I mobili argini di Venezia
Del disastro veneziano raccontato dagli arresti di oggi sono complici in molti, spiega Fillippomaria Pontani: e soprattutto nelle classi colte e accademiche
di Filippomaria Pontani
Finalmente il sistema-Venezia è venuto giù, scrostando una parte (soltanto una parte) di quel sistema dei “padroni del Veneto” denunciato da Renzo Mazzaro in un aureo libretto del 2012. Siamo dinanzi, nelle parole del procuratore Nordio, a un sistema non molto distante da quello della Tangentopoli di 20 anni fa, solo un po’ più sofisticato, e fondato su una complessa rete di fondi neri destinati a far lievitare i costi delle grandi opere (dal MOSE alle bonifiche ai lavori per la salvaguardia di Venezia) per consentire il pagamento di tangenti. E molti temono che l’onda delle indagini non abbia a fermarsi qui.
In breve: il 28 febbraio 2013 erano stati arrestati il presidente dell’impresa di costruzioni Mantovani SPA Piergiorgio Baita e diversi suoi collaboratori, con l’accusa di aver creato fondi neri tramite fatture false, tra l’altro in relazione ad alcune opere del succulento corpaccione del MOSE, il sistema di paratie mobili destinato a proteggere Venezia dall’acqua alta, sulla cui efficacia e sulle cui ricadute ambientali (specie in confronto ad altre soluzioni possibili) illustri scienziati hanno peraltro espresso negli anni dubbi più che fondati. L’11 luglio 2013 era finito agli arresti domiciliari, insieme ad altre 13 persone, Giovanni Mazzacurati, anziano presidente del Consorzio Venezia Nuova (gestore e responsabile del medesimo MOSE, nonché di diverse altre opere legate alle acque, alle bonifiche e alla portualità), con l’accusa di aver pilotato delle gare d’appalto, grazie al suo ventennale ruolo di direzione del Consorzio (ha recentemente percepito una liquidazione di 7 milioni di euro) e delle sue comprovate frequentazioni con tutti i livelli della politica locale e nazionale. Non è dunque un caso che dopo questi due arresti, e dopo le prime confessioni (talora con patteggiamento) di alcuni accusati minori (un ruolo dirimente è stato svolto in questa vicenda dalla segretaria Claudia Minutillo, preposta a portare materialmente in Svizzera i denari illeciti), la preoccupazione in città sia divenuta palpabile. Tutti sapevano (era bastato seguire l’efficacissimo servizio di Report del 27 maggio 2012, in cui figuravano diversi personaggi oggi agli arresti, e che Orsoni definì “spazzatura”) che attorno al MOSE – da anni l’unica grande opera cittadina finanziata con molti miliardi – si muovevano risorse a iosa, in grado di influenzare e condizionare potentemente il livello economico, politico e culturale della città.
E si muovevano in senso peraltro assolutamente bipartisan, come mostra il coinvolgimento negli arresti odierni di esponenti del PD (a cominciare dal sindaco Orsoni, indagato per presunti illeciti finanziamenti alla sua campagna elettorale, e dal consigliere regionale Giampiero Marchese) e di Forza Italia (l’assessore regionale ai trasporti Renato Chisso, l’ex ministro Giancarlo Galan, e l’europarlamentare Lia Sartori: anche qui si ipotizzano – almeno per i primi due – cospicui contributi, pare addirittura mensili, ricevuti su fondi neri, oltre a favori vari, tra i quali il restauro della villa di Galan a Cinto Euganeo). Ma la rete dei coinvolti – ferma restando per tutti la presunzione di innocenza – è capillare, in quanto abbraccia funzionari regionali (per es. il “collaudatore” Giuseppe Fasiol, l’alto dirigente Giuseppe Artico, preposto fra l’altro alle bonifiche e alla Legge Speciale per Venezia), amministratori delegati di potenti finanziarie (Roberto Meneguzzo, a capo di Palladio Finanziaria, la “Mediobanca del Nordest”), magistrati della Corte dei Conti (Vittorio Giuseppone), carabinieri legati ai servizi, generali della Guardia di Finanza, dirigenti e dipendenti del Consorzio, politici già arrestati per concussione anni fa, presidenti del Magistrato alle Acque, imprenditori di cooperative indagate per riciclaggio o ai fondi neri, imprenditori variamente discussi, architetti, commercialisti.
Lo sviluppo delle indagini e dei processi preciserà i dettagli del funzionamento di questo sistema: di certo, in base alle risultanze note fin qui, esso si serviva di un collaudato organigramma, che prevedeva una talpa nella polizia (il vicequestore Giovanni Preziosa, il quale ha ammesso di aver rivelato abusivamente una serie di segreti alla Mantovani), e oliati meccanismi nella politica: Baita e Mazzacurati hanno tirato in ballo anche l’ex ministro Altero Matteoli, apparentemente beneficiario di tangenti in relazione alle bonifiche di Porto Marghera gestite dal Consorzio; un recentissimo articolo del Corriere del Veneto aveva preannunciato giorni fa il possibile coinvolgimento di diversi uomini politici (molti di quelli arrestati oggi), e aveva parlato di finanziamenti del Consorzio all’associazione VeDrò di Enrico Letta, a Renato Brunetta, al potente Studium Marcianum (organismo d’istruzione superiore promosso dall’ex patriarca ciellino Angelo Scola, e cresciuto enormemente negli ultimi anni); infine tra gli indagati figura, quale presunto beneficiario di mazzette, anche Marco Milanese, già stretto consigliere di Giulio Tremonti. Ma la coincidenza della retata odierna con le indagini sull’Expo non è forse solo uno scherzo del destino: molti anni fa, nel 1990, l’ex ministro socialista Gianni De Michelis e i suoi avevano pianificato l’Expo 2000 proprio a Venezia, in un avvitamento di follia che Tangentopoli e la storia fortunatamente sventarono, ma evidentemente non al punto da placare gli appetiti retrostanti. Anzi, la piastra del sito espositivo di Expo 2015 è stata realizzata dalla medesima impresa Mantovani che ha pagato tangenti a destra e a manca per tenere in mano il MOSE (l’impresa, come detto al principio, il cui presidente Baita finì in galera un anno fa): col che, come si suol dire, il cerchio si chiude.
L’esemplarità del caso-Venezia, per quanto assai interessante in quanto rappresenta in vitro un distillato del sistema di potere che blocca questo Paese, non sta soltanto nei fondi neri, nelle mazzette o nelle compromissioni dei governanti. Sta piuttosto nella simbologia che nasconde, sotto almeno tre profili strettamente connessi.
a) Una classe politica totalmente incapace di avere una visione del futuro: è in fondo questo il fil rouge della denuncia contenuta nel libro di Mazzaro citato in apertura. L’impotenza della politica in città era peraltro dichiarata candidamente, pochi mesi fa, da consiglieri comunali dello stesso Partito Democratico come Jacopo Molina e Daniele Comerci: appare palese che i politici (la vicenda del Lido ne è un caso esemplare) sono ostaggi di potentati economici molto più solidi e inconcussi degli eletti. Non vorremo qui ricordare che mentre Mazzacurati tesseva le trame del suo potere nel Consorzio Venezia Nuova in qualità di direttore, per anni (1986-95) il presidente del medesimo ente era l’attuale capogruppo dei senatori PD Luigi Zanda, certamente estraneo a ogni malefatta. Né vorremo ritornare sulle spaccature del PD al tempo della disfida a sindaco fra Massimo Cacciari e Felice Casson (nel 2005, quando si sarebbe potuta finalmente innestare una vera discontinuità) o sulle divisioni della Lega tra supporters di Luca Zaia e Flavio Tosi (divisioni che a detta di molti stanno di fatto paralizzando l’attività del Consiglio Regionale). Quello che più interessa è constatare come la quasi assoluta scomparsa delle istanze di “sinistra” dal potere veneziano (l’assessore ambientalista Gianfranco Bettin ha spesso combattuto battaglie solitarie; il magistrato Felice Casson è stato spedito a Roma come senatore – oggi civatiano – del PD dopo aver perso la corsa contro Cacciari) ha direttamente o indirettamente contribuito a consolidare un sistema di potere sostanzialmente democristiano (nel senso che vi prevalgono i grandi potentati di area cattolica), il quale ha santificato il project financing e si è nutrito della legislazione speciale per aggirare i controlli e favorire brevi manu le imprese amiche, senza che alcun vero controllo fosse esercitato dalle istituzioni preposte. Tanto più sconforta ora vedere i deputati veneziani del PD cadere dalle nuvole, dichiarandosi affatto ignari di una corruttela così profonda e radicata, oppure proclamare, con la Puppato che era in Regione fino a ieri, la resurrezione renziana come panacea a un sistema che affonda le proprie radici nel grumo di consorterie, di salotti e di collusioni che attosca la città da decenni.
b) La grave negligenza dell’interesse pubblico nel gestire un patrimonio culturale e ambientale senza pari. Questa negligenza, oltre al suo risvolto “estetico” o sanitario, ha infatti un potente valore diagnostico. Non intendo ripercorrere qui, oltre ai già ricordati guasti positivamente inferti dal MOSE all’ecosistema lagunare, il lungo e dettagliato lamento sulle molte iniziative della giunta Orsoni (e in parte della precedente giunta Cacciari), dalla scellerata distruzione del Lido al grottesco assenso alla Torre di Pierre Cardin a Marghera, dall’abuso dello storico Arsenale come retrovia del MOSE al comico tira-e-molla sul rifacimento del Fondaco dei Tedeschi ad opera di Benetton, dalla privatizzazione di spazi simbolici come Punta della Dogana e Ca’ Corner della Regina all’affissione dei maxi-cartelloni pubblicitari in Piazza San Marco, dal massiccio consumo di suolo previsto dal Piano di Assetto Territoriale (con l’oscena cementificazione del “quadrante di Tessera”, fortemente voluta da Orsoni) alla privatizzazione della gestione del Casinò. Su tutto, la notissima vicenda delle Grandi Navi, che ha occupato diversi ministri e che a tutt’oggi, a dispetto delle promesse da marinaio e dei riflettori internazionali, rimane drammaticamente senza soluzione: i mostri galleggianti continuano a passare, e rischia di realizzarsi il disastroso progetto dell’altro ex-sindaco Paolo Costa (già fautore di un insensato porto d’altura), ovvero lo scavo di un altro profondo canale nel mezzo della Laguna, il Contorta-Sant’Angelo. Per non parlare dell’assenza di progetti credibili per recuperare l’area di Porto Marghera, quella il cui tristo e maleolente declino scandalizzava anni fa Andrea Zanzotto. Ecco, ora che la classe dirigente è stata decapitata dalla magistratura, si sostanziano i sospetti – correnti nelle chiacchiere dei bar e dei bàcari – di chi credeva che dietro a questo malgoverno, che ha portato allo spopolamento di Venezia e alla sua riduzione a museo da cartolina, non ci fosse soltanto una visione del mondo irriguardosa di barene, bricole e palazzi, ma anche qualcos’altro. E si sostanziano le certezze di chi è convinto che il maltrattamento del patrimonio artistico e ambientale non sia una battaglia del weekend per anime belle, bensì una questione assolutamente centrale nella vita politica ed economica del Paese.
c) La latitanza della classe intellettuale, che configura una vera e propria “trahison des clercs”. L’università Ca’ Foscari (dove l’ex ministro Clini, sia detto per inciso, era di casa) negli anni ha dato alla città il sindaco Orsoni (docente di diritto, oltre che notissimo avvocato), l’ex-sindaco Paolo Costa, il rampante ministro da discoteca Gianni De Michelis, nonché l’artefice della politica del turismo che ha portato alla distruzione del Lido, Gianfranco Mossetto. Un recente pamphlet di Raffaele Liucci, valente storico contemporaneo che Ca’ Foscari ha rifiutato, ha mostrato poi quanto uno degli intellettuali italiani più in vista, per anni sindaco di Venezia e indirettamente implicato nel sistema di potere che oggi vacilla (anche se da sempre contrario al MOSE e ai commissariamenti), abbia contribuito con le sue decisioni e i suoi comportamenti al declino morale e civile della città: parlo di Massimo Cacciari, già docente universitario presso lo IUAV prima di finire a insegnare, ben remunerato, al San Raffaele di don Verzè.
Per fortuna, esistono eccezioni: l’urbanista Edoardo Salzano ha da anni denunciato ciò che stava accadendo, predicando in modo autorevole un diverso modello di sviluppo, e così alfieri di molte battaglie sono stati altri docenti IUAV come Stefano Boato o Mariarosa Vittadini; Gherardo Ortalli, storico di Ca’ Foscari, ha animato insieme ad altri le battaglie di Italia Nostra, il cui sito è forse il punto di riferimento più importante per chi si interessi ai mali della città; Silvio Testa per il Comitato Grandi Navi, e i molti autori della collana “Occhi aperti su Venezia” hanno contribuito, con pochi mezzi e mille ostilità, ad abbozzare una forma di attenta e documentata controinformazione; rimane indimenticato l’articolo di Enrico Tantucci, così come più di recente il desolante quadro tracciato da Anna Somers Cocks sulla New York Review of Books.
Ma il punto è proprio questo: le battaglie per la difesa del patrimonio, dello spazio pubblico e delle scelte condivise – battaglie che ovviamente non possono né intendono sfociare sul terreno giudiziario, di esclusiva spettanza alla magistratura – non sono nemmeno condivise dalla gran parte degli “intellettuali”, e vengono spesso liquidate come battaglie di retroguardia, animate da spirito conservatore e misoneista, bastoni fra le ruote al libero sviluppo dell’impresa. Perché altrimenti l’ostilità preconcetta nei confronti di coloro che, da posizioni politiche spesso diverse fra loro, si sono costituiti in comitati e gruppi per denunziare ciò che essi, più e meglio di altri, vedono di storto? Non sarebbe anzi questa la vera manifestazione dello spirito di cittadinanza iscritto nella nostra legislazione e fin negli istituti del diritto romano, come ricorda Salvatore Settis in Azione popolare? L’alternativa, allegramente praticata fino ad oggi, è quella di scoprire a posteriori che dietro scelte assurde o progetti allucinanti giravano i soldi, i favori, le combines; e di delegare tutto, una volta di più, alle manette.