Su cosa litigano Eni e Report
La grande azienda energetica italiana ha contestato in diretta i servizi sull'acquisizione di una licenza in Nigeria e sulle sue dismissioni
Domenica sera la trasmissione Report di RaiTre si è occupata di alcune attività di Eni, azienda energetica italiana controllata dallo Stato e una tra le più grandi al mondo. In particolare, un’inchiesta è stata dedicata alla complicata acquisizione da parte di Eni di una licenza per condurre esplorazioni in un tratto di mare al largo della Nigeria, alla ricerca di nuovi giacimenti petroliferi, con diverse implicazioni dal punto di vista giudiziario in seguito a una presunta tangente da svariati milioni di euro. Il reportage non ha formulato accusa esplicite nei confronti di Eni e, forse a causa della complessità della materia, in alcuni punti è parsa un po’ confusa. Una seconda inchiesta è stata invece dedicata al piano di dismissioni che Eni sta seguendo in questi anni, con l’obiettivo di cedere alcune delle proprie attività ritenute non più strategiche.
Eni ha risposto a Report in diretta su Twitter durante la messa in onda della puntata, seguendo una strategia comunicativa che non ha precedenti nella sua storia. Attraverso i suoi account sul social network Eni ha diffuso documenti, comunicati e infografiche per rispondere ad alcune delle affermazioni fatte dalla trasmissione, smentirle e dare una propria versione dei fatti. L’azienda ha anche accusato Report di non averle dato la possibilità di rispondere direttamente in televisione, nonostante si fosse offerta di collaborare fino all’ultimo momento utile prima della messa in onda. Report dice che invece Eni ha rifiutato di concedere interviste con i suoi dirigenti per chiarire alcuni punti dell’inchiesta.
“Opl245” – Cosa dice Report
La storia raccontata da Report risale a quattro anni fa, quando Eni acquistò per 1,1 miliardi di dollari una concessione per un blocco petrolifero a sud della Nigeria chiamato Opl245, ottenendo il diritto di effettuare rilievi e sondare il fondale marino alla ricerca di giacimenti. Secondo la trasmissione, l’operazione avrebbe coinvolto diversi intermediari e “si sospetta essere una delle più grosse tangenti mai pagate al mondo”. I dettagli sulla trattativa per ottenere Opl245 sono emersi in seguito all’avvio di un processo nel 2011 nel Regno Unito da parte della Energy Ventures Partners di Emeka Obi, che fece causa alla Malabu Oil dell’ex ministro del petrolio della Nigeria, Dan Etete, con l’accusa di non avere ricevuto un compenso per il proprio ruolo nell’operazione che portò Opl245 sotto il controllo di Eni.
Report spiega che nella vicenda era coinvolto anche Luigi Bisignani, controverso uomo d’affari e faccendiere già coinvolto in altre inchieste giudiziarie, che sostiene di avere avuto un “ruolo iniziale” nella trattativa, suggerendo all’allora amministratore delegato di Eni, Paolo Scaroni, una banca d’affari nigeriana che avrebbe potuto aiutare l’azienda nel contenzioso per ottenere Opl245. Scaroni mise in contatto l’allora dirigente Claudio Descalzi (ora amministratore delegato Eni) con Bisignani per approfondire il tema. Durante la trasmissione sono state lette intercettazioni telefoniche che secondo Report confermano questa circostanza.
L’inchiesta dice che Eni rifiutò la trattativa diretta, firmando “un accordo confidenziale con Obi per trattare la vendita della concessione attraverso la Energy Venture Partners”, società creata alle Isole Vergini britanniche per nascondere gli interessi dello stesso Obi e dei suoi sostenitori italiani. Questa iniziativa, spiega Report, “era un qualcosa che non aveva senso per l’Eni, se non quello di fare in modo che l’intermediario si arricchisse”. Alla fine l’intermediazione non andò comunque a buon fine ed Eni trattò direttamente con il governo, ma in seguito alla causa la corte britannica riconobbe il ruolo da intermediario di Obi, decretando che avesse diritto a 110 milioni di dollari per il lavoro svolto “incurante se l’origine di quei soldi fosse corruzione o altro”. Il denaro finì in un conto svizzero e lì fu bloccato dalla procura di Milano “perché si sospetta che sia la tangente italiana”. Report conclude dicendo che Eni effettivamente seguì la strada di una trattativa diretta per Opl245, ma solo quando fu chiaro che “chi vendeva non aveva titolo per farlo”.
“Opl245” – Cosa dice Eni
Eni con un comunicato diffuso poco prima della messa in onda di Report ha detto che Opl245 era bloccato a causa di un contenzioso internazionale tra Shell, Malabu Oil e il governo della Nigeria. Nel 2010 ci furono contatti con i consiglieri finanziari di Malabu per provare a sbloccare la situazione, ma senza risultato. La situazione fu risolta nel 2011 quando il governo propose una licenza a favore di Shell ed Eni, con la rinuncia di Malabu alle contestazioni che aveva presentato in precedenza. L’azienda dice di avere versato il denaro per la licenza direttamente al governo e di essere estranea a qualsiasi altra transazione successiva. “Eni non si è avvalsa di alcun intermediario nell’esecuzione della transazione e nessun pagamento è stato effettuato da Eni alla società Malabu”, dice il comunicato.
#Report parla di #Eni. Qui le info su blocco #Opl245, anche quelle che la trasmissione non vi dirà #latrattativa pic.twitter.com/4LjoNTLz3N
— eni (@eni) December 13, 2015
In seguito all’avvio delle indagini in Italia circa l’operazione, Eni ha incaricato uno studio legale indipendente statunitense di verificare come andarono le cose. Le verifiche hanno dato esito negativo. Eni ricorda anche che il processo nel Regno Unito ha permesso di escludere “categoricamente che vi possa essere stato un comportamento di tipo fraudolento da parte di rappresentanti Eni”.
Per quanto riguarda il coinvolgimento di Bisignani, Eni sostiene che fu marginale e che non portò a nessun accordo. Si trattò di “due al massimo tre” telefonate a fine 2010, quando il negoziato per Opl245 era ancora bloccato. Eni, su indicazioni dello stesso Descalzi, trattò ed eseguì l’accordo con i funzionari del governo nigeriano e furono poi questi a destinare parte della somma dell’accordo a Malabu per liquidare la sua licenza per lo sfruttamento di quel tratto di mare. “Il giudice inglese dichiarò che le voci su comportamenti scorretti o illegali di manager Eni erano inverosimili”.
Ceska Rafinerska – Cosa dice Report
La trasmissione si è occupata della cospicua serie di dismissioni effettuate da Eni nel 2014 per vendere la rete dei distributori AGIP (uno dei suoi marchi) in Slovacchia, Repubblica Ceca e Romania a MOL, la più importante azienda petrolifera dell’Ungheria. La presenza di Eni in quel mercato risale agli anni Novanta, quando acquisì il 32 per cento della raffineria Ceska Rafinerska, che produce circa il 70 per cento dei carburanti venduti nella Repubblica Ceca. Un ex manager di Eni ha raccontato a Report – in forma anonima – che la cessione del 2014 fu effettuata direttamente a MOL, senza gara come previsto dai regolamenti interni dell’azienda italiana. Eni, dice sempre l’ex manager, era inoltre a conoscenza del fatto che l’amministratore delegato di MOL fosse coinvolto in un’inchiesta per corruzione, cosa che di solito viene valutata prima di fare affari con soggetti potenzialmente poco affidabili. La cessione andò avanti lo stesso, fu conclusa l’ultimo giorno di Scaroni da amministratore delegato e per una cifra che – per quanto riguarda i distributori – è rimasta riservata.
Report spiega che è invece nota la cifra della cessione della raffineria: 24 milioni di euro. La quota in possesso di Eni nel 2007, dice la trasmissione, era stata valutata 420 milioni di euro. La differenza è dovuta al fatto che nel 2007 il prezzo del petrolio era molto più alto rispetto a quello di oggi o di un anno fa. Ma la trasmissione parla comunque di un “prezzo sospetto”: “ a novembre 2013 Shell vende il 16% della stessa raffineria a 27 milioni di dollari. Sei mesi dopo Eni vende il suo 32 per cento a 24 milioni di euro.”
Ceska Rafinerska – Cosa dice Eni
Eni ha chiarito che la cessione della rete distributiva è stata effettuata “tramite trattativa diretta con MOL”, spiegando che si tratta di una pratica contemplata dalle procedure aziendali e che – con approvazione dell’antitrust – ha fruttato 150 milioni di euro. Le quote nella raffineria non sono state vendute direttamente a MOL ma a Unipetrol, un’azienda che deteneva già quote di Ceska Rafinerska. Il prezzo di vendita era commisurato a quello di una precedente vendita da parte di Shell delle sue quote nella stessa raffineria. Eni ha spiegato che i prezzi del 2007 erano più alti per le migliori condizioni del mercato petrolifero. Prima di fare affari con MOL furono effettuati i controlli necessari su affidabilità ed eventuali casi di corruzione legati all’azienda: Eni era a conoscenza dell’inchiesta sul capo di MOL ma proseguì nella sua operazione perché “non si era ancora giunti a un accertamento definitivo delle responsabilità penali”.
#Report parla di #Eni. Qui le nostre info su vendita Ceska Rafinerska, anche quelle che la trasmissione non vi dirà pic.twitter.com/cwYBv0jHed
— eni (@eni) December 13, 2015
Versalis – Cosa dice Report
Versalis è la divisione della chimica di Eni, non ritenuta più strategica e quindi in fase di dismissione. Il ramo comprende alcuni grandi e famosi stabilimenti come quelli di Porto Marghera, Brindisi, Ravenna, Mantova e Priolo. L’ex manager anonimo di Eni ha detto a Report che Versalis non vale più di 500 milioni di euro, anche perché chi l’acquisterà dovrà fare i conti con i problemi ambientali legati ad alcuni degli impianti, definiti obsoleti. Il compratore interessato è SK Capital, un fondo con sede a New York che secondo l’ex manager non ha fondi sufficienti per l’acquisto: potrebbe ottenere la proprietà con un primo versamento da 200 milioni, promettendo di pagare il resto con rate future e facendosi prestare soldi da una banca presso cui sarà data la stessa Versalis come pegno. L’ex manager dice che Eni sta seguendo questa via, rischiosa, perché nell’affare è coinvolta la banca d’affari Rothschild, nella quale è vicepresidente l’ex amministratore delegato di Eni Paolo Scaroni.
L’inchiesta di Report si è poi occupata del tema, più generale e complesso, delle bonifiche del territorio in cui erano attive particolari produzioni industriali molto inquinanti, come nel caso delle attività di diversi impianti di Versalis. Semplificando, le leggi italiane quando parlano di “bonifica” intendono il ripristino della situazione ambientale com’era prima della costruzione dell’impianto che ha causato l’inquinamento: raggiungere questo obiettivo è però impossibile, e per questo i tanti progetti annunciati in questi anni non hanno portato a risultati concreti. Nel resto d’Europa con bonifica si intende l’isolamento degli inquinanti, che però possono restare nel sito dove sono stati prodotti, a patto che non contaminino il resto del territorio. Parte delle difficoltà legate a Versalis e la volontà di Eni di liberarsene si devono a questo, dice Report.
Versalis – Cosa dice Eni
Eni dice che fare nomi ora su un compratore “è decisamente prematuro” e che l’obiettivo resta trovare “un compagno di viaggio che possa garantire gli investimenti, lo sviluppo della chimica in Italia e i livelli occupazionali”.
Gela – Cosa dice Report
Parte dell’inchiesta sulle dismissioni Eni è stata dedicata alla situazione di Gela, dove si trova uno degli impianti di raffinazione dell’azienda e dove era attivo anche un sito chimico di Versalis. Secondo alcuni legali che hanno fatto denunce e avviato cause, la presenza degli impianti ha portato a contaminazioni di vario tipo nel territorio e delle falde acquifere. Report dice che “i casi di malformazioni neonatali a Gela conosciuti finora sono almeno 800, 6 volte in più della media nazionale”. La tesi sugli alti livelli di inquinamento è sostenuta anche dai periti del tribunale di Gela.
Gela – Cosa dice Eni
Eni in un lungo comunicato spiega che le indagini ambientali effettuate dagli enti pubblici hanno portato a risultati diversi confermando “l’assenza di un inquinamento diffuso nell’area e soprattutto di rischi per la popolazione della città di Gela”. Per quanto riguarda le malformazioni, l’azienda dice che tutti gli studi effettuati non hanno “fornito evidenze scientifiche apprezzabili” sull’esistenza di una causa-effetto. La versione dei periti del tribunale di Gela è stata definita “scientificamente inconsistente” sulla base dei criteri che si seguono, in ambito internazionale, per la verifica delle cause e dei possibili effetti per la popolazione di eventuali contaminazioni nei pressi dei siti produttivi petrolchimici.