Immunità parlamentare, le cose da sapere
Perché ne stiamo riparlando? È giusto dire che la riforma del Senato la "reintroduce"? Cosa dice oggi la legge? Un po' di informazioni per orientarsi nel dibattito in corso
Benché la riforma del Senato preveda cambiamenti potenzialmente epocali – la fine del bicameralismo perfetto, dell’elettività dei senatori e del loro potere di votare la fiducia – negli ultimi giorni il dibattito si è concentrato su una questione di minore importanza relativa ma di grande valore simbolico: la possibilità che i membri del nuovo Senato godano o no di una qualche forma di protezione giudiziaria come i loro colleghi deputati. È la discussione sulla cosiddetta “immunità parlamentare”, anche se la definizione non è precisissima.
Di che cosa parliamo
Secondo l’attuale bozza della riforma, il Senato sarà composto da cento senatori: 95 provenienti dagli enti locali e cinque nominati dal presidente della Repubblica, come avviene adesso per i senatori a vita. Dei 95 provenienti dagli enti locali, 74 saranno eletti dai consigli regionali e dalle province autonome di Trento e Bolzano tra i membri degli stessi consigli. Ogni regione eleggerà un numero di senatori in proporzione alla sua popolazione. Nessuna regione ne potrà eleggere meno di tre, tranne Molise, Val d’Aosta e province di Trento e Bolzano che ne eleggeranno uno ciascuna. Altri 21 senatori saranno eletti sempre dai consigli regionali, ma scegliendo tra i sindaci della regione. Ogni regione eleggerà un sindaco da mandare in Senato.
Inoltre, e siamo arrivati al dunque, al contrario della prima bozza l’attuale versione della riforma prevede che i senatori godano – come fanno adesso sia loro sia i deputati – di una forma di immunità nel rispetto di quanto prescritto dall’articolo 68 della Costituzione, che dice:
«I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni. Senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a perquisizione personale o domiciliare, né può essere arrestato o altrimenti privato della libertà personale, o mantenuto in detenzione, salvo che in esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna, ovvero se sia colto nell’atto di commettere un delitto per il quale è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza. Analoga autorizzazione è richiesta per sottoporre i membri del Parlamento ad intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni e a sequestro di corrispondenza»
Tradotto: ogni volta che una procura vuole applicare una misura di restrizione della libertà personale nei confronti di un parlamentare – per esempio arrestarlo, oppure perquisire il suo ufficio o il suo domicilio, oppure intercettare le sue comunicazioni – bisogna passare dall’aula del Parlamento cui appartiene, che con un’indagine e un voto stabilisce se la richiesta della procura sia legittima o se vi ravvisi il sospetto di un intento persecutorio (il cosiddetto “fumus persecutionis” di cui si parla spesso in circostanze del genere). Inoltre, nessun parlamentare può essere perseguito per cose che ha detto durante l’esercizio delle sue funzioni o per i voti che ha espresso.
L’attuale stesura della riforma non “reintroduce” l’immunità parlamentare, ma stabilisce che i membri del nuovo Senato ne godano esattamente come ne godono i membri dell’attuale Senato. Sui giornali avete letto la parola “reintroduce” perché una precedente versione della riforma non prevedeva che i senatori conservassero l’immunità.
Ha sempre funzionato così? No
È bene sapere che quello che oggi intendiamo per “immunità parlamentare” non ha un significato univoco, e che in passato nella storia italiana questa espressione ha determinato misure diverse. Con la nascita della Repubblica e la scrittura della Costituzione, il principio dell’immunità prevedeva che i parlamentari non potessero essere nemmeno sottoposti a indagine senza un voto della camera di appartenenza, la cosiddetta “autorizzazione a procedere”. Lo stesso doveva accadere anche in caso di condanna definitiva. L’unico caso in cui era permesso l’arresto era la flagranza di un reato per il quale fosse obbligatorio il mandato o l’ordine di cattura.
All’epoca, l’inserimento dell’immunità parlamentare nella Costituzione fu considerato una vittoria della sinistra, a garanzia della possibilità di fare politica senza temere ritorsioni e repressioni da parte della magistratura. D’altra parte l’immunità parlamentare – in forme che possono essere molto diverse – è considerata uno dei principi su cui si basa la separazione dei poteri, poiché impedisce al potere giudiziario di interferire in quello legislativo: in teoria – ma questa “teoria” alla fine del fascismo era una prospettiva molto concreta e non così assurda – serve a evitare che un magistrato politicamente motivato possa perseguire pretestuosamente un parlamentare per limitare la sua libertà o interrompere le sue attività o semplicemente ricattarlo.
Col passare degli anni in Italia l’immunità parlamentare ha cambiato senso e forma: nel 1993 una riforma ha abolito l’autorizzazione a procedere – oggi i parlamentari possono essere indagati senza che serva autorizzazione, e devono andare in carcere quando arriva la condanna definitiva – mentre nel 2003 si fecero degli ulteriori aggiustamenti, volti tra le altre cose a determinare il processo decisionale del Parlamento quando la procura richiede arresti, perquisizioni o intercettazioni contro un parlamentare, e rendere utilizzabili le cosiddette “intercettazioni telefoniche indirette”, cioè quelle disposte nel corso di procedimenti riguardanti terzi, per conversazioni alle quali membri del Parlamento abbiano preso parte.
Negli anni è cambiata anche la percezione dell’opinione pubblica nei confronti dell’immunità parlamentare, che da strumento a difesa dell’autonomia della politica è stato visto sempre di più – anche a causa di una lunghissima serie di casi di corruzione – come uno strumento volto a garantire un’indebita protezione ai politici disonesti. Non è un caso, infatti, che la prima riforma dell’immunità parlamentare sia arrivata nel 1993, dopo gli scandali di Tangentopoli e la fine dei partiti che governarono l’Italia nella cosiddetta Prima repubblica.
Ciò che non è mai cambiato è la norma a tutela dell’insindacabilità delle opinioni espresse e dei voti dati dai parlamentari nell’esercizio delle loro funzioni.
Che cosa succederà stavolta
L’emendamento ha causato molte polemiche in questi giorni, in particolare da alcuni esponenti della minoranza del Partito Democratico e del Movimento 5 Stelle. La Lega Nord ha difeso l’emendamento, sostenendo che l’immunità deve valere per tutti i parlamentari oppure per nessuno. Il governo ha detto che la scelta è stata fatta in autonomia dai relatori al Senato e che tutto sommato non gli interessa granché: «si può discutere ma non è centrale», ha detto il ministro Maria Elena Boschi. L’impressione al momento è che la norma stia a cuore soprattutto all’opposizione – Lega Nord e Forza Italia – e che la sua introduzione o cancellazione dalla riforma sia ancora oggetto di trattative tra loro e il PD.
Per presentare ulteriori emendamenti ci sarà tempo fino al 25 giugno. A quel punto la commissione dovrà approvare il testo ed inviarlo al Senato per il primo voto. Non è ancora stato deciso quando la commissione voterà il testo definitivo, ma si parla di portare il testo in Senato entro luglio.