L’isola degli Armeni a Venezia
Storia di San Lazzaro, dove il monaco Mechitar ricostruì trecento anni fa una cultura in pericolo
di Matteo Miele, Università di Pisa
Nella laguna veneziana, pochi uomini su una piccola isola sono stati in grado, negli ultimi tre secoli, di salvare un’antica storia nazionale. Lontani, quasi appartati, hanno prodotto, per il proprio popolo, una rinascita artistica, letteraria e sociale in qualche modo paragonabile all’opera dei grandi umanisti, pittori e scultori del Rinascimento italiano.
La storia inizia nel Vicino Oriente, a Sebaste dove nel 1676 era nato Mechitar: al centro della Turchia di oggi. Il suo nome di battesimo era in realtà Manuk, ovvero “bambino”, ma entrato in monastero, appena adolescente, lo aveva cambiato in Mechitar (“consolatore”). La vita monastica nella Chiesa armena apostolica non aveva però impedito a Mechitar di avvicinarsi a missionari cattolici e allo stesso tempo di rendersi conto del lento declino culturale in cui si trovava il monachesimo armeno. L’istituzione monastica cristiana era stata in passato il fondamento della crescita culturale, letteraria e sociale del popolo armeno. Gli armeni erano diventati cristiani, ufficialmente, all’inizio del IV secolo, nell’anno 301, a seguito del battesimo di re Tiridate III da parte di San Gregorio Illuminatore. Circa un secolo dopo, nel 404 o 405, il monaco Mesrop Mashtots aveva inventato l’alfabeto armeno e avviato così una straordinaria produzione letteraria che avrebbe percorso il medioevo.
All’epoca di Mechitar, però, come accennato, la crisi culturale del monachesimo armeno coincideva dunque anche con una profonda decadenza culturale dell’intera nazione, in gran parte sotto la dominazione ottomana. L’obiettivo di Mechitar, quando nel 1700 fondò a Costantinopoli, appena ventiquattrenne, la sua Congregazione armena cattolica (originariamente basata sulla Regola di Sant’Antonio Abate e più tardi su quella di San Benedetto), era dunque restituire al popolo una figura di monaco in grado di risvegliare una coscienza nazionale attraverso la funzione educativa, quasi accademica, dell’antico monaco-dottore, conosciuto in armeno come vardapet.
La creazione però di una congregazione fedele al papa di Roma, nell’Impero ottomano, esponeva Mechitar alla persecuzione delle autorità turche (che riconoscevano legalmente solo i cristiani orientali, dunque la Chiesa armena apostolica, i cristiani ortodossi e la comunità ebraica) e dello stesso Patriarcato armeno-apostolico di Costantinopoli. La Chiesa armena si era infatti separata da Roma e da Bisanzio a seguito del Concilio di Calcedonia del 451, rifiutando la terminologia adottata dai vescovi sulla doppia natura di Gesù Cristo. In realtà la disputa era essenzialmente politica, a causa del mancato aiuto bizantino nella guerra che impegnava gli armeni contro l’esercito persiano. Mechitar, prima di molti altri, aveva invece compreso la sostanziale identità teologica della Chiesa armena e della Chiesa romana. Non rifiutava l’autorità e la tradizione religiosa della Chiesa armena, del Patriarca di Costantinopoli e del Catholicos di tutti gli armeni, ma allo stesso tempo riconosceva nel Pontefice romano il capo supremo dei cristiani.
In fuga dunque dalle persecuzioni il giovane si rifugiò con i suoi monaci a Modone, in Grecia, sotto dominio veneziano all’inizio del XVIII secolo. Lì costruì il suo monastero, ma i turchi cinsero d’assedio Modone e Mechitar rischiò di ritrovarsi nuovamente nella stessa situazione che lo aveva portato a lasciare Costantinopoli. Questa volta, dunque, i monaci armeni approdarono a Venezia. Era l’anno 1715, trecento anni fa. Si stabilirono in città, supplicando le autorità veneziane (inizialmente restie) di conceder loro un piccolo pezzo di terra per ricostruire il proprio monastero. Due anni dopo, nel 1717, la Repubblica assegna dunque agli armeni un’isoletta di fronte al Lido che nei secoli passati era servita da lazzaretto, l’isola di San Lazzaro. Lì Mechitar si mette nuovamente al lavoro per realizzare la sua abbazia accanto alla chiesa medievale. Continua però anche la propria opera di preservazione della cultura armena, in primo luogo raccogliendo i manoscritti, principali custodi della lingua e della storia armena e poi scrivendo, tra gli altri, una grammatica ed un imponente dizionario. In più, da Amsterdam, riesce ad ottenere i caratteri per stampare libri in armeno.
Venezia, come l’altra grande Repubblica marinara, Genova, non era estranea per gli armeni. In realtà, tutta l’Italia nel medioevo e in epoca moderna era stata percorsa da soldati, mercanti e monaci armeni, che però si erano rapidamente integrati nel tessuto sociale dei diversi stati italiani. A Venezia, oltre due secoli prima dell’arrivo di Mechitar, nel 1512, era stato stampato il primo libro in lingua armena, l’Urbatagirk (“Il libro del venerdì”). Quasi ogni grande città della penisola conserva i resti di una chiesa armena, a volte abbandonata oppure “latinizzata”. Mechitar però, pur cattolico, fedele a Roma e in qualche modo ormai veneziano, comprese il pericolo di una latinizzazione della propria comunità monastica. Effettivamente, se la sua opera mirava a destare nuovamente il mondo armeno, difficilmente avrebbe potuto farlo in un ambiente religioso latino. Solo armeni, dunque, furono ammessi nella Congregazione e la liturgia e le preghiere rimasero in armeno classico (anche oggi). Questa sua posizione, in assenza ancora di una Chiesa cattolica armena istituzionale, che nascerà solo nel 1742, gli creò non pochi problemi con le autorità papali.
Mechitar morì nel 1749. Pochi decenni dopo la Congregazione subì una divisione che portò alcuni monaci a recarsi prima a Trieste e poi a Vienna. Le due comunità si sono però riunite nel 2000. Entrambi i monasteri mechitaristi hanno continuato, nel corso di questi tre secoli, l’eccezionale opera culturale del fondatore. Mechitar ha dunque avuto successo. Gli armeni, attraverso Mechitar, ritrovarono la propria identità. È stato certamente il principale protagonista del Rinascimento armeno e la piccola isola veneziana (che nel corso degli anni ha subito diversi ampliamenti) è diventata il centro culturale della diaspora armena, così come la Repubblica d’Armenia, che ha riavuto la propria indipendenza al crollo dell’Unione Sovietica, rimane il centro istituzionale. La biblioteca ha oggi una delle maggiori collezioni di manoscritti armeni al mondo ed in una piccola sala studiava armeno classico Lord Byron. Il grande storico e poeta armeno Ghevont Alishan (1820-1901) era appunto un monaco mechitarista.
Attraverso la casa editrice, continua l’opera di traduzione in lingua armena dei classici della letteratura occidentale (e viceversa). I monaci fondarono inoltre numerosi collegi nelle città del mondo dove sono presenti le maggiori comunità armene. In questi istituti si sono formati i grandi nomi della letteratura, della politica e dell’arte armena, come ad esempio il poeta Daniel Varujan, ucciso durante il genocidio armeno del 1915 (durante il quale morirono anche diversi monaci mechitaristi che si erano recati in Armenia per aiutare la popolazione).
Quest’anno, in occasione del trecentesimo anniversario dell’arrivo di Mechitar a Venezia e del centesimo anniversario del genocidio, l’isola ha ospitato il Padiglione della Repubblica d’Armenia della Biennale, che ha vinto il Leone d’oro per la migliore partecipazione nazionale.