Il discorso di Mario Savio a Berkeley, nel 1964
Enrico Deaglio racconta su Repubblica la storia del giovane attivista e del suo famoso discorso “non proprio Lincoln a Gettysburg, ma quasi”, sulla libertà di espressione
Mario Savio fu un attivista politico statunitense, di origini italiane, leader del movimento studentesco Free Speech Movement che si sviluppò nell’autunno del 1964 all’Università della California, Berkeley. In quegli anni nel resto degli Stati Uniti cominciavano a formarsi altri movimenti simili in difesa dei diritti dei neri e come forma di protesta contro il governo per il coinvolgimento nella guerra in Vietnam. Savio ottenne grandissima popolarità negli Stati Uniti soprattutto per un breve discorso, di grande passione politica, rivolto ad alcune migliaia di studenti del campus, tenuto il 2 dicembre 1964. In un articolo su Repubblica Enrico Deaglio racconta quella giornata, il corteo e gli arresti (792 studenti) che seguirono quel discorso: “Non proprio Lincoln a Gettysburg, ma quasi”.
“LO STUDENTE CHE CAMBIÒ IL MONDO ” oggi avrebbe settantadue anni. Avrebbe potuto diventare un grande leader politico, ma non volle: la vita pubblica gli avrebbe richiesto troppi compromessi; quella privata fu fin troppo tormentata. Morì giovane, per un infarto, a soli cinquantaquattro anni. Si chiamava Mario Savio e il primo ottobre 1964 all’università di Berkeley — cinquant’anni fa — diventò il simbolo genuino e quasi involontario di un movimento degli studenti che sarebbe poi esploso in tutto il mondo quattro anni dopo, nello storico 1968. Ed ecco come andò la storia.
Siamo nell’autunno del 1964, nel campus di Berkeley, la più antica delle università statali della California, nella baia di San Francisco; l’anno che si avvia a finire è un concentrato di contraddizioni americane. John Kennedy è stato ucciso da appena dieci mesi, il repubblicano Barry Goldwater — uno che vede comunisti dappertutto e vorrebbe tirare la bomba atomica su Mosca — sfida il democratico texano Lyndon Johnson per diventare presidente. I ragazzi americani cominciano a morire in numero allarmante in un lontano posto chiamato Vietnam; nel Mississippi e in Alabama strani pastori battisti marciano chiedendo la fine della segregazione razziale e la televisione mostra immagini di attivisti picchiati, derisi, e qualche volta uccisi. Berkeley è il più grande campus della California, ventimila studenti bianchi, figli della nuova middle class. Di loro si dice che sono stati concepiti tra l’entrata in guerra e la prima licenza del coscritto.
Le ragazze hanno i capelli cotonati; occhiali di celluloide e camicia bianca per i maschi. Ci sono anche i primi gruppi politici del post maccartismo, che fanno propaganda alle più svariate cause; chiedono di poter svolgere liberamente l’attività politica dentro il campus, in particolare nella Sproul Plaza, il luogo di incontro studentesco su cui si affacciano biblioteche, laboratori, uffici, il teatro. Ma il rettore, Clark Kerr, è uno dalle idee chiare: niente volantini, niente raccolta di fondi, niente comizi con megafoni. Per il rettore Kerr, «le idee devono restare fuori dal campus, l’università è una fabbrica e serve a riempire le teste vuote, per farle lavorare per il sistema». Il rettore autorizza la polizia a circolare nel campus per garantire che la nuova classe dirigente non venga a contatto con idee strane.
Il primo ottobre la polizia ferma uno studente, Jack Weinberg, che ha allestito un tavolino da cui pubblicizza l’attività del CORE, il gruppo politico che si batte per il diritto al voto dei neri negli stati segregati del sud. Weinberg si rifiuta di dare i documenti, la polizia lo chiude in macchina, una folla di studenti accorre a proteggerlo. Ed ecco che uno sconosciuto studente si fa avanti. Alto, magrissimo, capelli a cespuglio, occhi azzurri, si toglie le scarpe «per non danneggiare una proprietà dello Stato» e sale sul tettuccio dell’automobile della polizia. Si chiama Mario Savio, viene da New York, figlio di emigrati siciliani. Rivendica il diritto degli studenti a parlare, scandisce « free speech! », invita gli studenti a resistere, ad opporre il proprio corpo al sopruso, «in modo non violento, ma con dignità». La trattativa, con Weinberg chiuso in macchina e i poliziotti intorno, durerà trentadue ore (!) fino a quando il rettore accetta di liberarlo. Ma non torna sui suoi passi sui divieti e la polizia diventa ospite fisso del campus.
Il 2 dicembre quattromila studenti si ritrovano di nuovo nella Sproul Plaza e di nuovo quello studente, Mario Savio, prende il microfono. Questa volta pronuncia il breve discorso che resterà nella storia della grande oratoria americana. Non proprio Lincoln a Gettysburg, ma quasi: “Il rettore ci ha detto che l’università è una macchina; se è così, allora noi ne saremo solo il prodotto finale, su cui non abbiamo diritto di parola. Saremo clienti — dell’industria, del governo, del sindacato… Ma noi siamo esseri umani! Se tutto è una macchina, ebbene… arriva un momento in cui il funzionamento della macchina diventa così odioso, ti fa stare così male dentro, che non puoi più parteciparvi, neppure passivamente. Non resta che mettere i nostri corpi tra le ruote e gli ingranaggi, sulle leve, sull’apparato, fermare tutto. E far capire a chi sta guidando la macchina, a quelli che ne sono i padroni, che finché non saremo liberi non potremo permettere alla macchina di funzionare”.
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Foto: Mario Savio a Berkeley, California, il 2 dicembre 1964.
(Peter Whitney/Getty Images)