Sapete della guerra nel Nagorno-Karabakh?
In un piccolo stato conteso del Caucaso meridionale la Russia sta cercando di aumentare la sua influenza e l'Occidente (per ora) sta a guardare
Nelle ultime settimane la stampa internazionale è tornata a occuparsi del Nagorno-Karabakh, un territorio conteso nel sud del Caucaso poco conosciuto, se non per alcune cronache degli anni Novanta. Nella prima settimana di agosto, nel Nagorno-Karabakh – repubblica che si è proclamata indipendente dall’Azerbaijan all’inizio degli anni Novanta – sono stati uccisi una quarantina di soldati appartenenti agli eserciti di Azerbaijan e Armenia, durante alcuni scontri molto violenti sul confine. Da oltre vent’anni i due paesi si contendono il controllo del Nagorno-Karabakh: la situazione è resa ancora più complicata dalle intromissioni costanti del governo russo, che sembra voler continuare a condizionare la sorte dell’area nonostante il raggiungimento dell’indipendenza di questi paesi con il crollo dell’Unione Sovietica.
Oltre alla crisi regionale provocata dagli scontri tra azeri e armeni delle ultime settimane – i più gravi dal 1994 – la situazione del Nagorno-Karabakh è seguita da molti analisti anche per un altro motivo: le continue intromissioni della Russia nel sud del Caucaso sono state paragonate all’azione russa in Crimea e nei territori orientali dell’Ucraina. I recenti avvenimenti nel Nagorno-Karabakh sembrano confermare l’interpretazione più diffusa sulla stampa occidentale riguardo le politiche del presidente russo Vladimir Putin negli stati oggi indipendenti, ma fino alla fine degli anni Ottanta appartenenti all’Unione Sovietica: cioè che Putin voglia ricreare un “impero russo” e limitare allo stesso tempo l’influenza delle organizzazioni occidentali come Nato e Unione Europea.
Cos’è il Nagorno-Karabakh? E cosa c’entra la Russia?
Dall’inizio. Il Nagorno-Karabakh è una regione montagnosa dell’Azerbaijan con una larga maggioranza di cristiani armeni, a loro volta una minoranza rispetto alla maggioranza musulmana della popolazione azera. Gli armeni del Nagorno-Karabakh votarono per l’indipendenza nel dicembre 1991, con un referendum boicottato dagli abitanti azeri della regione: da allora il Nagorno-Karabakh si definisce uno stato indipendente (ma non è riconosciuto a livello internazionale) e una repubblica presidenziale. Subito dopo la dichiarazione di indipendenza, comunque, cominciarono gli scontri tra azeri e armeni per il controllo dell’area. Tra il 1992 e il 1994 Armenia e Azerbaijan combatterono una guerra in cui rimasero uccise circa 30mila persone e che fece milioni di profughi. La guerra terminò con una tregua piuttosto precaria, che lasciò ampio spazio di influenza alla Russia, alleata dell’Armenia: ma negli anni successivi ci furono altri scontri e altre tregue (la versione lunga della storia si può leggere qui). Brenda Shaffer scrive sul New York Times [nota: il 17 settembre 2014 il New York Times ha pubblicato una nota alla fine dell’articolo con la quale ha avvisato il lettore di avere avuto delle informazioni parziali sulle esperienze lavorative precedenti di Shaffer. Shaffer, infatti, ha lavorato in passato come consulente per una compagnia petrolifera dell’Azerbaijan, e ciò può sollevare dei dubbi riguardo un suo potenziale conflitto di interessi]:
«Più precisamente, la Russia ha trovato il modo per mantenere viva la guerra. Tre volte nel corso degli anni Novanta l’Armenia e l’Azerbaijan hanno firmato accordi di pace, ma la Russia ha trovato sempre il modo di sabotare la partecipazione dell’Armenia. (Nel 1999, per esempio, un giornalista sospettato di essere appoggiato da Mosca assassinò il primo ministro dell’Armenia, lo speaker del parlamento e altri funzionari governativi).
Una guerra non risolta – un “conflitto congelato”, come lo chiama la Russia – dà alle forze russe una scusa per entrare nella regione e condizionare le politiche di entrambe le parti. Una volta che le forze russe si sono posizionate, nessuna parte coopera in maniera stretta con l’Occidente senza avere paura di una ritorsione da parte di Mosca.»
Ancora oggi l’Armenia controlla circa il 20 per cento del territorio dell’Azerbaijan, tra cui la maggior parte del Nagorno-Karabakh e parecchie altre regioni lì attorno. Allo stesso tempo l’Armenia è ancora pesantemente condizionata dalla Russia: l’esercito russo controlla in pratica le difese aeree armene, oltre che alcune delle infrastrutture chiave del paese.
Perché si riparla di scontri
Negli ultimi mesi la Russia ha rafforzato ulteriormente il suo controllo sulla regione del sud del Caucaso, e alcuni analisti cominciano a vedere molte analogie con la crisi in Ucraina. La scorsa primavera, per esempio, il governo armeno ha abbandonato l’idea di firmare un accordo di partnership con l’Unione Europea – proprio come fece l’ex presidente ucraino filo-russo Viktor Yanukovych, poi sfiduciato dal parlamento ucraino a seguito delle grandi proteste di piazza Indipendenza a Kiev dell’autunno e inverno scorsi – e ha annunciato la sua intenzione di unirsi a un accordo simile proposto dalla Russia.
Un altro episodio piuttosto significativo risale alla fine di luglio e l’inizio di agosto, nei giorni in cui il presidente russo Vladimir Putin aveva fissato un incontro a Sochi, in Russia, per presentare ai leader di Armenia e Azerbaijan il suo piano per aumentare le forze russe di “peacekeeping” incaricate formalmente di “mantenere la pace” tra i due paesi. Il 31 luglio gli armeni – che avevano accettato di partecipare all’incontro organizzato da Putin – avevano attaccato a sorpresa e in tre diversi posti il territorio azero: nel momento dell’attacco il presidente azero Ilham Aliyev e il suo ministro della Difesa si trovavano fuori dal paese. Come hanno osservato alcuni esperti, l’Azerbaijan non aveva ancora accettato l’incontro proposto da Putin, e l’attacco armeno è stato compiuto molto probabilmente in accordo con la Russia, come una specie di avvertimento ai leader dell’Azerbaijan.
Cosa fa l’Occidente?
Diversi analisti nelle ultime settimane hanno criticato molto le mancate reazioni degli Stati Uniti e dell’Unione Europea rispetto all’intervento russo in Nagorno-Karabakh. Le considerazioni che vengono fatte sono due: primo, che senza una risposta adeguata il rischio è di vedere replicato qui quello che è successo con l’annessione della Crimea alla Russia, resa possibile anche grazie all’immobilismo occidentale. Secondo, che come succede spesso le argomentazioni di principio di diversi stati occidentali su dove e come intervenire militarmente o politicamente entrano in contraddizione tra loro. E il risultato è una perdita di credibilità dell’azione occidentale, problema diventato evidente durante la crisi ucraina.
L’Economist scrive:
«I funzionari a Baku, la capitale dell’Azerbaijan, hanno rilevato un doppio standard su concetti come sovranità e autodeterminazione. Si chiedono perché l’Occidente punisca la Russia per l’annessione della Crimea, ma non l’Armenia per un comportamento simile nel Karabakh. Molti si chiedono il perché l’Occidente approvi l’uso della forza da parte dell’Ucraina per ristabilire la propria integrità territoriale, ma chieda all’Azerbaijan di essere paziente e usare metodi pacifici. Come risultato l’Azerbaijan “sta perdendo fiducia nell’abilità dell’Occidente di mantenere e garantire una tregua pacifica”.»
In un editoriale di Shaffer sul New York Times, intitolato eloquentemente “Russia’s Next Land Grab” (“La prossima conquista territoriale della Russia”), si critica duramente il governo statunitense per avere indirettamente legittimato la Russia a svolgere il ruolo di mediatore negli scontri tra Armenia e Azerbaijan, e per avere riconosciuto la riunione di Sochi in cui Putin ha presentato il suo piano di aumentare le forze di peacekeeping russe nell’area (anche nella crisi ucraina si è parlato di recente di forze russe di “peacekeeping”, che in quel caso sono state viste da governi occidentali ed esperti come forze di occupazione, e non forze di pace). Shaffer scrive che Obama dovrebbe invitare i leader dei due paesi a Washington e mostrare che gli Stati Uniti non hanno abbandonato il Caucaso del sud. In questo modo l’influenza della Russia diminuirebbe, e il Nagorno-Karabakh non rischierebbe di diventare il nuovo fronte del tentativo russo di ricostruire il suo impero dopo il crollo dell’Unione Sovietica.