Cos’era “Radio parolaccia”
La storia di quando Radio Radicale trasmise senza selezioni e censure le telefonate del pubblico: per alcuni fu "un'indecenza", per altri un "enorme patrimonio di conoscenza"
Parolacce, invettive, minacce, insulti e sessismo fanno parte ormai da anni del dibattito intorno alla rete, ai social network, all’interazione tra siti e utenti (e del valore di tale interazione). C’è un precedente – spesso citato ma che non tutti conoscono – che alla fine degli anni Ottanta fece molto discutere e che ha una sua validità ancora oggi, pur riguardando un mezzo di comunicazione di massa molto diverso da internet: quello di Radio Radicale quando, nel 1986, inaugurò “Radio Parolaccia”.
Radio Radicale nacque nel 1975 per iniziativa di un gruppo di militanti del Partito Radicale in un appartamento di Roma. Era il periodo delle cosiddette “radio libere” nate in Italia dopo la liberalizzazione delle concessioni (e dell’abolizione del monopolio RAI) stabilita dalla Corte Costituzionale nel 1976. Radio Radicale trasmetteva integralmente tutti gli eventi di attualità politica, senza tagli, selezioni o mediazioni giornalistiche: lo slogan della radio era (ed è ancora oggi) “conoscere per deliberare”.
All’inizio il servizio di informazione era totalmente a carico del Partito Radicale, che indirizzava all’emittente la sua quota di finanziamento pubblico dei partiti. Nel luglio del 1986 a causa dell’aumento dei costi di gestione Radio Radicale annunciò la chiusura. I programmi furono sospesi e la programmazione basata unicamente sulle telefonate degli ascoltatori. Radio Radicale scelse infatti di lasciare a disposizione degli ascoltatori e delle ascoltatrici una segreteria telefonica su cui si poteva registrare un messaggio di un minuto con le proprie opinioni sulla radio. Il giorno dopo i messaggi sarebbero stati mandati in onda. Migliaia di persone telefonarono e lasciarono dei messaggi, solo che questi spesso non riguardavano la radio: erano veri e propri sfoghi liberatori (perché finalmente qualcuno li avrebbe ascoltati) sugli argomenti più vari, contro i meridionali o contro chi stava al nord (a seconda dei punti di vista), contro gli extracomunitari, i politici, le forze dell’ordine. In generale il tono era molto aggressivo e il linguaggio era sostanzialmente turpiloquio, bestemmie comprese.
Il 14 agosto del 1986 i magistrati firmarono un decreto di sequestro delle segreterie telefoniche utilizzate dalla radio, poiché durante le telefonate gli ascoltatori commettevano reati come vilipendio delle istituzioni e apologia del fascismo. La radio trasmise musica classica fino alle 20, poi diede le notizie che riguardavano il sequestro; il giorno dopo – era Ferragosto – Marco Pannella raccontò quello che stava accadendo in una lunga trasmissione in diretta. Dopo due mesi – si legge sul sito della Radio – «il Parlamento fu spinto a intervenire per salvare l’emittente, estendendo alle radio il finanziamento pubblico all’editoria di partito, e costringendo Radio Radicale a divenire “organo di partito” (fino ad allora non lo era) per poter sopravvivere, invece di assegnare alla radio un contributo per il servizio pubblico svolto».
L’iniziativa delle telefonate libere fu chiamata “Radio parolaccia” e venne replicata nel 1991 e nel 1993, quando sempre per salvarsi da una possibile chiusura fu riattivata la segreteria telefonica. In tre settimane Radio Radicale divenne una delle radio più ascoltate d’Italia. Nell’archivio sonoro di Radio Radicale – che raccoglie oltre 300 mila media tra cassette, nastri, mp3 e video – sono raccolte tutte le registrazioni delle telefonate ricevute dalla Radio nei mesi di luglio e agosto del 1986. Una parte di queste registrazioni sono state anche pubblicate nel libro “Pronto? L’Italia censurata dalle telefonate di Radio Radicale“, edito da Mondadori nel 1986. Dell’archivio fanno parte anche tutte le registrazioni delle telefonate riferite al novembre 1993: «Questo patrimonio di “voci senza nome”», si legge sul sito di Radio Radicale, «costituiscono un dato di notevole importanza, sia dal punto di vista sociologico che da quello glottologico».
Come nel 1986, anche nel 1993 ci furono diverse proteste all’iniziativa di Radio Radicale. Diversi senatori di vari gruppi politici parlarono di una trasmissione «indecente» che andava «zittita», ci fu chi accusò la radio di volersi semplicemente fare pubblicità, ci fu una denuncia da parte di alcune associazioni cattoliche alla procura della Repubblica di Roma per metter fine alle telefonate, ci fu un’interpellanza presentata al presidente del Consiglio Ciampi e ai ministri delle Poste, della Giustizia e dell’Interno e ci fu la notifica di una contestazione ai responsabili della radio da parte dell’allora garante per la radiodiffusione e l’editoria, Giuseppe Santaniello. Radio Radicale aveva violato la cosiddetta “legge Mammì“, dal cognome dell’allora ministro delle Poste e Telecomunicazioni del Partito Repubblicano Italiano Oscar Mammì. La legge disciplinava il sistema radiotelevisivo pubblico e privato e all’articolo 15 diceva: «È vietata la trasmissione di programmi che possano nuocere allo sviluppo psichico o morale dei minori, che contengano scene di violenza gratuita o pornografiche, che inducano ad atteggiamenti di intolleranza basati su differenze di razza, sesso, religione, nazionalità».
Nel gennaio del 1994 la vicenda finì con un’assoluzione di Radio Radicale da parte del garante per l’editoria: le telefonate raccolte e trasmesse da Radio Radicale (400 mila) «hanno avuto l’obiettivo di rendere testimonianza della volontà, dei sentimenti e delle relative modalità di espressione di un largo strato della popolazione, tanto da attirare la riflessione di numerosi studiosi, convenientemente rimarcata dalla stessa emittente nel corso delle trasmissioni». Il garante escluse anche che la trasmissione avesse potuto nuocere ai minori, poiché la radio si rivolgeva a un pubblico adulto.
La posizione del garante fu in effetti la stessa espressa da Pannella nel difendere l’iniziativa, nel 1993 così come nel 1986. In un’intervista sulla Stampa del novembre del 1993, Pannella disse: «C’è il moralista che borbotta, ma non c’è un sociologo che si prenda la briga di studiarle, quelle voci, e nemmeno un linguista che si metta ad analizzare la diversità delle parlate, le sfumature fonetiche, le inflessioni dialettali. Un enorme patrimonio di conoscenza, e loro lo sprecano così». Chi difendeva la radio sosteneva che si trattava semplicemente della realtà: uno specchio-del-paese. Nel 1993 l’allora direttore responsabile di Radio Radicale, Massimo Bordin, spiegò: «Noi abbiamo compiuto una scelta che non si traduce affatto in un avallo a quel genere di telefonate. Certo, le chiamate rivelano che l’Italia del ’93 è simile, e per certi versi addirittura più inquietante, dell’Italia della precedente “radio parolaccia”, del 1986. Ecco il dato che dovrebbe far riflettere i senatori, piuttosto che questo invito censorio».