Vanno raccontati, gli immigrati
È meno urgente di salvarli dal mare e dal resto, ma è lo stesso importante, e non lo stiamo facendo bene: modelli, suggerimenti, e una proposta per Roma
di Filippomaria Pontani
«Spuntato il sole radioso vediamo / tutto l’Egeo fiorito di cadaveri»
(Eschilo, Agamennone 658-59).
Con questa celebre metafora che oggi, nell’era delle riprese aeree, la mente è abituata a concepire con vivezza quasi quotidiana, il più grande tragediografo dell’antichità descrisse l’esito della tempesta notturna che colpì gli Achei di ritorno dalla guerra di Troia, fissando nel contempo l’immagine archetipica di tutti i naufragi. Nella loro pedanteria, alcuni commentatori antichi osservarono che la metafora si reggeva sul fatto che il mare è scuro (Omero lo definiva “colore del vino”, “colore di viola”, o anche direttamente “nero”), mentre i cadaveri sono bianchi, e dunque risaltano cromaticamente su quello sfondo, proprio come i fiori sopra la nera terra. Ma i cadaveri, con ogni evidenza, non sono sempre bianchi.
L’ecatombe, e il ruolo della cultura
Quella dell’altra notte – almeno 30 migranti morti in mezzo al mare, stipati sotto la prua di un peschereccio alla deriva – è l’ennesima goccia di uno stillicidio ormai ventennale che si consuma nella sempre maggiore indifferenza dell’opinione pubblica, nelle contrizioni di rito delle autorità nazionali e internazionali, e nell’esasperazione crescente delle comunità “di frontiera”, chiamate a gestire con grande sacrificio, con norme spesso aberranti e con mezzi inadeguati un fenomeno che le trascende di molto. Così, nella retorica di una fazione politica in ascesa (che ha appena conquistato la città in cui risiedo, sfoderando d’emblée propositi più che bellicosi contro il Ramadan e a favore dei crocifissi obbligatori nelle scuole e negli uffici), si propone perfino di smantellare l’operazione di pattugliamento e salvataggio Mare Nostrum, unico tardivo segnale di dignità di una nazione sempre più chiusa su se stessa, senza nemmeno pensare al torto che s’infligge a chi, per salvare vite umane, sfida il mare forza 4 o allestisce in emergenza campi di fortuna (per inciso, coloro che ora criticano questo dispendioso ma indispensabile programma sono gli stessi che quindici anni fa, da alti scranni, proponevano di ributtare in mare tout court i profughi albanesi che giungevano dal Canale d’Otranto).
Per contro, ricevono scarsa eco le analisi pacate dei fenomeni migratori che riportano la questione degli sbarchi alle sue esatte proporzioni (per esempio quelle di Maurizio Ambrosini), o le proposte di accogliere semplicemente i migranti “perché conviene” (Accogliamoli tutti, Manconi-Brinis, Saggiatore 2013) o “perché è giusto” (la vasta galassia di movimenti cosiddetti “antagonisti”). Né so quanti visitino regolarmente il sito più aggiornato e militante su questo tema, Fortress Europe di Gabriele del Grande.
Curiosamente, a differenza di quanto avviene per esempio in Grecia, la rappresentazione di questa tragedia annosa e continua che sa di sabbia e di salsedine, di ruggine e di legno marcio, occupa, al di là della propaganda, uno spazio tutto sommato modesto nella rappresentazione degli artisti e degli intellettuali, forse più intenti a contemplare la grande bellezza della propria decadenza sulle indisturbate terrazze romane, o forse terrorizzati dal sempre incombente pericolo della retorica.
Nell’informazione, al di là dei blog, alcune delle analisi più acute e meno improvvisate sui risvolti socio-culturali del fenomeno (penso a Veronica Tomassini o Adriano Sofri) rimangono consegnate ad effimeri articoli di fondo. Il film Terraferma di Emanuele Crialese (2011), impietoso e perfetto nella sua dolente immaginazione, non ha avuto il successo che meritava (alla mostra del cinema di Venezia, quell’anno, fu sopravanzato dal lezioso Faust di Sokurov). La distribuzione dello scomodo documentario Come un uomo sulla terra di Andrea Segre, Riccardo Biadene e Dagmawi Yimer (2008), è rimasta limitata a qualche sala di volenterosi e ai cineforum più accorti. L’autore della migliore silloge poetica sui migranti, densa come sempre di echi biblici, è oggi sotto processo per altri motivi (mi riferisco a Erri de Luca, Solo andata, Feltrinelli 2005).
L’opera L’approdo dello scultore greco Kostas Varotsos, che ha profilato di lastre vitree il relitto della motovedetta albanese “Kater-i-Rades” colata a picco il Venerdì Santo del 1997 dopo la collisione con una nave della nostra Marina (57 morti e 24 dispersi: una catastrofe narrata in modo esemplare da Alessandro Leogrande nel libro Naufragio. Morte nel Mediterraneo, Feltrinelli 2011), campeggia da due anni in disparte in un angolo del porto di Otranto, e nonostante la sua forza evocativa non è ancora entrata nel novero dei monumenti (dal verbo latino moneo, “ammonire”) della splendida cittadina del Salento; non so se una sorte migliore toccherà alla più retorica Porta d’Europa di Mimmo Paladino a Lampedusa. Gli sconvolgenti monologhi teatrali di Lina Prosa (penso in particolare alla trilogia Lampedusa Beach, Lampedusa Snow, Lampedusa Way), non a caso cresciuti su una profonda meditazione della tragedia greca, sono rimasti tanto poco eseguiti da noi quanto applauditi all’estero: in traduzione francese, erano in cartellone alla Comédie Française lo scorso inverno, e all’ingresso del teatro Amnesty International diffondeva gratuitamente accorati opuscoli sulla situazione dei migranti in Italia e in Grecia (i CIE, i respingimenti, gli accordi con la Libia, i diritti umani violati lungo la frontiera dell’Evros, eccetera), in cui si disegnava con impassibile sgomento il fallimento della politica di accoglienza lungo la frontiera meridionale dell’Unione Europea.
Un approccio diverso
Ora, che la Francia sia più sensibile di noi al tema dell’immigrazione non è cosa sorprendente, alla luce della vicenda storica di quel Paese. Ma il gesto intellettuale compiuto dal governo di Parigi nel 2007 con l’apertura della Cité Nationale de l’Histoire de l’Immigration merita qualche riga in più. Pressoché ignorato dai turisti stranieri, ma assai frequentato dai locali, il Palais de la Porte Dorée sorge ai limiti del Bois de Vincennes, e rappresenta il più imponente residuo architettonico dell’Esposizione coloniale del 1931, un evento ragguardevole (8 milioni di visitatori) che fece fiorire sontuosi quanto effimeri padiglioni di molte nazioni asiatiche e africane dentro il limitrofo parco, e convocò per la pubblicità artisti di grido come Kees van Dongen (assai più limitato fu per contro il successo della contro-manifestazione di denuncia La verità sulle colonie organizzata dal gruppo dei Surrealisti come Breton, Aragon, Éluard e Tanguy).
In omaggio al suo nome originario (Palais des Colonies), l’edificio costruito da Albert Laprade fu decorato esternamente con un enorme tappeto di bassorilievi (opera di Alfred Auguste Janniot) e internamente con sesquipedali affreschi (opera di Pierre Ducos de la Haille), gli uni e gli altri volti a illustrare il contributo delle colonie alla metropoli (dal riso al caucciù, dal cotone alla canapa) e la missione civilizzatrice della Francia (non dell’Europa, che nella lussureggiante figurazione del grande Salone delle feste ha una funzione vicaria) rispetto agli altri continenti: la giustizia, la tecnologia agricola, la navigazione, l’aritmetica e altre ancora.
L’idea geniale (realizzata peraltro da un ministro di destra: Jacques Toubon, a lungo preso in giro per l’anacronistica difesa della propria lingua contro i prestiti dall’inglese) è stata quella di scegliere proprio questo Palazzo, plastica icona di una retorica imperialista del tutto affine a quella dei faraoni egizi o dei templi di Angkor, come sede di un centro nazionale per studiare, descrivere e comunicare i numeri, i problemi e gli enjeux dell’immigrazione negli ultimi 150 anni. Spogliato delle collezioni delle arti di Africa e di Oceania (che ospitò fino al 2003, quando fu avviato il progetto del Musée du quai Branly), il Palais de la Porte Dorée ospita ora, oltre alle esposizioni temporanee, una mostra permanente che sembra quasi dialogare per antifrasi con gli affreschi del 1931 e che sagacemente rinuncia all’ovvia paratassi dell’analisi per singole etnie, articolandosi invece lungo assi tematici innervati di volti, fotografie, manifesti, oggetti personali, statistiche, documenti: il viaggio, la legislazione, la nostalgia, le discriminazioni, i luoghi di vita, il lavoro, la religione, il radicamento, lo sport, la cultura.
Si apprende cos’è il passaporto Nansen, dove si riunivano i Russi di Parigi e dove pregavano gli ebrei di Carpentras, chi era davvero Marie Curie, o ancora quando e perché nacque la prima nazionale di calcio dell’Algeria (tutti temi la cui attualità non ha bisogno di essere dimostrata). Senza retorica, senza ambizione di completezza e senza alcun partito preso al di fuori di un vasto concetto di humanitas, il percorso (destinato a rinnovarsi ulteriormente a partire dal 22 luglio 2014 dopo qualche settimana di chiusura) segue alcune vicende personali di “gente comune” come di immigrati divenuti famosi, ed è intervallato da una serie di capolavori di artisti contemporanei variamente legati al tema: dalle banlieues di Mohamed Bourouissa alle “macchine-cattedrali” di Thomas Mailaender, dai provocatori manifesti dell’iraniana Ghazel alla splendida nave dei profughi Road to exile di Barthélémy Toguo, che accoglie i visitatori all’entrata. «Un francese su quattro è figlio dell’immigrazione», avverte una cartolina che si ritira all’entrata; la prende in mano sotto i miei occhi un bambino, che come molti altri passeggia per il museo in attesa di gustare insieme ai genitori l’altra grande attrazione dell’edificio, ovvero il favoloso acquario al piano interrato, ricco di mille specie esotiche.
Va da sé che l’immigrazione, in Francia e ancor più in Italia, è un fenomeno non sovrapponibile né riducibile al colonialismo e ai suoi strascichi. Non è certo un caso, tuttavia, che proprio l’avventura coloniale leghi l’Italia ai due Paesi più importanti in termini di partenze di barconi e scafisti negli ultimi decenni: non ne dubiterà chi abbia presente l’apertura del film Lamerica di Gianni Amelio, con il discorso di Mussolini sull’Italia “civilizzatrice” dell’Albania (siamo a pochi anni dal Palais des Colonies), o la sconcertante retorica della riconciliazione in funzione anti-migranti praticata da Silvio Berlusconi con il suo amico Gheddafi nel 2010. Per questo, nei Paesi europei che troppo spesso dimenticano i disastri compiuti in terre lontane sotto lo schermo della diffusione della civiltà (gli “Italiani brava gente”, in questo senso, hanno la memoria singolarmente corta), legare l’imperialismo di ieri e l’immigrazione di oggi potrebbe rappresentare una mossa doppiamente utile sul piano civile.
Una proposta
Da poche settimane disponiamo di una guida alla persistenza architettonica del fenomeno coloniale, così spesso negletto o colpevolmente ignorato, nelle strade della nostra capitale: il libro Roma negata di Rino Bianchi e Igiaba Scego (EDS 2014). I luoghi censiti e fotografati nel libro appartengono a una stagione non remotissima del nostro Paese, e mancano fino ad oggi di un progetto pubblico che li identifichi, li riconosca per quello che sono, e magari li redima dando loro un futuro diverso. È utopistico, fuori luogo, o radical-chic, auspicare che una delle tante architetture fasciste di Roma – da individuare con calma, e magari tra quelle più legate ai nostri deliri coloniali – abbia a ospitare nel prossimo futuro non già l’ennesimo, inutile e costoso museo di arte contemporanea, bensì l’embrione di uno spazio espositivo dedicato a quanto sta avvenendo ormai da anni sotto i nostri occhi sempre più distratti?
Costituirebbe forse un minimo risarcimento, almeno in termini di memoria, per le vittime – bianche e nere – di questo ininterrotto olocausto; ci obbligherebbe a disilluderci circa la natura “recente” e “trascurabile” dell’immigrazione in Italia rispetto a quella in altri Paesi, e ci aiuterebbe a credere che in Italia possa esistere un racconto dell’emigrazione altrui che non sia soltanto un’appendice rispetto a quello della nostra (come avviene per esempio nel Museo Nazionale dell’Emigrazione al Vittoriano); potrebbe indirizzare una certa parte del mondo intellettuale e artistico verso questa problematica, con esiti magari meno effimeri di quelli cervellotici e ombelicali che troppo spesso si vedono esposti altrove; potrebbe persuadere alcuni che le aberrazioni nazionalistiche del Ventennio non si mondino necessariamente solo con le pelose celebrazioni del made in Italy (penso a quel che si profila con il Palazzo della Civiltà Italiana all’EUR concesso per un piatto di lenticchie al gruppo Fendi-Arnault), ma tramite un discorso pubblico condiviso, e di segno opposto.
Beninteso, stiamo discutendo di dettagli, mentre ciò che è più urgente – e che temo pochi di noi abbiano la competenza di fornire – è una strategia sensata per evitare nuove stragi in mare: un nuovo museo non risolverebbe certo il problema dei flussi, degli scafisti e dei respingimenti. Ma almeno potrebbe dare ai bambini (i quali interagiscono con gli immigrati spesso ben più e meglio degli adulti) un’immagine meno appiattita, ideologica e caricaturale del fenomeno in cui sono immersi. Di quel fenomeno che – anche perché legato a quanto ha a che fare con le onde, le barche, le stive, e con tutto il fascino ancestrale e terribile del viaggio per mare – viene percepito dal resto del mondo come il singolo fatto saliente del nostro Paese (oltre a Berlusconi) tra la fine del XX secolo e l’inizio del XXI. E tale resterà, non c’è da dubitarne, sui libri di storia in cui i Letta, i Renzi e gli Alfano saranno sì e no delle comparse.
foto: Tullio M. Puglia/Getty Images