, il primo ministro Ahmet Davutoğlu espresse pubblicamente la delusione che stavano vivendo molti sostenitori del Partito Giustizia e Sviluppo (AKP). L’AKP – il partito al governo a cui appartiene anche il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, di orientamento islamista e conservatore – non era riuscito a ottenere la maggioranza per governare da solo, e anche i tentativi di formare una coalizione non erano andati a buon fine. La delusione era doppia perché Erdoğan, che dell’AKP è considerato il capo assoluto, puntava a ottenere una “supermaggioranza”: quella che gli avrebbe permesso di cambiare la Costituzione e dare al presidente – cioè a se stesso – molti più poteri.
Fino a quel momento Davutoğlu era considerato molto fedele a Erdoğan: d’altra parte era stato scelto proprio da Erdoğan per succedergli alla guida del partito e poi come braccio destro al governo, con l’incarico da primo ministro. Quella frase, hanno scritto in diversi, Erdoğan non gliel’ha mai perdonata. Poco più di una settimana fa Davutoğlu ha annunciato le sue dimissioni da primo ministro e ha aggiunto che non si candiderà come prossimo leader al congresso dell’AKP che si terrà il 22 maggio, senza una ragione ufficiale precisa.
Davutoğlu ha continuato a difendere e sostenere Erdoğan, come sempre («Non mi sentirete dire mai una cosa negativa sul nostro presidente. La mia lealtà verso di lui rimarrà fino alla fine»). Ma molti giornalisti ed esperti di Turchia hanno parlato di una rottura tra i due, dovuta a profonde divisioni su parecchi temi: non solo sui poteri presidenziali ma anche sull’atteggiamento della Turchia nei confronti dell’Unione Europea, sui bombardamenti contro i curdi e sugli arresti arbitrari di giornalisti e accademici turchi vicini alle opposizioni. Davutoğlu era visto da molti come una sorta di cuscinetto tra le estese ambizioni di Erdoğan e le richieste di maggiore democrazia fatte da Stati Uniti ed Europa alla Turchia: alcuni lo vedevano come una specie di freno alla deriva autoritaria che sembra avere preso Erdoğan da diverso tempo a questa parte («La marcia di Erdoğan verso la dittatura in Turchia», ha titolato il New Yorker; «Il re di Turchia», ha titolato Foreign Policy; «Il primo ministro turco si è dimesso. È un segno pericoloso per la democrazia in Turchia», ha titolato Vox; «Erdoğan è l’unico padrone della Turchia», ha titolato Le Monde; «Si istituisce il neosultanismo in Turchia», ha titolato El País).
Recep Tayyip Erdoğan e Ahmet Davutoğlu ad Ankara, il 18 febbraio 2016. Tra l’élite politica dell’AKP, il primo è chiamato “Reis”, il capo; il secondo “Hoca”, il professore. (AP Photo/Burhan Ozbilici)
Erdoğan è uno dei leader politici più osservati e discussi al mondo. È a capo di un enorme stato a maggioranza musulmana che sta trattando per entrare nell’Unione Europea e allo stesso tempo è molto invischiato nelle complicate vicende del Medio Oriente. Fino a non molto tempo fa, commentatori e analisti occidentali parlavano della Turchia come di un “modello” per gli altri stati a maggioranza islamica: sembrava che Erdoğan fosse riuscito a stabilire un governo democratico, oltretutto membro della NATO. Poi le cose sono cominciate ad andar male ed Erdoğan, che in Occidente era considerato “uno dei buoni”, è diventato “uno dei cattivi”. Ha cominciato a sbarazzarsi rozzamente dei suoi avversari e a trasformare la Turchia in un regime autoritario. In molti si chiedono oggi come sia potuto succedere: come un ragazzo di un quartiere operaio di Istanbul sia diventato un sindaco, un primo ministro e poi un presidente popolarissimo; e come da modello democratico si sia trasformato nell’unico padrone della Turchia.
Il quartiere Kasımpaşa di Istanbul, dove è cresciuto Erdoğan
Erdoğan è cresciuto a Kasımpaşa, un quartiere operaio della parte europea di Istanbul. Quando era ragazzo, la sua famiglia lo mandò a studiare alla scuola Imam Hatip, un posto nel quale gli studenti ricevevano un’educazione religiosa e in teoria si preparavano a diventare imam. Nella realtà le cose erano un po’ diverse. Allora, tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta, lo stato turco scoraggiava le manifestazioni di devozione religiosa: l’impronta laica data al paese dal fondatore della Turchia, Kemal Atatürk, era ancora molto forte ed era difesa con durezza dall’esercito. Le scuole religiose erano tra i pochi posti dove i ragazzi potevano studiare l’Islam, anche se poi non tutti sarebbero diventati imam. Era una Turchia diversa da quella di oggi – dove l’Islam non è più malvisto – e lo sarebbe stata ancora per molto tempo.
Nel 1997, quando Erdoğan era già il popolare sindaco di Istanbul, l’esercito turco fece un colpo di stato contro l’allora primo ministro Necmettin Erbakan, un islamista che tra le altre cose si era opposto ai piani per l’entrata della Turchia nell’Unione Europea. Erbakan, che era il mentore di Erdoğan, fu costretto a dimettersi; quattro partiti islamisti turchi furono messi fuori legge. Nello stesso periodo passò dei guai anche Erdoğan, che dopo avere letto pubblicamente un poema che parlava di Islam fu condannato a dieci mesi di prigione per “incitamento all’odio religioso”. Oggi, naturalmente, niente di tutto questo potrebbe succedere.
L’allora sindaco di Istanbul, Recep Tayyip Erdoğan, e il sindaco di Ankara suo alleato, Melih Gokcek, durante una conferenza stampa a Istanbul, il 22 aprile 1998. All’interno del libro mostrato da Erdoğan era contenuto il poema che era costato a Erdoğan la condanna per “incitazione all’odio religioso” (AP Photo/Murad Sezer)
A Kasımpaşa c’era anche uno dei ritrovi preferiti da Erdoğan: il Palazzo, un bar frequentato quasi esclusivamente da uomini. Nel 2012 Dexter Filkins, bravo ed esperto giornalista del New Yorker, andò a vedere come era fatto questo posto e ne parlò nell’articolo “The Deep State”, “Lo stato profondo”. Filkins scrisse che le pareti del caffè erano tappezzate di foto di Erdoğan: ce n’erano parecchie risalenti a quando era sindaco di Istanbul e primo ministro, e una molto grande scattata al World Economic Forum di Davos nel 2009. Quel giorno Erdoğan fece una cosa di cui si parlò per molto tempo: si rivolse con fare aggressivo al presidente israeliano Shimon Peres e gli urlò in inglese: “Un minuto!”. E poi: “Quando si tratta di uccidere, tu sai bene come fare”. Era un segno che Erdoğan stava rimescolando le tradizionali alleanze della Turchia: si stava allontanando da Israele e avvicinando ai governi islamisti del Medio Oriente, proprio come aveva tentato di fare prima di lui Erbakan. Come scrisse Filkins:
Per anni i leader della Turchia avevano tracciato un percorso solitario nella regione, costruendo uno stretto rapporto con Israele. Erdoğan aveva dimostrato in maniera teatrale ai presenti e a tutto il mondo che Israele non avrebbe più dovuto dare per scontata la sua amicizia con la Turchia. Quando Erdoğan atterrò a Istanbul, fu accolto da una folla con le bandiere palestinesi e turche.
Lo “stato profondo” a cui non piaceva Erdoğan
Prima dell’arrivo di Erdoğan, in Turchia si era sempre cercato di mantenere il cosiddetto “ordine kemalista”, quello voluto nel 1923 da Kemal Atatürk, il fondatore del moderno stato turco. Per noi europei è difficile capire il culto che viene tenuto vivo in Turchia nei confronti di Atatürk, perché oggi in Europa non c’è niente che si avvicini a quella cosa lì: la faccia di Atatürk è ovunque – negli uffici, nelle case, disegnata in dimensioni enormi per le città – e le sue idee continuano a condizionare la politica turca ancora oggi.
Atatürk aveva fondato uno stato laico e anti-comunista, soprattutto. Nei primi ottant’anni di storia della Turchia l’esercito turco organizzò con successo quattro colpi di stato che rimossero dei governi accusati di allontanarsi dall’ordine kemalista. Nel 1980, dopo un colpo di stato che portò alla morte e all’incarcerazione di decine di migliaia di persone, l’esercito riscrisse la Costituzione per garantirsi il diritto di destituire governi civili democraticamente eletti.
I kemalisti riuscirono a mantenere il loro ordine anche grazie all’alleanza con il derin devlet, lo “stato profondo” che Filkins ha descritto così sul New Yorker: «una presunta rete clandestina di militari e civili che per decenni ha represso e a volte ucciso dissidenti, comunisti, giornalisti, islamisti, missionari cristiani e membri di minoranze religiose – chiunque fosse visto come una minaccia all’ordine secolare stabilito nel 1923 da Atatürk. Lo stato profondo, dicono gli storici, ha funzionato come una specie di governo ombra, diffondendo propaganda per aumentare le paure della popolazione o destabilizzare i governi civili che non erano di suo gradimento». Tra le altre cose, lo stato profondo fu centrale nel combattere la ribellione curda, molto intensa nel sud della Turchia negli anni Ottanta e Novanta. I suoi membri agivano così impunemente che per un periodo sequestrarono gli attivisti curdi usando sempre lo stesso tipo di macchina: una Renault berlina bianca.
Quando Erdoğan divenne per la prima volta primo ministro della Turchia, nel 2003, molti erano convinti che sarebbe durato poco. Il suo partito, l’AKP, voleva una Turchia diversa da quella che avevano difeso fino a quel momento i kemalisti: voleva un paese con un forte orientamento islamico e conservatore. Contro ogni previsione, però, Erdoğan è riuscito a imporre il suo modello. Il nemico kemalista è stato sostituito di volta in volta da altri nemici, alimentando uno dei segni più evidenti del potere del presidente: l’idea di difendersi dall’accerchiamento e dalla cospirazione, l’urgenza di fermare un imminente colpo di stato. Negli ultimi due anni e mezzo il nuovo nemico di Erdoğan è diventato Fethullah Gülen, un religioso di 74 anni che predica una versione moderata dell’Islam e che dal 1999 vive in un esilio auto-imposto negli Stati Uniti: attorno a Gülen sono ruotate molte delle crisi politiche recenti che hanno coinvolto il governo turco e l’idea che Hizmet – “Servizio”, il movimento fondato da Gülen – voglia destituire Erdoğan ha sostituito nella retorica del presidente il ruolo attribuito in precedenza ai kemalisti.
Fethullah Gülen a Saylorsburg, in Pennsylvania, Stati Uniti (AP Photo/Selahattin Sevi, File)
Com’è la Turchia di Erdoğan: le donne e l’incredibile storia di Zaman
Soner Cagaptay, che si occupa di Turchia per il Washington Institute for Near East Policy, ha descritto Erdoğan come il politico più potente della Turchia dal 1950, quando il paese si trasformò in una democrazia multipartitica. Erdoğan diventerà presto anche il politico che è stato di più al potere nella storia moderna della Turchia: nel 2019, alla scadenza del suo mandato presidenziale, saranno 17 anni, due in più dei 15 di Atatürk.
I critici di Erdoğan sostengono che lui voglia allontanarsi definitivamente dall’eredità politica di Atatürk e ritornare a qualcosa di simile all’impero Ottomano. Alcuni segni di questa trasformazione sono già evidenti. Cagaptay sostiene che in Turchia l’intero sistema educativo laico sia in grave pericolo: negli ultimi sei anni il numero delle scuole Imam Hatip – le stesse che frequentò Erdoğan da ragazzo – è più che raddoppiato, e allo stesso tempo tempo le migliori scuole laiche del paese sono diventate praticamente inaccessibili per la maggior parte degli studenti turchi. Poi ci sono le posizioni di Erdoğan nei confronti delle donne, molto riprese e criticate anche dalla stampa internazionale; per esempio nel novembre 2014 Erdoğan disse: «Non si può creare la parità tra uomini e donne: è qualcosa contro natura, perché la loro stessa natura è diversa». Oggi in Turchia le donne ai posti di potere sono molte meno rispetto a quello che succedeva con Atatürk, quando erano il 28 per cento dei giudici e procuratori e il 36 per cento di tutti gli accademici.
A voler citare solo i temi più rilevanti, la Turchia di Erdoğan sta facendo parlare molto di sé per altre due cose: l’incarcerazione di giornalisti e accademici considerati oppositori del governo – o a volte che hanno semplicemente twittato qualcosa contro il presidente – e la diffidenza nei confronti dell’Unione Europea, due temi su cui Erdoğan si è scontrato con Davutoğlu.
I casi di arresti arbitrari sono stati parecchi in questi ultimi anni. Una delle vicende più incredibili ha riguardato Zaman, il principale quotidiano turco che aveva raccontato in maniera molto critica gli scandali di corruzione che avevano coinvolto il governo di Erdoğan. Nel dicembre 2014 la polizia aveva arrestato il direttore di Zaman con l’accusa di voler progettare un colpo di stato; nel marzo di quest’anno le autorità hanno sequestrato l’intero giornale e hanno cominciato a pubblicare articoli filo-governativi, tra l’incredulità di giornalisti ed esperti. Come molti altri settori della società turca – magistrati, forze dell’ordine e persino membri dell’AKP – Zaman è stato accusato di essere una “organizzazione terrorista Fethullahista”, cioè vicina a Fethullah Gülen.
So-called trustees have made seized Zaman daily a kind of Erdogan's propaganda machine in hours..https://t.co/uX1zaetAp5
— Bulent Kenes 🇺🇦 (@bkenes) March 6, 2016
Non è andata molto meglio due giornalisti di Cumhuriyet, importante giornale di opposizione, che sono stati condannati a cinque anni di carcere per avere diffuso segreti di stato: avevano pubblicato un video che mostrava la gendarmeria e la polizia turca fermare alcuni camion con a bordo delle casse che secondo Cumhuriyet contenevano armi e munizioni mandate in Siria dai servizi segreti turchi, e dirette ai ribelli islamisti che combattono contro il presidente siriano Bashar al Assad.
La religione al centro della politica estera di Erdoğan
«Erdoğan ha fatto della religione il centro della politica estera della Turchia», ha scritto Soner Cagaptay su Politico. Da quando è diventato primo ministro, Erdoğan ha cominciato ad avvicinarsi a diversi movimenti islamisti del Medio Oriente, tra cui Hamas, alcune fazioni ribelli islamiste in Siria e i Fratelli Musulmani in Egitto: secondo Cagaptay, così facendo la Turchia è entrata in competizione con altri gruppi islamici radicali sulla definizione di “vero Islam” e si è allontanata dalle posizioni degli altri membri della NATO, organizzazione di cui la Turchia fa parte. Erdoğan, spinto anche dall’esercito, ha ricominciato a bombardare i curdi al di là del confine con l’Iraq e la Siria, e a compiere enormi operazioni di polizia nel sud della Turchia, dove sono concentrate le attività del PKK (il Partito dei Lavoratori del Kurdistan che combatte per ottenere l’indipendenza dallo stato turco).
Il tema di politica estera su cui si sono concentrati di più i giornali internazionali è stato però il rapporto con l’Unione Europea, favorito da Davutoğlu e osteggiato da Erdoğan. Già in passato Erdoğan aveva espresso la sua frustrazione per le lentezze del processo di entrata della Turchia nell’Unione Europea; di recente le sue dichiarazioni si sono fatte più dure. Per esempio la scorsa settimana Erdoğan ha annunciato la sua intenzione di non introdurre le norme antiterrorismo richieste dall’accordo che il governo turco ha trovato con l’Unione Europea per la regolazione dei flussi dei migranti: «Noi andiamo per la nostra strada, voi per la vostra», ha detto Erdoğan. Reuters ha scritto che diversi governi europei credono che questo sarà l’atteggiamento generale della Turchia anche in futuro, dopo l’annuncio delle dimissioni di Davutoğlu.
Diversi esperti hanno scritto che le dimissioni di Davutoğlu rafforzeranno ancora di più il potere di Erdoğan, accelerando la trasformazione della Turchia in uno stato autoritario. Questa tendenza potrebbe essere in qualche modo mitigata dall’esercito turco: secondo il Wall Street Journal i militari stanno recuperando il ruolo che hanno avuto per diversi decenni e sono gli unici in grado di creare un contrappeso al potere di Erdoğan. Il problema, comunque, è che Stati Uniti e Unione Europea sono stati finora molto restii a dissociarsi dal governo turco: per ragioni politiche, non ideali. Oggi la Turchia è uno stato troppo importante per provare a gestire le crisi in Medio Oriente e bloccare il flusso dei migranti della cosiddetta “rotta balcanica”. L’ha spiegato bene Filkins in un articolo pubblicato sul sito del New Yorker il 31 marzo:
In circostanze normali, ci si sarebbe aspettato che la marcia di Erdoğan verso l’autoritarismo provocasse critiche o anche sanzioni economiche. Ma da quando ha preso il potere, nel 2009, il presidente Obama ha trattato Erdoğan come un alleato e un amico. La sua amministrazione ha continuato a farlo anche dopo gli attacchi a Zaman e Cumhuriyet. Perché? Perché gli Stati Uniti hanno un disperato bisogno della Turchia, un paese a maggioranza musulmana, nella lotta contro lo Stato Islamico. La Turchia non è stata utile nemmeno rispetto a questo obiettivo – si è concentrata sul bombardare i curdi nel nord-est della Siria, i più importanti alleati degli Stati Uniti nel paese – e ci sono alcuni segnali che fanno pensare che la posizione di Obama stia cambiando. Nell’intervista che ha dato a Jeffrey Goldberg, giornalista dell’Atlantic, Obama ha detto che una volta vedeva Erdoğan come un moderato: ora lo vede come una figura autoritaria e un fallimento.