Il grande crollo della borsa di Shanghai
Mentre tutti guardiamo la Grecia, in pochi giorni Shanghai ha perso più soldi di quanti ne vale tutto il mercato finanziario spagnolo: perché?
Lunedì 29 giugno la borsa cinese di Shanghai ha perso il 3,3 per cento: con quest’ultimo calo è stato calcolato che abbia perso più del 20 per cento negli ultimi 17 giorni. Dal 12 giugno la perdita ammonta a circa 1,2 migliaia di miliardi di dollari americani. Per dare un po’ più di concretezza a questo numero: Bill Gates, l’uomo più ricco del mondo, ha un patrimonio di 79 miliardi di dollari; la Grecia ha un PIL di circa 170 miliardi di dollari; tutte le quattro borse valori spagnole valgono meno di quanto perso da quella di Shanghai in questi 17 giorni – e questo senza considerare anche la borsa di Shenzen, la seconda borsa valori della Cina, che ha seguito un andamento simile.
Il mercato finanziario cinese è cresciuto molto rapidamente nel 2015. In realtà cresce da molti anni, così come il PIL della Cina, ma negli ultimi mesi è cresciuto molto di più anche rispetto al PIL, come si può vedere nel grafico dell’Economist qui sotto (“GDP” è il PIL in inglese).
In finanza esiste un rapporto chiamato “price-earning ratio”, cioè un rapporto tra il prezzo di mercato di un’azione e i guadagni che si possono ricavare da quell’azione in un anno in termini di utili aziendali, quindi senza considerare la plusvalenza che si guadagna vendendo l’azione a un prezzo diverso da quello a cui la si è comprata. Il rapporto “price-earning” può dare un’idea del fatto che nel mercato finanziario ci sia o no una “bolla”: se il “price-earning” è molto alto, vuol dire che il prezzo di un’azione è ormai scollegato dal suo valore reale. Una bolla finanziaria si ha quando i prezzi delle azioni continuano a salire solamente perché ci si aspetta che salgano ancora, senza che ci siano i presupposti reali per giustificare questa crescita. In pratica, anche se un investitore sa che un’azione vale molto meno dei 10 euro a cui la compra, la compra lo stesso convinto che potrà rivenderla a un prezzo ancora più alto, e così fanno tantissimi. A un certo punto però ci si rende conto che i prezzi non salgono più e allora tutti cercano di vendere: in questo caso si dice che “scoppia la bolla”.
Per il principale indice di borsa statunitense, lo Standard&Poor’s 500, che raccoglie la media ponderata delle 500 maggiori società quotate alla borsa valori di Wall Street, il “price-earning” è di circa 20 (in media il prezzo di un’azione è venti volte il valore dell’utile ricavato da quell’azione). Per la borsa di Shangai il “price-earning” venerdì era 62.
Gran parte della crescita della borsa di Shangai è stata trainata da ChiNext, l’indice che raccoglie le maggiori società tecnologiche della Cina: il corrispettivo di quello che è il NASDAQ per la borsa statunitense. Secondo molti analisti quello che sta avvenendo nel mercato finanziario cinese è molto simile alla bolla dei titoli “dotcom” del 1999, la cosiddetta “bolla della new economy”: una crisi finanziaria generata da un eccessivo entusiasmo per le nuove aziende digitali statunitensi.
Per evitare lo scoppio della bolla, nei giorni scorsi le autorità monetarie cinesi hanno abbassato ulteriormente i tassi d’interesse e ridotto le riserve obbligatorie per le banche. I tassi d’interesse più bassi permettono alle persone di prendere più soldi in prestito per fare investimenti: se prendere soldi in prestito costa di meno, per un investitore allora basterà un piccolo profitto sul mercato azionario per ripagare il debito e tenere una parte per sé. La riserva obbligatoria invece è una percentuale che una banca deve tenere disponibile e “liquida”: serve per fare in modo che se più gente del previsto cerca di ritirare il proprio denaro, la banca non rimane senza. Le banche però traggono profitto dall’investimento del denaro che viene depositato presso di loro: più è alta la riserva obbligatoria e meno soldi la banca può investire. Entrambe queste misure sono state adottate per evitare il “panico” che genera lo scoppio di una bolla: tutti quanti si rendono conto che i prezzi sono troppo elevati e cercano di vendere il più velocemente possibile, facendo crollare il valore delle azioni e portando sempre più investitori a vendere. Se le banche e gli investitori hanno più soldi da investire, il “panico” dovrebbe attenuarsi. Apparentemente, però, questo non è successo lunedì.
Josh Noble del Financial Times spiega bene i motivi per cui le autorità monetarie cinesi tenteranno in tutti i modi di evitare lo scoppio della bolla: un mercato finanziario in espansione come quello cinese rende le persone generalmente più ricche, e persone più ricche producono generalmente maggiori consumi. Questo meccanismo è particolarmente utile per la Cina, che vuole cercare di slegare la sua economia dall’industria delle costruzioni e dalle altre industrie pesanti; i prezzi più alti delle azioni permettono quindi alle aziende di emetterne di nuove, e con i soldi incassati dalla vendita delle azioni le aziende possono ripagare i debiti e rendere il mercato più sicuro.
Una crisi di queste dimensioni per il mercato finanziario cinese è comunque meno grave di quello che potrebbe sembrare: lo sarebbe molto di più se si trattasse del mercato statunitense o di quello inglese. In Cina, infatti, il mercato finanziario ha un valore pari a circa il 40 per cento del PIL, mentre in economie molto sviluppate questo rapporto supera il 100 per cento. Tuttavia si tratta del 40 per cento di una delle più grandi economie mondiali e mille miliardi di dollari è una cifra gigantesca, specie se si considera la situazione di grande incertezza dei mercati europei causata dalla crisi greca.