Il rogo alla ThyssenKrupp, sei anni fa
La storia terribile di uno dei più gravi incidenti sul lavoro della storia italiana recente
Poco dopo la mezzanotte del 6 dicembre 2007 si sviluppò un incendio lungo la linea 5 dell’acciaieria Thyssenkrupp di Torino. Otto operai intervenuti per spegnerlo furono investiti da un’improvvisa fiammata. Nel corso delle settimane successive sette di loro morirono per le ustioni riportate: Antonio Schiavone, Giuseppe Demasi (il più giovane, 26 anni), Angelo Laurino, Roberto Scola, Rosario Rodinò, Rocco Marzo e Bruno Santin. Fu uno dei più gravi incidenti sul lavoro della storia recente italiana.
La ThyssenKrupp di Torino
La ThyssenKrupp è una delle più grandi multinazionali dell’acciaio d’Europa. La società arrivò a Torino negli anni Novanta, il periodo in cui le grandi acciaierie controllate dallo Stato vennero privatizzate. La Thyssenkrupp acquistò nel 1994 la Acciai Speciali di Terni, di cui faceva parte anche l’impianto di Torino. Dopo pochi anni quest’ultimo stabilimento fu ritenuto poco funzionale e la ThyssenKrupp decise di concentrare la produzione a Terni.
Gli impianti di Torino avrebbero dovuto chiudere nel 2005 ma una serie di imprevisti, come un incendio che bloccò la produzione in un altro stabilimento, costrinse la società a rinviare la chiusura. Nel luglio del 2007 i sindacati e l’azienda firmarono un accordo per la chiusura entro il settembre del 2008. La prima linea che avrebbe dovuto essere chiusa e spostata a Terni era proprio la numero 5, quella dove sarebbe avvenuto l’incidente.
La decisione di chiudere l’impianto ebbe parecchie conseguenze sulla sicurezza degli operai e su quello che accadde nella notte tra il 5 e il 6 dicembre 2007. In quei giorni l’impianto si trovava a corto di personale perché alcuni operai erano stati licenziati mentre altri erano già stati trasferiti a Terni, soprattutto i più qualificati. La società spingeva allora i pochi operai rimasti a fare straordinari per mantenere continua la produzione in quegli ultimi mesi di lavoro. Due degli operai la notte dell’incidente stavano facendo un turno da 12 ore.
L’installazione di sistemi automatici per rivelare e spegnere incendi venne posticipata a dopo il trasferimento. La manutenzione degli impianti venne ridotta e l’addestramento antincendio del personale non fu portato a termine: dopo l’incidente si scoprì che nessuno degli addetti aveva completato il corso antincendio obbligatorio per legge. Gli estintori che si trovavano sulla linea erano quasi tutti scarichi o scaduti.
La linea 5
L’incendio si sviluppò lungo la linea 5, all’altezza della linea di ricottura e decapaggio. La produzione dell’acciaio sulla linea 5 si svolgeva in questo modo: prima l’acciaio passava attraverso un laminatoio, costituito da alcuni cilindri che lo schiacciavano riducendone l’altezza; l’acciaio così schiacciato veniva avvolto in fogli di carta per evitare che si graffiasse, veniva accumulato e poi di nuovo svolto per passare alle fasi di ricottura e decapaggio.
La prima fase – il procedimento definito “a freddo”, anche se avviene a più di 1.000 gradi – prevede di far passare l’acciaio in un forno e “cuocerlo” a una temperatura inferiore a quella di fusione. Nella seconda fase l’acciaio “cotto” viene fatto passare all’interno di vasche piene di acido per rimuovere le ultime impurità (chi vuole approfondire può leggere la relazione di Massimo Zucchetti, professore di Sicurezza e Analisi di Rischio al Politecnico di Torino e Consulente Tecnico di parte civile nel procedimento contro i dirigenti).
I rischi
L’intero procedimento era considerato come ad “alto rischio d’incendio”: per questo erano necessari estintori, sistemi di spegnimento automatico delle fiamme e un particolare addestramento antincendio per il personale. Per mantenere le lastre lubrificate si utilizzava un olio combustibile molto simile al cherosene e quindi altamente infiammabile. Questo olio impregnava spesso la carta con cui venivano coperte le lastre di metallo. Prima del processo di ricottura la carta quindi doveva essere eliminata: a causa della ridotta manutenzione, però, questo non avveniva spesso.
Residui di carta finivano spesso per accumularsi lungo i macchinari e in altri punti della linea. Questo fatto, unito alle lunghe linee d’acciaio che, trasportate dai nastri, potevano facilmente causare scintille, rendeva la situazione molto pericoloso. Come se non bastasse, si verificavano spesso perdite dai circuiti di mandata dell’olio – oppure questo gocciolava semplicemente dalle lastre – formando delle vere e proprie pozzanghere di cherosene sotto i macchinari.
Con l’impianto in smaltimento, una ridotta manutenzione e i tagli effettuati all’azienda di pulizia che doveva occuparsi della rimozione della carta, questi potenziali fattori di incendio finirono per accumularsi lungo tutta la linea 5.
A rendere ancora più gravi i rischi contribuì il fatto che, stando ai risultati delle indagini, lungo la linea si era sviluppato un atteggiamento di “sufficienza” nei confronti dei rischi di incendio. Durante l’estate c’erano già stati dei piccoli focolai, in genere causati da scintille che incendiavano la carta oleata. Questi piccoli incendi erano stati gestiti dagli operai senza far intervenire i vigili del fuoco. Lo stesso regolamento aziendale prevedeva di adottare procedure particolari soltanto in caso di gravi incendi, ma senza specificare cosa fosse “un incendio grave”. Agli operai era apertamente sconsigliato di premere il pulsante che avrebbe portato all’arresto della linea: se la linea si fosse arrestata, infatti, l’acciaio sui nastri si sarebbe bloccato nel forno per la ricottura o nelle vasche di acido, diventando quindi inutilizzabile.
La notte dell’incidente quel pulsante non fu premuto. Premerlo probabilmente non avrebbe impedito l’incendio, ma il fatto che nessuno ci provò nemmeno, secondo l’accusa, dimostra quale fosse il clima alla Thysssenkrupp di Torino: bisognava tirare la cinghia, sorvolare sui rischi e andare avanti almeno fino a febbraio, quando la linea sarebbe stata chiusa, nonostante i pericoli e i piccoli incidenti.
L’incendio
Uno di questi piccoli incidenti era avvenuto poche ora prima dell’incendio. La linea era stata arrestata per un intervento di manutenzione e di rimozione della carta che si era accumulata. Poco dopo mezzanotte la produzione venne ripresa. Non è ancora chiaro cosa accadde dopo.
Secondo una delle ricostruzioni più credibili, una delle linee che trasportavano l’acciaio si trovò leggermente fuori asse, facendo si che la lamina d’acciaio sfregasse contro una parete. Questo produsse una serie di scintille che finirono con l’incendiare la carta oleata accumulata sotto la linea, che non era stata rimossa durante la manutenzione di poco prima.
Gli operai, che si trovavano al sicuro in una cabina protetta dove potevano seguire la produzione, scesero per spegnere l’incendio, pensando che fosse uno dei soliti focolai simili a quello scoppiato l’estate precedente. Scesero in otto: Antonio Boccuzzi, Antonio Schiavone, Giuseppe Demasi, Angelo Laurino, Roberto Scola, Rosario Rodinò, Rocco Marzo e Bruno Santin.
Molti degli estintori lungo la linea non funzionavano o avevano pochissima carica e gli operai non riuscirono a spegnere l’incendio. Boccuzzi si allontanò per collegare una manichetta a un idrante. Si trovava al riparo, dietro un muletto, quando i suoi compagni che tenevano in mano la lancia dell’idrante gli fecero cenno di aprire l’acqua. Non fece in tempo.
In quei pochi minuti l’incendio si era sviluppato, alimentato dalle pozzanghere di cherosene. Le fiamme arrivarono a lambire uno dei tubi che portavano ad altissima pressione l’olio per lubrificare. Il tubo si ruppe e l’olio cominciò a fuoriuscire. A causa dell’improvviso sbalzo di pressione l’olio venne vaporizzato in una nube di microgocce lanciate a grandissima velocità. La nube fu immediatamente innescata dall’incendio ed investì tutti gli operai: l’effetto fu come quello di un gigantesco lanciafiamme. Boccuzzi si salvò con ustioni leggere soltanto grazie al riparo che gli aveva offerto il muletto.
Il racconto di Antonio Boccuzzi, il giorno dopo l’incidente
Poco dopo l’esplosione, sulla linea 5 arrivò la squadra antincendio dell’impianto e furono chiamati i vigili del fuoco. Le testimonianze di chi si trovava lì subito dopo la fiammata sono incredibilmente crude. Alcuni degli operai investiti dalla fiammata riuscivano ancora a camminare e a parlare, anche se erano stati accecati dalle fiamme ed avevano il corpo ricoperto di ustioni (uno dei feriti chiese ai suoi compagni di descrivergli che cosa gli era successo alla faccia, altri avevano muscoli e ossa scoperte). I loro compagni non osavano toccarli, pensando che gli avrebbero causato danni ancora più gravi e li guidarono fuori a voce.
Soltanto uno dei sette operai morì sul colpo. Gli altri sei morirono a causa delle ustioni anche a settimane di distanza. L’incendio, alimentato dal cherosene fuoriuscito da molti altri tubi scoppiati, fu completamente spento soltanto alle 6 di mattina (qui potete trovare una raccolta di documenti sull’incidente, comprese alcune delle testimonianze dei soccorritori).
Il processo
Il processo di primo grado riconobbe le responsabilità degli amministratori della ThyssenKrupp e dei gestori dell’impianto di Torino. Furono rinvenute diverse gravi mancanze nella sicurezza e nella manutenzione dello stabilimento e si accertò che erano causate da una decisione dei vertici dell’azienda, intenzionati a risparmiare il più possibile nell’attesa di chiudere l’impianto e di trasferirlo a Terni.
Nell’aprile 2011 il Tribunale di Torino condannò in primo grado l’amministratore delegato della ThyssenKrupp, Harald Espenhahn, a 16 anni per omicidio volontario (qui potete leggere la sentenza). Numerosi dirigenti dell’impresa e dello stabilimento di Torino vennero condannati a pene che andavano dai 9 ai 13 anni. Era la prima volta che in un processo per incidenti sul lavoro venivano emesse condanne così pesanti.
Nel febbraio 2013 la Corte d’Appello ha respinto in secondo grado l’ipotesi di omicidio volontario. I dirigenti sono stati condannati per omicidio colposo a pene che vanno dai 7 ai 10 anni (qui potete leggere la sentenza). Le famiglie delle vittime avevano rinunciato già in primo grado a costituirsi parte civile nel processo contro i dirigenti in cambio di un accordo da 13 milioni di euro. L’accusa ha fatto ricorso alla Corte di Cassazione ed il processo è attualmente in corso.