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  • Venerdì 22 gennaio 2016

Istanbul, Colonia e la Germania

Filippomaria Pontani esamina le conseguenze di mesi complicati per la politica e le prospettive tedesche, partendo da lontano

di Filippomaria Pontani

(Maja Hitij/picture-alliance/dpa/AP Images)
(Maja Hitij/picture-alliance/dpa/AP Images)

La sera dopo l’attentato al quartiere Sultahnamet di Istanbul, uno dei più importanti scrittori tedeschi ha presentato presso la Casa di Brecht di Berlino il suo romanzo Quartiere delle sette torri. Lui si chiama Feridun Zaimoglu, è nato in Anatolia nel 1964 ed è noto al pubblico italiano grazie al duro racconto di integrazione Schiuma (pubblicato da Einaudi nel 1999). In Quartiere delle sette torri, Zaimoglu racconta la storia di un bambino tedesco emigrato nell’Istanbul degli anni d’oro della neutralità, compreso fra l’inizio della Seconda guerra mondiale fino al momento prima del ripiegamento nazionalistico coi pogrom del settembre del 1955.

Nel rimarcare la natura vivacemente multietnica di quella città – quando ceceni, greci, occidentali e perfino armeni e curdi vivevano nelle stesse strade, nella fattispecie Yedikule, appunto il quartiere delle sette torri – Zaimoglu è molto netto sulla situazione odierna: individua nella società turca contemporanea un problema di rozzezza, ben visibile a livello macroscopico nella criminalizzazione del giornalismo indipendente, degli intellettuali (si arriva a incriminare i professori), e nella progressiva marginalizzazione delle donne (non quelle, elegantissime e disinvolte, che ballano il tango nei loft di piazza Taksim: le altre, la maggioranza silenziosa). Una rozzezza legata a doppio filo alla violenza onnipresente nel Paese sin dai tempi di Mustafa Kemal “Atatürk”.

Già ben prima dell’attuale governo fortemente filoislamico di Erdogan, anche il kemalismo – accusa Zaimoglu – presentava forti aspetti autoritari (memorabile la scena del primo giorno di scuola del protagonista, catapultato nel ’39 direttamente dal III Reich all’indottrinamento kemalista), predicava il sospetto verso la libertà individuale, non venerava la democrazia (si pensi alla dinamica che ha portato al colpo di stato militare del 1980), e ostentava uno sprezzo laicista nei confronti della superstizione che ha finito per favorire, anche per effetto di reazione, i moti integralisti dal governo di Necmettin Erbakan in poi. Così, l’attentato di Sultahnamet appare oggi come una goccia nel mare di un’Anatolia spettrale, assediata dai morti di guerra nel Sudest, dai morti per acqua sulle spiagge dell’Egeo, dai morti per bomba nelle esplosioni che punteggiano gli ultimi mesi; e il popolo, smarrito, si convince – per dirla con un personaggio alla fine del romanzo di Zaimoglu – che la Turchia sia un Paese maledetto, senza guida né speranza.

L’attentato di Istanbul apre nell’opinione pubblica tedesca, tradizionalmente attentissima a quanto avviene in Turchia, anche altri interrogativi. Il ministro degli Interni tedesco de Maizière nega ostinatamente che il kamikaze avesse come obiettivo i cittadini tedeschi: una posizione, questa, capace forse di placare la recente isteria di sicurezza (quella che ha portato a sgomberare in tutta fretta stadi e stazioni, sull’onda di allarmi poi infondati), ma poco credibile davanti all’evidenza dei morti quasi solo tedeschi, e all’abbondare dei possibili moventi: l’esercito tedesco che fornisce apertamente armi ai Peshmerga curdi; i Tornado tedeschi che partono dalla base alleata di Incirlik; la Germania che è il Paese europeo che più attrae i profughi siriani, drenando de facto risorse umane allo Stato islamico. Il tutto, ovviamente, sempre dando per buona che la strage sia davvero opera dell’ISIS, per quanto non sia stata da questo mai esplicitamente rivendicata, a differenza di quanto avvenuto in altre occasioni (del silenzio sono state fornite varie spiegazioni, più o meno convincenti).

Ma come già avvenuto a Parigi, anche stavolta si omette di sottolineare il carico simbolico dei luoghi colpiti. Nei giorni successivi all’attacco si è detto che Sultahnamet è il centro turistico per eccellenza, e che di per sé ciò basterebbe a spiegare la scelta del kamikaze e di chi ha progettato l’attacco; tuttavia, sarà davvero casuale che per l’esplosione sia stato scelto non il punto più visibile e affollato – la vasta piazza dinanzi a Santa Sofia – bensì un luogo leggermente più defilato, ovvero la zona dell’Ippodromo non lontano dall’ingresso della moschea più bella del mondo, la Moschea Blu? Anche lasciando perdere la prossimità della fontana regalata dal Kaiser Guglielmo II di Prussia al sultano Abdülhamit II nel 1895, potrebbe far riflettere il fatto che l’attacco sia avvenuto esattamente dinanzi all’antico obelisco egizio trasportato sulla collina dell’Ippodromo nel 390 d.C. dall’imperatore romano d’Oriente Teodosio, il quale è infatti variamente effigiato nei rilievi posti sui quattro lati della base, la medesima base ora in parte coperta dalle sciarpe del Bayern Monaco e dello Schalke 04.

Dieci anni prima di erigere l’obelisco Teodosio aveva emanato l’editto di Salonicco, con cui il Cristianesimo uscito dal Concilio di Nicea diventò la religione ufficiale dell’impero; pochi mesi dopo, Teodosio rese illegali i culti pagani, e spianando de facto – anche se non de iure – la strada a pogrom e distruzioni di templi da Alessandria ad Antiochia. A rileggere il testo dell’editto («Ordiniamo che abbraccino il nome di cristiani cattolici coloro che seguono questa legge, mentre giudichiamo che gli altri, pazzi e insensati, sopportino l’infamia legata al dogma ereticale e che le loro conventicole non possano ricevere il nome di chiese: essi devono essere puniti in primo luogo dalla vendetta di Dio, e poi anche dalla nostra autorità, che riceviamo per volere celeste»), fa specie pensare che una potenza teocratica che oggi si propone, con toni non meno truci e perentori, come nuova autorità globale sul Mediterraneo, potrebbe riconoscere in tale atto legislativo l’inizio di quella stessa dominazione cristiana che si propone di rovesciare. Non è materia di arbitraria interpretazione: basta leggere gli articoli di Dabiq, la rivista ufficiale dell’ISIS, per comprendere che l’azione di Daesh, o ISIS, è animata da una consapevolezza storica che spesso sfugge agli Occidentali digiuni di storia del Mediterraneo, e che ostenti una dimensione di conquista imperiale in cui l’appropriazione di Costantinopoli, la “Nuova Roma” – già avvenuta, ma da rinsaldare contro le velleità filo-occidentali di una certa parte dell’establishment turco – rappresenta solo un passo verso la caduta di Roma stessa.

Di qui, in un memorabile articolo dell’ottobre 2014, l’affiancamento delle cupole della Moschea Blu (p. 33) alla famigerata e minacciosa immagine di copertina con la bandiera nera che sventola sull’obelisco di piazza San Pietro. È bene inoltre ricordare che l’obelisco “gemello” di quello ferito a Istanbul martedì scorso, fu trasportato insieme ad esso nel 357 ad Alessandria d’Egitto, e campeggia attualmente – dopo secoli trascorsi sulla spina del Circo Massimo – nella piazza di san Giovanni in Laterano.

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L’altro fatto grave di questi scampoli di 2016, in Germania, è naturalmente l’aggressione di Colonia. Poiché ad oggi non si conoscono nel dettaglio né la genesi né la dinamica dei fatti, bensì solo grosso modo la loro mole, è impossibile stabilirne i moventi precisi; di certo però non si è trattato di un’azione isolata o improvvisata, come ha riconosciuto lo stesso ministro della Giustizia, il rampante Heiko Maas; la scrittrice Monika Maron l’ha addirittura paragonata a un attacco terroristico.

Secondo l’associazione Harassmap e le attiviste per i diritti delle donne nel mondo islamico, l’accostamento con le violenze di piazza Tahrir in occasione della primavera egiziana non reggerebbe, perché al Cairo girava poco alcol e c’era un’esplicita volontà (anzitutto politica) di umiliazione delle manifestanti; bisognerebbe dunque cercare altri moventi per il fenomeno. Ma la vicenda di Colonia, che va di pari passo con le tristi notizie sul trattamento riservato alle donne in molti Paesi islamici (inclusi quelli con cui l’Occidente fa grandi affari), ha scatenato su certi media una pericolosa minimizzazione, su molti altri invece una inquietante caccia alla natura dell'”uomo arabo”, con generalizzazioni lombrosiane volte ad aizzare uno “scontro di civiltà”, e a inasprire un discorso pubblico sempre più incattivito, con le comunità online che a volte s’incaricano di mostrare coi loro commenti i lati più beceri e selvaggi (lo ricorda il giovane sindaco di Tubinga, il verde Boris Palmer, che ne è stato vittima in prima persona dopo un’intervista molto schietta sui fatti di Colonia).

“Wir schaffen das!” (“Noi ce la facciamo!”) disse Angela Merkel la scorsa estate, quando fece dimenticare il comportamento violento appena tenuto nei confronti della Grecia tramite un atto di generosa apertura e carità ai profughi siriani, ammirato in tutto il mondo. Ma cosa rimane, oggi, dietro quel “noi”? Non più una nazione, sempre più confusa e sconcertata per quello che sembra tecnicamente uno Staatsversagen, una cilecca di stato, una manifestazione di impotenza dinanzi a un’onda migratoria che non si riesce ad arginare né sul piano numerico né sul piano organizzativo – nel 2015, sul milione e 100mila ingressi registrati (taluni sicuramente dei doppioni, ma i numeri assoluti non sono distanti) decine di migliaia di persone sono scomparse nel nulla; e, sebbene i rimpatri siano in aumento, degli oltre 11mila previsti per i cittadini del Maghreb (per i quali il diritto d’asilo ha una percentuale del 2-3%) ne sono state effettuate poche centinaia, anzitutto a causa della scarsa cooperazione delle ambasciate dei Paesi di provenienza.

Non più un corpo elettorale disorientato, che secondo i sondaggi condanna ormai in larga maggioranza la politica del governo sull’immigrazione (56% a 40%, più o meno le medesime percentuali di 4 mesi fa, a parti invertite) e inizia a considerare l’AfD (Alternative für Deutschland, un partito di destra euroscettico) una forza credibile, tanto che nelle elezioni di marzo in diverse regioni potrebbe diventare il terzo partito: a discapito (o forse proprio per merito) della scalata al partito da parte delle frange più oltranziste e compromesse con slogan e idee proprie di Pegida, o della destra neonazista (non è un caso il recente ritiro del fondatore Bernd Lucke, in dissenso con l’avanzare della linea xenofoba). Non più i cittadini delle periferie, che soprattutto nel Nordreno-Westfalia vivono nei quartieri disagiati di Düsseldorf, Duisburg, Essen, in cui la stessa polizia non osa più entrare, perché sono presidiati da famiglie di Libanesi o da gang di nordafricani, non di rado arrivati lì dopo mesi passati a raccogliere olive nel sud Italia; si noti che questa situazione, ormai endemica, rischia di travolgere la popolare governatrice socialdemocratica della regione, Hannelore Kraft, da anni considerata una “promessa” per la politica nazionale, e ora in difficoltà nel denunciare le proprie stesse mancanze, o quelle della polizia (aleggia sul Reno la domanda: “chi ha in mano il timone?”).

Non più, appunto, una polizia che si è trovata sotto attacco da ogni parte, e che ha motivato la reticenza iniziale sull’entità degli scontri e sull’etnia di molti colpevoli con il fondato timore di fomentare l’odio xenofobo, ma che ora ora nell’accusa di aver colpevolmente coperto i delinquenti, mettendo a repentaglio la fiducia della gente. Non più, infine un partito che fiuta gli umori della piazza e non sembra più pronto a sostenere Merkel fino alla fine: se anche Wolfgang Schäuble ostenta fedeltà (promettendo però il rapido rimpatrio dei Siriani a guerra finita, e un’incisiva azione in Europa affinché i Paesi del Sud facciano il proprio dovere nel proteggere le frontiere dell’Unione: questo è un tassello non indifferente dello scontro in atto a Bruxelles), d’altra parte la CSU bavarese va all’attacco per bocca dell’ambizioso ministro delle finanze del Land Markus Söder, o per bocca del presidente emerito della Corte Costituzionale, Jürgen Papier, il quale addirittura denuncia l’illegalità delle politiche attuali, che tralascerebbero la difesa delle frontiere e porrebbero la Germania in uno stato di debolezza rispetto agli altri paesi dell’Unione.

Ma questo Paese è davvero ancora capace di provare empatia nei confronti del più debole, del sofferente? Chi come la professoressa universitaria Aleida Assmann ha studiato per anni la memoria culturale, ritiene che il sentimento di colpa legato al nazismo imponga ancora ai tedeschi un tasso di sensibilità e di compassione maggiore rispetto agli altri cittadini europei. E non c’è dubbio che nelle trasmissioni televisive che dedicano tutti i giorni scandalizzati servizi sui raduni di Pegida, sulle dichiarazioni dell’AfD o alle marce della destra ultranazionalista, le riprese suscitino ricordi sinistri e allarmanti associazioni – basta visitare, per misurare le analogie, il Deutsches Historisches Museum sull’Unter den Linden, o meglio ancora la splendida e attualissima mostra dell’Ephraim-Palais sulla Berlino degli anni Venti e Trenta, dal titolo significativo Tanz auf dem Vulkan (“ballo sul vulcano”).

Ma molti osservatori pensano che ormai il pedaggio al passato sia stato evaso, e non operi più come remora nelle coscienze. Trovare tracce di empatia nelle parole del leader della SPD, Sigmar Gabriel, è persino più difficile che nei discorsi della Merkel. È vero, la giunta di sinistra della Bassa Sassonia ha dato un segnale di fiducia attuando un patto formale con le associazioni islamiche, concedendo diritti e agevolazioni in cambio di una maggiore vigilanza contro gli estremismi; ma rimane un esperimento locale, su cui si fatica a costruire un discorso politico più ampio. E a nulla vale l’aura cristiana invocata mesi fa dalla Merkel, figlia di un pastore evangelico, per motivare l’accoglienza: non solo ci si potrebbe chiedere dove fosse la carità cristiana nella politica che protesse gli interessi tedeschi condannando i pensionati di Atene a mendicare la minestra, mentre le aziende di Berlino si preparavano a spartirsi gli ultimi tesori di quel Paese col consenso dell’umiliato governo; ma oggi è proprio chi più difende il Cristianesimo – nel senso di religione costitutiva dell’Occidente – ad osteggiare la politica della cancelliera.

Le violenze di Capodanno, com’è noto, sono divampate dinanzi alla stazione di Colonia, in quel piazzale sotto la mole del Duomo che rende l’uscita dall’Hauptbahnhof un’esperienza estetica senza pari nella rete ferroviaria europea. L’architetto Barbara Schock-Werner, per anni a capo dell’opera del Duomo, era presente quella sera alla messa delle 18, e insieme a molti altri ha riferito di razzi, mortaretti e fuochi che imperversavano proprio attorno alla gigantesca mole della chiesa già dal tardo pomeriggio, solcando di luci la recentissima, policroma vetrata di Gerhard Richter, e disturbando coi loro scoppi il raccoglimento dei fedeli, nella totale inazione della polizia: un divertimento di vandali o uno scontro di fedi?

A Colonia, dunque, la partita si è giocata e si sta ancora giocando sul corpo delle donne e sui principî dell’Occidente cristiano. Pochi hanno ricordato quella che sarà senz’altro una coincidenza: in quella città, se ci s’incammina verso nord, lungo le strade ordinate appena venate da qualche ammiccante murale di Fernando Vicente, si arriva in breve alla chiesa di San Pantaleone, in cui è conservato entro un moderno sarcofago il corpo di una donna, Teofano (ca. 955 – 991), moglie dell’imperatore Ottone II e madre di Ottone III, per il quale fu anche reggente dopo la morte del marito. Principessa di Bisanzio, ella fu sposata da Ottone II il 14 aprile 972 in una solenne cerimonia in San Pietro a Roma (la stessa chiesa destinata undici anni dopo ad accogliere le spoglie dello stesso Ottone): si trattò forse dell’ultimo momento nella storia d’Europa in cui ebbe qualche concretezza politica l’idea dell’incontro fra l’Impero Romano d’Oriente e quello d’Occidente, nel segno della cristianità.