Parigi dopo Parigi
Filippomaria Pontani racconta prospettive e diffidenze della città dopo gli attentati, suggerendo "una possibilità di riscatto": la conferenza mondiale sul clima
di Filippomaria Pontani
Un mese fa, sul lato di Place de la République che mette verso Belleville e le Buttes Chaumont, campeggiava una schiera di porte chiuse: chi le apriva si trovava dinanzi a ritratti fotografici a grandezza naturale di immigrati di ogni nazionalità che avevano trovato asilo e una vita migliore in Europa, diventando più o meno famosi, più o meno cittadini, più o meno integrati. Il titolo dell’iniziativa della nota ONG Médecins du Monde – una delle centomila, spontanee e organizzate, che si tengono ogni anno a République sui temi dell’accoglienza e dell’immigrazione – si chiamava Ouvrons les portes, “apriamo le porte”. Se mai si cercasse una cartina di tornasole del cambiamento, basterebbe andare oggi in quello stesso lato della piazza e trovarlo ostruito da una lunga schiera di camioncini delle tv di mezzo mondo, in una Babele di lingue, di mezzibusti, di fusi orari, tutti accomunati dal sobrio gazebo della diretta e dal groviglio dei cavi.
La strage del 13 novembre, che ha soggiogato e soggioga l’immaginario europeo più di ogni precedente atto terroristico, ha fatto piombare i francesi dentro lo scenario da cui parte l’ultimo romanzo di Michel Houellebecq, Sottomissione (quello uscito lo stesso giorno della strage di Charlie Hebdo): una Parigi piena di affrontements, di scontri e allarmi diffusi e un clima di diffidenza, di ripiegamento vezzeggiato dalla retorica crociata (la stessa retorica, per inciso, usata contro di noi nelle pagine di Dabiq, la raffinata ed efferata rivista di Daesh, il gruppo terroristico noto anche come ISIS). Una politica svuotata d’ogni altro senso che non sia la polarizzazione fra gli “identitari” – il Front National, dalle posizioni di estrema destra – e un composito e litigioso fronte di salvezza repubblicana, formato dal Partito Socialista e da quello Popolare, ormai appena distinguibili e più o meno apertamente vincolati a un patto di mutuo soccorso nei ballottaggi delle imminenti elezioni regionali del 6 dicembre. È questo rischio concreto di abdicazione alla sicurezza e alla varietà della dinamica democratica che si tocca con mano a République, là dove un mese fa c’erano le porte aperte e i banchetti della campagna di Hollande e Sarkozy.
Mentre imbocco Rue du Faubourg du Temple, e scorrono negozi cinesi, macellerie hallal e lavanderie pakistane, Le Monde riporta la frase simbolo della cerimonia solenne agli Invalides per i morti di quella sera: Ils étaient la jeunesse de France, “erano la gioventù della Francia”. Origliando le vibranti conversazioni attorno a me, quelle dei capannelli di francesi che si riuniscono a elaborare l’accaduto e s’accapigliano, e quelle per lo più in arabo degli abitanti del quartiere, anche quella frase mi suona stonata, incompleta. Si parla della gioventù dei lavori precari, dei dottorati di ricerca, degli assegni per i figli che qui si fanno subito, la gioventù delle terrasses e del Bataclan, o di quella che si confina nelle banlieues e periodicamente esplode in rivolta, come accadde qui giusto dieci anni fa, o addirittura si vota al martirio? Intendiamo la gioventù che compete per un’idea di felicità difficile, sempre sull’orlo dell’échec, del fallimento, della solitudine (attorno a questa idea ruotano tutti i precedenti libri di Houellebecq, per quanto sgradevoli, e in parte le sue splendide poesie); o quella che temendo lo svantaggio di partenza, la debolezza personale familiare etnica cerca il senso della vita in un disegno più vasto, si pone al servizio della mostruosa “amministrazione della ferocia” (per citare il titolo del fondamentale “manuale” scritto del terrorista Abu Bakr Naji, che ora Daesh porta a effetto molto più sapientemente di al Qaida)?
Chi, come l’antropologo Scott Atran, ha parlato davvero con l'”altra” gioventù, e ha cercato di seguire i tortuosi processi mentali dei vecchi e nuovi adepti di Daesh in Europa e altrove, ripete spesso che l’unica soluzione per togliere il terreno sotto i piedi a questo dramma sia quella di offrire alla gioventù – nella sua interezza, però – una visione del mondo che faccia balenare un sogno, una vita nella società contemporanea da ottenere in premio attraverso il sacrificio e l’impegno in una comunità. Insomma, una serie di obiettivi comuni che possano rappresentare una seria alternativa alle oscene promesse ad personam dei salafiti o dei loro fratelli maggiori e più eversivi.
Non si tratta solo di erogare sussidi ai giovani, di aprire centri culturali o cinema in periferia (chi vada alle banlieues di Saint-Denis o a Drancy ne troverà per inciso un gran numero), ma di offrire una vera possibilità di partecipazione alla vita del paese, in grado di delineare obiettivi condivisi e realistici: un impegno di vita che tragga senso al di là della sussistenza quotidiana, o delle chiacchiere in un bar. La debolezza di idee, di strategie e di uomini che interessa la politica continentale ha qui molte colpe, ma una possibilità di riscatto esiste: proprio uno di quegli obiettivi condivisi, che ha il vantaggio di essere planetario e per certi versi assoluto, ma di articolarsi anche in una fittissima rete di realtà locali, vivrà un momento cruciale tra pochi giorni proprio qui a Parigi. Parlo ovviamente della questione ambientale, che la Conferenza di Parigi potrebbe rilanciare per dare speranza e identità partecipativa a una gioventù (d’ogni Paese e d’ogni etnia) disposta a inventare una maniera diversa di vivere, di consumare, di pensare: un vero successo nella COP21, come ricorda la nota attivista ambientalista e scrittrice Naomi Klein, sarebbe un messaggio di speranza in grado di valere da solo ben più di mille discorsi di Versailles, di mille cerimonie di lutto collettivo, di mille retoriche patriottarde.
Subito dopo il Canal St. Martin comincia la Topographie des Terrors, e i luoghi mille volte contemplati sulle cartine di quella sera riprendono una strana vita fatta di tappeti di rose, cartoline mute, foto strazianti, tricolori, poesie, silenzi, e tantissimi disegni di bambini: il ristorantino etnico dove volevi andare, il caffè che hai costeggiato mille volte senza mai sederti, l’italiano-che-tanto-italiano-non-sembrava. E sorge spontanea una domanda, che in questi giorni di frenesia che forse in questi giorni si sono posti in pochi. Perché proprio quei locali? Perché proprio quell’itinerario, a prima vista tortuoso e illogico, di una macchina nera da cui scende e sale la morte, tra il fragore delle portiere?
Sulla vetrata del Carillon, ancora gravida di fori, è stesa una bandiera più grande delle altre, una bandiera gialloblù con uno strano segno sopra: la stessa, osservo, che c’era a République e anche, più piccola, all’incrocio di Rue de la Fontaine au Roi. È la bandiera, creata proprio a Parigi pochi mesi fa, di uno stato che non c’è: la Cabilia, quella parte dell’Algeria a est di Algeri che un movimento autonomista berbero – il MAK – vorrebbe liberare dal dominio degli arabi dello stato centrale, come un tempo da quello dei francesi. Perché quella bandiera, lì?
Una breve ricerca e scopri che stando a quanto si può sapere dei quattro locali colpiti in questa zona ben tre sono gestiti da Cabili: così il Carillon, gestito da Athmane Kemache; così il poco italiano Casa Nostra, il cui gestore, Dimitri Mohamadi, è peraltro balzato all’onore delle cronache per una storiaccia relativa alla presunta vendita delle immagini dell’eccidio; così anche La Belle Équipe, il cui proprietario, Gregory Reibenberg, è un ebreo (come gli ex gestori del Bataclan), ma era sposato a una Cabila musulmana, Djamila Houd, che nella notte era lì ed è morta assassinata fra le braccia del compagno.
Ma l’altra gioventù, quella dei kamikaze, quella dei francesi di seconda generazione, dove affondava le proprie radici? Non certo in Siria o in Iraq, come vuole una confusa retorica che mescola oggi il mondo islamico in un calderone indistinto; gli attentatori di Parigi, per quanto se ne sa, provenivano tutti da famiglie maghrebine; per la precisione i genitori di Brahim e Salah Abdeslam (quest’ultimo tuttora in fuga) sono marocchini vissuti per molti anni proprio in Algeria. Sembra che un cerchio si chiuda.
Il cerchio parte dall’efferata impresa coloniale francese in Africa (1834-1962), dalla battaglia di Algeri, i pieds-noirs – l’espressione con cui vengono chiamati i cittadini del Maghreb con cittadinanza francese emigrati in Francia – e le poesie di Jean Sénac; passa per la trentennale penetrazione degli algerini in questa zona di Parigi, come gestori di locali etnici o comunque del tutto adeguati ai gusti “occidentali” (alcolici, musica etc.); e arriva ai figli di chi aveva vissuto da giovane il Maghreb in fiamme, figli che prendono di mira i conterranei che ora incarnano l’alleanza con l’ex-colonia nel segno della vita libera e per di più incurante dell’ortodossia religiosa. È come se un nodo di mali, che trascende di molto l’emergenza della guerra in Siria, e affonda le radici in un passato che troppo spesso la Francia ama dimenticare in nome di un’autoproclamata superiorità morale, venisse al pettine in quelle vetrine infrante, in quelle bandiere gialloblù, in quegli obiettivi “scelti minuziosamente” (così recita lo sgrammaticato volantino di rivendicazione di Daesh), in quella topografia del terrore che in troppi vogliono preludio a una resa dei conti della storia.
Nel groviglio dei fili della tv e dei percorsi della morte, nella frattura apparentemente sempre più insanabile fra l’una e l’altra gioventù, è un po’ come se quel padre di Bordj-Ménael, in Cabilia, tornasse a chiedere, con altri toni e altra urgenza, protendendo la figlioletta tisica e butterata: “Lei non crede che se la potessi vestire, nutrire e tenere pulita, lei sarebbe tanto bella quanto una qualunque ragazza di Parigi?” (Albert Camus, Misère de la Cabylie, 1939).