La crisi in Sud Sudan, spiegata dall’inizio
Si teme che nello stato più giovane del mondo stia cominciando una nuova guerra civile: c'entrano ragioni antiche ma forse anche un banale litigio tra due persone
Da cinque giorni sono in corso combattimenti nel Sud Sudan, lo stato più giovane del mondo. Decine di persone sono morte e decine di migliaia hanno abbandonato le loro case. Si teme che nel paese, indipendente da poco più di due anni, stia cominciando una nuova guerra civile dopo quella, lunghissima e sanguinosa, che si è combattuta contro il nord e che ha portato infine all’indipendenza. Alla base del conflitto ci sono divisioni etniche molto antiche e l’incapacità del governo di rispondere in modo efficace ai gravi problemi del paese.
Il paese più giovane del mondo
Fin dall’indipendenza a metà degli anni Cinquanta, il Sudan unitario era un paese in cui il potere rimase sempre concentrato in un ristretto numero di famiglie, appartenenti a tre piccole tribù arabe che provengono dalla valle del Nilo, nel nord del paese. Le tre tribù ammontano al cinque per cento della popolazione sudanese, e negli anni hanno sempre favorito le proprie regioni di origine e l’area della capitale Khartoum. Di conseguenza, nel paese sono nate rivendicazioni territoriali e movimenti di rivolta, a cui per lungo tempo il governo sudanese ha risposto con la violenza: il caso più drammatico è probabilmente quello del conflitto in Darfur, nell’ovest del Sudan.
Nelle regioni meridionali del paese – un’area vasta il doppio dell’Italia – è andata avanti per oltre vent’anni una guerra civile tra le milizie locali e l’esercito governativo sudanese, che ha causato più di due milioni di morti e ha reso un deserto le aree di confine, i cui abitanti sono morti o sono scappati nei campi profughi dell’Etiopia o del Kenya. Nel 2005 si è arrivati a un accordo di pace tra il governo centrale e il SPLA (Sudan People’s Liberation Army), la sigla che riuniva i combattenti ribelli.
Il processo che ha portato all’indipendenza è stato lungo e complicato e si è concluso, dopo un referendum a gennaio 2011 in cui il 99,57 per cento degli abitanti ha votato in favore della secessione, solo il 9 luglio 2011, data della dichiarazione di indipendenza.
Ma il futuro del nuovo paese è minacciato da due ordini di problemi: il primo riguarda il suo vicino settentrionale e il secondo i suoi affari interni. Negli anni della guerriglia, infatti, l’unica cosa che teneva insieme i molti gruppi etnici del sud era l’odio verso il governo di Khartoum e la guida carismatica del leader ribelle John Garang. Questi è morto in un incidente nel 2005, durante un volo in elicottero, e le divisioni etniche sono tornate presto a pesare nel nuovo stato. Al momento dell’indipendenza erano attivi almeno sette distinti gruppi ribelli. Nello stato del Jonglei un gruppo ribelle guidato da David Yau Yau – un ex politico che ha perso le elezioni locali nel 2010 – ha organizzato a ottobre un attacco in cui sono morte decine di persone, mentre a febbraio del 2013 oltre cento persone sono rimaste uccise in scontri tra i gruppi etnici dei Murle e dei Nuer. Le stesse milizie del SPLA, che è più o meno l’unico partito del paese, sono accusate di brutalità nella loro risposta militare, con massacri di civili e stupri.
La seconda questione riguarda la gestione delle risorse petrolifere: circa l’80 per cento del petrolio del vecchio stato unitario si trova nel sud, ma gli oleodotti che ne permettono la vendita e l’esportazione attraversano il nord, dato che le regioni meridionali non hanno sbocchi sul mare. Per molti anni, questo ha permesso al governo di Khartoum di tenere per sé gran parte dei proventi della vendita, e si è rivelato molto difficile raggiungere un accordo tra i due stati per un nuovo equilibrio.
Il governo del Sud Sudan, inoltre, si è già dimostrato del tutto inefficiente nell’affrontare i gravissimi problemi del paese, che appena nato era già uno dei più poveri del mondo: con circa 8 milioni di abitanti, ha il peggior tasso mondiale di mortalità delle donne a causa del parto, l’84 per cento delle donne è analfabeta, la maggior parte dei bambini sotto i 13 anni non va a scuola e un bambino su sette muore prima di compiere cinque anni.
Cosa succede in Sud Sudan
L’ultima crisi ha avuto un inizio piuttosto confuso. Lunedì 16 dicembre, abbandonando il suo solito abito nero con il cappello da cowboy, che lo aveva reso piuttosto riconoscibile tra i capi di stato africani, il presidente Salva Kiir è comparso sulla televisione di stato SSTV indossando un’uniforme militare. Ha annunciato che il governo era “in pieno controllo” della situazione nella capitale, Juba, ma ha dichiarato subito dopo l’istituzione di un coprifuoco dalle 18 alle sei di mattina. Poco dopo, SSTV ha interrotto la programmazione per molte ore.
Il giorno precedente le agenzie di stampa internazionali avevano riportato la notizia di scontri a fuoco nella capitale. Con il passare dei giorni, e dopo l’annuncio televisivo di Kiir, si è scoperto che il conflitto è nato molto probabilmente nello stesso entourage di Kiir, più precisamente nella sua Guardia presidenziale. L’origine degli scontri è nell’inimicizia tra i Dinka, il gruppo etnico di Kiir e il più numeroso del paese, e i Nuer a cui appartiene l’ex vicepresidente Riek Machar, che Salva Kiir ha cacciato a fine luglio del 2013.
L’inimicizia non è nuova tra i due gruppi, ma la nomina di Kiir e di Machar sembrava essere una garanzia di unità per la stabilità del paese, anche perché il presidente era conosciuto per la sua personalità tranquilla e le sue iniziative a favore della riconciliazione con i capi ribelli più riottosi. La rimozione del vicepresidente – insieme a tutti i ministri del governo – ha fatto nascere tensioni ai massimi livelli del giovane stato che sono peggiorate con il passare dei mesi. Dopo i combattimenti degli ultimi giorni, il presidente Kiir ha accusato esplicitamente il suo ex vice di aver complottato per rovesciarlo. Machar, da parte sua, ha negato tutto tramite un portavoce e attualmente non si sa di preciso dove sia.
La situazione peggiora
Non si sa neppure come siano cominciati i combattimenti – pare che, invece di un golpe organizzato, tutto sia partito da un litigio tra un soldato di etnia Dinka e un Nuer nell’ospedale militare – ma se inizialmente gli scontri sembravano circoscritti, la dimensione del conflitto è aumentata con il passare delle ore. I combattimenti si sono allargati da Juba a diverse zone circostanti e mercoledì 18 dicembre sono stati evacuati molti stranieri in un volo di emergenza organizzato dalle autorità americane.
Quello stesso giorno, il ministro degli Interni del Sud Sudan Michael Makuei Lueth ha detto che almeno 75 persone sono morte negli scontri: l’agenzia di stampa Reuters, invece, ha parlato di oltre 400 morti e 800 feriti, citando stime delle Nazioni Unite. Decine di migliaia di civili hanno cominciato a fuggire dai combattimenti: il segretario generale dell’ONU Ban Ki Moon ha detto che fino a ventimila persone si sono rifugiate in due strutture delle Nazioni Unite nel paese. Giovedì 19 dicembre la situazione è peggiorata ulteriormente e diversi commentatori hanno cominciato a parlare del pericolo di una nuova guerra civile nel paese. Nel pomeriggio di giovedì è arrivata anche la notizia che, nella città di Akobo, una base della forza di peacekeeping delle Nazioni Unite in Sud Sudan (denominata UNMISS) è stata attaccata. Due soldati indiani del contingente della base sono stati uccisi.
L’ONU è presente da anni nel paese, ma le relazioni con le autorità locali sono state spesso difficili: come ricorda il New York Times, il governo del Sud Sudan ha accusato l’organizzazione internazionale di non essere imparziale nel conflitto con il Sudan. Ad aprile di quest’anno, sette dipendenti dell’ONU e cinque soldati indiani che li accompagnavano sono stati uccisi in un’imboscata nello stato di Jonglei, dove si trova Akobo. Un anno fa, un elicottero dell’ONU fu abbattutto “per errore” dall’esercito del Sud Sudan, uccidendo i quattro membri dell’equipaggio russi.