• Mondo
  • Lunedì 7 settembre 2015

A che punto è la guerra in Siria

Ora si parla soprattutto dei profughi e delle distruzioni dell'ISIS: perché i combattimenti proseguono senza prospettive di soluzione

Idlib, Siria, 31 agosto 2015 (OMAR HAJ KADOUR/AFP/Getty Images)
Idlib, Siria, 31 agosto 2015 (OMAR HAJ KADOUR/AFP/Getty Images)

La guerra in Siria dura da più di quattro anni. Milioni di persone, almeno 9, hanno lasciato le loro case e più di 220 mila sono state uccise. Sui giornali internazionali si parla soprattutto delle conseguenze della guerra (i profughi che stanno scappando e arrivando in Europa, la distruzione di Palmira, sito Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO) o della crescita dell’ISIS. Ci si occupa sempre meno, invece, della guerra stessa che nel tempo è diventata sempre più confusa e complicata e la cui soluzione politica sembra essere ancora lontana. Breve riassunto e punto della situazione.

La Siria, in breve
La Siria è uno stato che confina a nord con la Turchia, a est con l’Iraq, a sud con la Giordania e a ovest con Israele e il Libano. Ha la costa ovest sul Mar Mediterraneo, ma non è molto estesa. La sua capitale, Damasco, è nella parte meridionale del paese, vicina al confine col Libano. La lingua ufficiale della Siria è l’arabo, ma sono parlati anche il curdo, l’armeno, l’aramaico e il circasso. I curdi sono il 9 per cento della popolazione, gli armeni circa l’1 per cento, mentre oltre l’89 per cento della popolazione è costituita da arabi. Il 74 per cento degli abitanti sono sunniti. L’Islam non è la religione ufficiale e la costituzione garantisce libertà di culto, ma il presidente deve essere per forza musulmano.

Dal 1970 la Siria fu governata del regime di Hafiz al Assad, il padre dell’attuale presidente siriano Bashar al Assad. Nel 1982 le forze siriane lanciarono un violento attacco contro la città di Hama per reprimere un’insurrezione promossa dall’organizzazione dei Fratelli Musulmani: il regime massacrò migliaia di persone dando un chiaro segnale ai propri oppositori islamisti. Il regime di Assad sostiene il partito libanese Hezbollah e il movimento palestinese Hamas in una posizione anti-israeliana. Anche grazie a questo, Assad è un leader popolare nel vicino oriente, nonostante il suo regime abbia via via ridotto le libertà e i diritti fondamentali dei siriani.

L’inizio della guerra
Il 15 marzo del 2011 migliaia di persone manifestarono ad Aleppo e Damasco, le due città più grandi della Siria, per protestare contro il regime del presidente Bashar al-Assad. Nei giorni successivi, il regime reagì con arresti, uccisioni, sparizioni e torture, ma senza riuscire a fermare l’opposizione. In poche settimane le proteste si allargarono a tutta la Siria. A maggio Assad mandò l’esercito nelle strade e la repressione divenne feroce.

Soprattutto nel nord del paese, i manifestanti cominciarono allora ad assaltare le caserme delle forze di sicurezza e a impossessarsi delle loro armi. Costretti a sparare sulla folla, alcuni soldati siriani cominciarono a disertare e a unirsi ai manifestanti. A quattro mesi dalle prime proteste, un gruppo di ufficiali disertori proclamò la nascita dell’Esercito Libero Siriano (Free Syrian Army, FSA). Le manifestazioni contro il regime si trasformarono in una guerra civile che dura ancora oggi, ma che ha oltrepassato i confini del paese.

La “guerra per procura”
Tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012 nello schieramento dei ribelli cominciarono ad arrivare sempre più combattenti stranieri. Alcuni di loro si arruolarono nella FSA, mentre altri fondarono brigate e bande autonome. Tra loro c’era un gruppo di combattenti che arrivava dall’Iraq e che aveva combattuto insieme a Abu Musab al Zarqawi, capo di al Qaida in Iraq: loro, insieme ad altri miliziani, formarono il 23 gennaio 2012 il Fronte al Nusra, un gruppo molto estremista, unico “rappresentante” di al Qaida in Siria.

Inizialmente le forze più laiche della FSA accettarono di combattere accanto ad al Nusra e protestarono contro la decisione degli Stati Uniti di inserire il gruppo nell’elenco delle organizzazioni terroristiche. Col passare del tempo, al Nusra si dimostrò più abile dei ribelli alleati a raccogliere fondi dall’estero e ad attrarre volontari, e i rapporti tra i due gruppi cominciarono a peggiorare. Tra la fine del 2012 e l’inizio del 2013 molti esperti cominciarono a parlare della guerra siriana come di una “guerra per procura”: tramite gruppi di miliziani locali, in Siria sono entrati in competizione i paesi arabi sunniti, alcuni dei quali direttamente finanziatori dei ribelli, e i paesi (l’Iran) e i gruppi (Hezbollah) sciiti della regione, che appoggiano Assad.

In un primo momento era stata al Nusra a prevalere sul fronte dei ribelli. Ma nel giro di pochi mesi, nell’estate del 2014, una porzione rilevante del territorio siriano e iracheno venne conquistato dall’ISIS, che rimane ancora oggi la fazione più forte. Poi ci sono i curdi nel nord-est della Siria, che combattono prevalentemente contro l’ISIS e dal settembre del 2014 c’è una coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti che ha cominciato a bombardare l’ISIS e a cui partecipano diversi paesi: da oggi si è aggiunta anche la Francia. Il presidente Hollande ha infatti dichiarato che il suo paese si sta preparando a dei voli di ricognizione in Siria.

Infine c’è quello che avviene fuori dalla Siria a complicare ancora di più la situazione: la Cina e la Russia, ad esempio, sono membri del Consiglio di Sicurezza dell’ONU con potere di veto e l’hanno usato più volte a favore del regime di Assad. Insomma, il conflitto in Siria è diventato assai più di una guerra tra quelli che sono a favore o contro il regime.

Oggi
Questa è una mappa aggiornata al due settembre su chi controlla cosa in Siria. Dopo più di quattro anni di guerra civile nessuna delle parti è anche solo lontanamente arrivata vicina alla vittoria sulle altre.

2000px-syria15

Lo scorso maggio sono ricominciati a Ginevra, in Svizzera, i colloqui sulla guerra in Siria. I negoziati erano saltati all’inizio del 2014 per il rifiuto del governo siriano a discutere alcune proposte dei ribelli. Attualmente, a capo della delegazione dell’ONU c’è l’inviato speciale italo-svedese Staffan de Mistura, già sottosegretario agli Esteri del governo Monti. La probabilità di una soluzione politica alla guerra civile siriana sembra comunque essere molto bassa, ed è stata definita «praticamente nulla» dall’International Crisis Group, un’organizzazione indipendente non governativa. «La diplomazia è ostacolata dalle posizioni intransigenti delle parti in conflitto», ha fatto sapere l’organizzazione in un recente rapporto: nessuno dei gruppi che sta combattendo vuole insomma arrivare a un accordo di pace.

Sul territorio siriano, il regime di Assad sembra essere sempre più in difficoltà a causa delle offensive dell’ISIS – che secondo alcuni analisti statunitensi conta circa 31 mila combattenti – che sono ormai arrivate al centro del paese. Ci sono poi gli attacchi degli altri gruppi ribelli soprattutto nel sud e nel nord della Siria. Nelle ultime settimane, Turchia e Stati Uniti hanno concordato un piano d’azione contro l’ISIS per la creazione di una “safe zone”, cioè una zona sicura, lungo il confine turco-siriano. Questo dovrebbe permettere un aumento e un’intensificazione dei raid aerei statunitensi e garantirebbe una zona per l’accoglienza dei profughi siriani. Proprio all’interno dell’area protetta che si vorrebbe costruire ci sono stati negli ultimi giorni degli attacchi dello Stato islamico che hanno causato la morte di almeno 47 combattenti siriani.